Sono stati utilizzati pi? di 180 differenti tipi di terapia nel trattamento e nel management della sindrome della vescica dolorosa / cistite interstiziale, tuttavia le evidenze ottenute dagli studi clinici non sono conclusive.
Lo studio, coordinato da Ricercatori dell?Harvard Urological Diseases Research Center, ha avuto come obiettivo quello di valutare l?approccio farmacologico alla sindrome della vescica dolorosa / cistite interstiziale, di quantificare le dimensioni dell?effetto degli studi randomizzati e di iniziare a creare un consenso clinico riguardo al trattamento della sindrome della vescica dolorosa / cistite interstiziale.
Sono stati identificati studi clinici controllati e randomizzati per il trattamento farmacologico dei pazienti con sindrome della vescica dolorosa / cistite interstiziale, diagnosticata secondo i criteri del National Institute of Diabetes and Digestive and Kidney Diseases ( NIDDKD ) o in base a criteri operativi.
I 21 studi clinici randomizzati e controllati hanno riguaradato un totale di 1.470 pazienti.
Solo gli studi con il Pentosano polisolfato sodico ( Elmiron ) avevano numeri sufficienti di pazienti per permettere un?analisi pooled degli effetti.
In accordo al modello ad effetti casuali, la terapia a base di Pentosano polisolfato sodico sembrerebbe produrre benefici, con un rischio relativo di 1,78 per il miglioramento, riportato dai pazienti, dei sintomi.
Recenti risultati suggeriscono anche l?efficacia della terapia con Dimetilsulfossido ( DMSO ) ed Amitriptilina ( Laroxyl ). L?Idrossizina ( Atarax ), il bacillo Calmette-Guerin per via intravescicale e la terapia con Resiniferatossina ( Rtx ) non si sono dimostrati efficaci, ma i dati non sono conclusivi a causa di limiti metodologici.
Dall?analisi ? emerso che il Pentosano polisolfato sodico potrebbe fornire modesti benefici per i sintomi di vescica dolorosa / cistite interstiziale. Non ci sono evidenze di efficacia per altri trattamenti farmacologici.
Dimitrakov J et al, Arch Intern Med 2007; 167: 1922-1929
Lo studio ENDURANCE ha valutato l?efficacia di Vardenafil ( Levitra ), un inibitore della fosfodiesterasi di tipo 5 ( PDE-5 ), negli uomini con disfunzione erettile, misurando la durata dell?erezione in grado di garantire un rapporto sessuale soddisfacente.
Lo studio multicentrico, cross-over, consisteva in una fase run-in senza trattamento di 4 settimane seguita da randomizzazione a un dosaggio fisso di Vardenafil 10 mg oppure a placebo, da somministrarsi 1 ora prima del rapporto sessuale. I due periodi di trattamento in doppio cieco avevano la durata di 4 settimane separate da 1 settimana di wash-out.
L?endpoint primario di efficacia era rappresentato dalla durata dell?erezione, definita come il tempo dall?erezione percepita sufficientemente valida da permettere la penetrazione fino all?uscita del pene dalla vagina dopo un rapporto sessuale soddisfacente alla scala SEP-3 ( Sexual Encounter Profile Question ). Gli endpoint di efficacia secondaria comprendevano valutazioni alle scale SEP-2 e SEP-3 del dominio funzione erettile, alla scala HEF ( International Index of Erectile Function ), il cambiamento del basale della durata dell?erezione e della durata dell?erezione e della durata dell?erezione senza rapporto sessuale soddisfacente.
Dei 191 uomini inclusi nella popolazione esaminata per la sicurezza, il 40% presentava al basale disfunzione erettile moderata e il 33% una forma grave.
La durata media dell?erezione che ha prodotto un rapporto sessuale soddisfacente ? risultata pi? lunga con il Vardenafil rispetto al placebo ( p<0.001 ), con l?eccezione della durata dell?erezione senza rapporto sessuale soddisfacente.
Vardenafil ? risultato ben tollerato; la maggior parte degli effetti indesiderati era di lieve-media intensit?.
Lo studio ha dimostrato che il trattamento con Vardenafil 10 mg fornisce una durata di erezione sufficiente per un rapporto sessuale soddisfacente negli uomini con disfunzione erettile statisticamente superiore rispetto al placebo.
Rosenberg MT et al, Int J Clin Pract 2009; 63: 27-34
Negli Stati Uniti, la maggior parte degli uomini di et? superiore ai 50 anni si sottopone al test per la ricerca dell?antigene specifico per la prostata ( PSA ), nonostante l?assenza di evidenza di un beneficio netto.negli studi clinici randomizzati, di ampie dimensioni. Quasi il 95% degli urologi maschi e il 78% dei medici di medicina generale che hanno 50 anni o pi? hanno riferito di aver eseguito il test del PSA su se stessi. A partire dal 1992, 5 anni dopo l?introduzione del test del PSA, le morti negli Stati Uniti per carcinoma prostatico sono scese del 4% all?anno.
Due studi di ampie dimensioni hanno cercato di dirimere la controversia sull?effettiva utilit? del test del PSA.
Nello studio statunitense PLCO ( Prostate, Lung, Colorectal and Ovarian ) Cancer Screening Trial, non ? stato osservato nessun beneficio sulla mortalit? dallo screening combinato test del PSA ed esame rettale digitale nel corso di un periodo di follow-up mediano di 11 anni. Nello studio europeo ERSPC ( European Randomized Study of Screening for Prostate Cancer ), lo screening per la ricerca di PSA, senza esame rettale digitale, ? risultato associato a una riduzione relativa del 20% nella percentuale di mortalit? da tumore prostatico, durante un periodo osservazionale di 9 anni, con una riduzione assoluta di circa 7 morti per cancro della prostata ogni 10.000 uomini sottoposti a screening.
Lo studio ERSPC ? una collezione di studi compiuti in diversi Paesi, con differenti criteri di eleggibilit?, schemi di randomizzazione, e strategie per lo screening e il follow-up. Le biopsie erano raccomandate per i soggetti con livelli di PSA superiori a 3 ng/ml. L?analisi ad interim dello studio ERSPC ha rivelato una riduzione del 20% nella mortalit? correlata al tumore della prostata ( il valore P aggiustato ? stato pari a 0.04 ). I 73.000 uomini nel gruppo di screening sono stati sottoposti a pi? di 17.000 biopsie, ed hanno presentato un rischio cumulativo sostanzialmente pi? alto di ricevere la diagnosi di carcinoma della prostata rispetto al gruppo controllo ( 820 vs 480 per 10.000 uomini ). La diagnosi ? risultata associata a una pi? alta incidenza di tumore, con 277 versus 100 per 10.000 uomini sottoposti a prostatectomia radicale e 220 versus 123 per 10.000 sottoposti a radioterapia con o senza trattamento ormonale, rispettivamente.
Sebbene le stime del beneficio dello screening siano qualche volta maggiori per gli uomini che si sottopongono al test, gli effetti indesiderati potrebbero essere proporzionalmente pi? alti rispetto agli uomini che non si sottopongono al test.
I risultati dello studio ERSPC hanno anche evidenziato che ? necessaria cautela nel sottoporre a screening uomini di et? superiore ai 69 anni, per un precoce trend verso una pi? alta mortalit? per tumore della prostata con lo screening in questo sottogruppo d?et?, sebbene questa scoperta possa essere solo casuale.
Nonostante un pi? lungo periodo osservazionale mediano, lo studio PLCO ha dimensioni pi? piccole rispetto allo studio ERSPC, con 174 morti per tumore alla prostata contro le 540 morti dello studio ERSPC. Il protocollo di screening era omogeneo nei vari Centri, con un arruolamento di soggetti di et? compresa tra 55 e 74 anni, e test annuali di PSA per 6 anni ed esami rettali digitali per 4 anni, con una compliance dell?85%. I soggetti che nel gruppo screening presentavano un esame rettale digitale sospetto o un livello di PSA superiore a 4 ng/ml, hanno ricevuto una raccomandazione per un?ulteriore valutazione. Lo studio ? attualmente in corso.
Anche se lo studio PLCO non ha mostrato nessun significativo effetto sulla mortalit? correlata al cancro della prostata, a oggi, l?ampio intervallo di confidenza ne limita le conclusioni. Altre probabili spiegazioni per i risultati negativi sono gli alti livelli di pre-screening nella popolazione PLCO e la contaminazione del gruppo controllo ( circa la met? di questi ultimi soggetti si era sottoposta a test del PSA da 5 anni ).
Secondo Michael J Barry del Massachusetts General Hospital e Harvard Medical School a Boston negli Stati Uniti, lo screening seriale mediante test del PSA ha un modesto effetto sulla mortalit? per cancro alla prostata nel corso della prima decade di follow-up. Questo beneficio ? controbilanciato dall?iperdiagnosi e dall?ipertrattamento.
Pi? 75%. ? il rischio aggiuntivo di sviluppare sintomi asmatici e malattie respiratorie diverse se si soggiorna abitualmente in abitazioni ed edifici umidi e con elevata concentrazione di muffe. A segnalarlo, sottolineando l?importanza e l?urgenza di migliorare la qualit? dell?aria degli ambienti di vita e di lavoro e fornendo precise indicazioni evidence-based in questo senso, sono le Who guidelines on indoor air quality: dampness and mould, elaborate da un gruppo di 36 tra i maggiori esperti internazionali in materia, coordinati dall?Ufficio Regionale europeo dell?Organizzazione mondiale della sanit? di Copenhagen (Danimarca).
?A prescindere dallo stile di vita e dagli impegni quotidiani, la stragrande maggioranza delle persone, in tutto il mondo, passa gran parte del proprio tempo in ambienti chiusi? spiega Srdan Matic, direttore della Noncommunicable diseases and Environment Unit dell?Ufficio Regionale europeo dell?Oms. ?La qualit? dell?aria presente in abitazioni, uffici, scuole, ospedali, infrastrutture produttive e cos? via ha, di conseguenza, un impatto sostanziale sulla salute generale e su quella respiratoria in particolare. Al punto che un?aria scadente pu? promuovere o scatenare patologie. Siamo convinti che queste Linee guida, le prime a concentrarsi sul tema specifico dell?inquinamento indoor da umidit? e muffe, possano offrire un punto di riferimento importante per prendere coscienza del problema e mettere a punto strategie di prevenzione e recupero in grado di migliorare il benessere generale della popolazione, riducendone la morbilit? e aumentando la produttivit? con importanti benefici, non soltanto sul piano sanitario, ma anche su quello socioeconomico?.
Il documento, destinato alla divulgazione a livello globale, ? soltanto il primo di una serie di pubblicazioni che l?Oms sta elaborando sul tema dell?inquinamento indoor. A seguire, nei prossimi mesi, si renderanno disponibili linee guida analoghe su singoli composti chimici che tendono a concentrarsi nei luoghi chiusi e sui prodotti da combustione tipicamente presenti negli ambienti domestici e potenzialmente lesivi per l?uomo.
Target terapeutico della chemioterapia devono diventare le cellule tumorali circolanti (CTC), piuttosto che la massa tumorale primitiva. Lo suggeriscono i dati di uno studio retrospettivo del Dipartimento di Medicina Sperimentale dell’Universit? ?La Sapienza? svolto in collaborazione con l’MD Anderson Cancer Center di Houston presentati all’XI Milan Breast Cancer Conference di Milano, organizzata dall?Istituto Europeo di Oncologia. ? Spiega Giuseppe Naso del Dipartimento di Medicina Sperimentale e Patologia,?Divisione di Oncologia dell’Universit? La Sapienza – Policlinico Umberto I: “Si tratta del primo studio al mondo che cerca di dimostrare – per ora retrospettivamente – un beneficio clinico derivante dal trattamento delle CTC. L’ipotesi di partenza ? che non tutte le cellule che compongono la massa tumorale siano ugualmente responsabili del processo di metastatizzazione, e che quelle poche responsabili di questo mortale processo siano anche poco sensibili alla chemioterapia. La nostra idea ? stata disegnare la chemioterapia andando prima a stabilire la chemiosensibilit? delle cellule tumorali circolanti retrospettivamente?. Da alcuni anni sono disponibili metodiche per la determinazione del numero delle CTC e le evidenze ad oggi disponibili permettono di ridefinire l?approccio terapeutico alla malattia avanzata riducendo ad esempio l?esposizione per lungo tempo a cure inefficaci e aprono una nuova era nello sviluppo delle terapie personalizzate.? ?Questo studio, se prospetticamente validato, potrebbe rappresentare l?inizio di una nuova era nella terapia dei tumori ?, ha affermato Massimo Cristofanilli, Associate Professor of Medicine all?MD Anderson Cancer Center. ?Se infatti le CTC sono le cellule che sostengono la metastatizzazione, in quanto pi? resistenti ai trattamenti chemioterapici convenzionali?, spiega Paola Gazzaniga del Dipartimento di Medicina Sperimentale dell’Universit? La Sapienza, ?una terapia mirata sulla caratterizzazione molecolare?delle CTC potrebbe portare ad un beneficio clinico superiore sia per ci? che riguarda la chemioterapia che l?ormonoterapia?.? ?Ora per? deve partire uno studio prospettico randomizzato in collaborazione con Houston?, conclude Naso, ?che speriamo ci permetta di dimostrare la validit? della nostra tesi?.
Fonte: XI Milan Breast Cancer Conference, Milano 2009.
L’ecografia transesofagea pu? gettare luce sui fattori cardiogeni che contribuiscono ai casi di ischemia cerebrale criptogenetica. Circa in un terzo dei pazienti con ischemia cerebrale non pu? essere identificata alcuna causa definita. In pi? della met? dei pazienti l’ecografia transesofagea garantisce dati rilevanti: i problemi di pi? comune riscontro sono il forame ovale beante e patologie valvolari precedentemente non diagnosticate, ma si rilevano anche sclerosi della valvola aortica e difetti settali atriali. Il forame ovale beante e i problemi settali atriali sono caratteristici dei pazienti pi? giovani, e quindi ne deriva che le ecografie transesofagee sono indicate in tutti i pazienti con ictus criptogenetico a prescindere dalla fascia d’et? a cui appartengono. Cardiovasc Ultrasound online 2009, pubblicato il 22/4
La valutazione combinata di glicemia a digiuno ed HbA1c ? un mezzo efficace per la previsione della comparsa di diabete di tipo 2. Si tratta probabilmente anche di una combinazione di marcatori maggiormente utile rispetto al test della tolleranza al glucosio per via orale nella pratica clinica, in quanto presenta vantaggi economici ed ? disponibile in modo quasi ubiquitario. Sia la glicemia a digiuno che l’HbA1c sono indipendentemente associate al rischio di diabete, ma la loro combinazione porta a una maggiore precisione predittiva, anche stratificando i pazienti in base ai livelli glicemici a digiuno di base.?
Un elevato consumo di acido glutammico, il pi? comune aminoacido nelle proteine vegetali, ? associato ad una diminuzione della pressione: ci? spiega come mai l’elevato consumo di proteine vegetali sia in grado di ottenere questo effetto. L’associazione inversa rimane significativa nelle analisi della regressione che tengono conto di fattori interferenti multipli, sia dietetici che non dietetici. L’acido glutammico dunque, che rappresenta nel complesso il pi? comune aminoacido assunto con la dieta, potrebbe costituire il componente chiave di nuove strategie volte alla terapia dell’ipertensione, anche nell’ambito di trattamenti collaterali da affiancare alla terapia farmacologica tradizionale. (Circulation online 2009, pubblicato il 7/7)
Diffondere tra i pazienti pi? informazioni e motivarli a diventare protagonisti nella gestione della loro malattia: ecco in sintesi gli obiettivi di www.viverelacoliteulcerosa.it, nuovo sito internet che si propone di migliorare la comunicazione tra medico e paziente sulla colite ulcerosa, patologia infiammatoria cronica intestinale (Mici) che colpisce in Italia circa 90 mila persone di tutte le et? ed entrambi i sessi. I sintomi tipici della malattia, fra cui dolori addominali, perdita di peso e, con il passare degli anni, aumento del rischio di asportazione totale del colon, con elevata incidenza di neoplasie colorettali – evidenzia una nota – incidono in maniera rilevante sulla qualit? di vita e, malgrado le cure pi? attente e continue, portano spesso il paziente dal chirurgo. Il peso, per i pazienti affetti da colite ulcerosa, sta proprio nella cronicit? della patologia, che tende a manifestarsi in persone ancora giovani ed ? caratterizzata da recidive che si presentano con frequenza e modalit? diverse da caso a caso, ma che sono comunque immancabili. “La colite ulcerosa – afferma Salvo Leone, presidente della Federazione nazionale Amici (Associazione malattie infiammatorie croniche dell’intestino) – ? una malattia cronica che impatta fortemente sulla qualit? di vita non solo del paziente, ma anche delle persone che vivono con lui e che quindi subiscono disagi, senza avere piena consapevolezza dei vari aspetti della malattia. Da qui l’importanza di un sito da cui i pazienti con colite ulcerosa, ma anche i loro familiari e amici, possono reperire informazioni esaustive e validate da medici”. Oltre a informazioni generali sulla patologia e la sua diffusione, il sito, un progetto educazionale sostenuto da Schering-Plough, propone anche una descrizione sintetica dei segni e sintomi della malattia, un questionario di autovalutazione della sintomatologia da compilare in preparazione alla visita con lo specialista, vari link alle principali societ? scientifiche e organizzazioni di pazienti italiane e internazionali che si occupano di Mici, una sezione di domande e risposte e un glossario.
Le anomalie congenite non cromosomiche sono pi? comuni nella prole di madri adolescenti che altrove. Era gi? noto che queste madri presentassero un aumento del rischio di alcune anomalie specifiche, ma finora poco era noto sul rischio generale. Il profilo di rischio correlato all’et? comunque tende a differire fra le varie nazioni europee, il che suggerisce che non sia l’et? biologica ad essere veramente correlata a queste anomalie, ma piuttosto fattori riproduttivi, sociali, etnici, ambientali o relativi allo stile di vita che si correlano diversamente all’et? materna nelle singole nazioni. Ci? differisce chiaramente da quanto accade con il rischio di anomalie cromosomiche come la sindrome di Down associato all’et? avanzata della madre, che ? lo stesso ovunque, indicando la presenza di fattori di rischio biologici intrinseci. Sono comunque necessari interventi clinici e sanitari per ridurre i fattori di rischio ambientali di anomalie congenite non cromosomiche, prestando particolare attenzione alle giovani madri nelle quali alcuni fattori di rischio sono gi? prevalenti, mentre ? possibile rassicurare le madri di et? pi? avanzata che la loro et? in s? non conferisce alcun aumento del rischio di anomalie congenite non cromosomiche. (BJOG 2009; 116: 1111-9)