La composizione della dieta pu? influenzare la progressione di cirrosi e tumori epatici. I fattori dietetici sono importanti elementi di rischio, e probabilmente anche causali, per obesit?, insulinoresistenza e diabete, che a loro volta sono i pi? importanti fattori di rischio noti di steatosi epatica; ? possibile inoltre che la quantit? e la composizione dei lipidi nella dieta possano tanto promuovere quanto prevenire lo sviluppo o la progressione della steatosi epatica. E’ probabile peraltro che se una certa composizione della dieta influenza questi elementi, essa svolga anche un ruolo nella storia naturale delle tre pi? importanti malattie epatiche, ossia la steatosi epatica non alcolica, l’infezione da Hcv e l’epatopatia alcolica. Precedenti ricerche avevano dimostrato che una dieta ad elevato contenuto di colesterolo ? ingrado di produrre steatosi profonda, infiammazione e fibrosi centrolobulare nell’animale, mentre nello stesso contesto una dieta a basso contenuto di proteine animali ? associata ad una diminuzione del danno epatico e dell’incidenza del carcinoma epatocellulare in presenza di epatite B. Mentre il consumo di colesterolo ? stato associato per la prima volta ad un aumento del rischio di cirrosi o tumore epatico, non sono state riscontrate correlazioni fra elementi dietetici ed infezione da Hcv, il che suggerisce che la presenza di malattie epatiche di base non causa alcuna variazione nella dieta, ma anzi rende pi? plausibile che differenze nell’apporto di proteine, carboidrati, colesterolo ed altri componenti lipidici contribuiscano allo sviluppo di cirrosi o tumori epatici. Hepatology. 2009; 50: 175-84
Il bypass gastrico Roux-en-Y ? associato ad un aumento del rischio postoperatorio di calcolosi renale. Ci? non deve sminuire comunque i benefici di questi interventi, ma mettere in guardia il medico contro una patologia che con le misure appropriate potrebbe essere prevenuta. Bench? sia noto che il bypass gastrico sia seguito da anomalie dell’assetto minerale ed elettrolitico e dall’aumento del rischio di urolitiasi, la prevalenza della calcolosi a seguito dell’intervento era finora sconosciuta. E’ probabile che l’iperossaluria, prevalente dopo questi interventi, sia uno degli eventi scatenanti della formazione dei calcoli. Dato che l’obesit? ? un problema importante a livello di sanit? pubblica e che la chirurgia bariatrica sta divenendo sempre pi? frequente nel suo trattamento, sono necessari con urgenza ulteriori studi per meglio definire l’eziologia dell’iperossaluria e gli altri fattori di rischio di calcolosi in questa popolazione. J Urol. 2009; 181: 2573-7
L’ecocardiografia sotto stress rappresenta un efficace fattore predittivo di eventi cardiaci nei pazienti diabetici. Bench? la valenza prognostica di questo approccio sia stata gi? comprovata nella popolazione generale, finora erano disponibili meno dati sulla sua potenzialit? di prevedere eventi cardiaci nei soggetti diabetici. Il rischio relativo di eventi cardiaci ? pari a 3,63 con un’ecocardiografia sotto sforzo positiva ed a 2,57 con uno stile di vita sedentario. Insieme alle variabili cliniche ed elettrocardiografiche, l’ecocardiografia sotto sforzo ? dunque utile per la previsione della sopravvivenza libera da eventi cardiaci nei pazienti diabetici con cardiopatia ischemica nota o sospetta. Cardiovasc Ultrasound online 2009, pubblicato il 23/6
La cattiva compliance alla terapia ha ricadute negative sia per il paziente che per il sistema sanitario. Per il paziente comporta una prognosi peggiore, qualunque sia la malattia da curare. Per il sistema sanitario comporta costi maggiori. L’abbandono di una terapia cronica avviene in genere entro i primi mesi: poco dopo una dimissione tra il 10% ed il 30% dei pazienti smette di assumere i farmaci o li riduce drasticamente. In genere questo fenomeno ? pi? accentuato per le patologie croniche: ci si aspetterebbe che dopo un episodio grave come un infarto miocardico acuto le cose potessero andare meglio. Invece nel numero del 15 luglio dell’America Journal of Cardiology sono stati pubblicati i risultati di un’analisi che dimostra come l’abbandono della terapia si verifichi anche in questi pazienti (Melloni C, et al. Am J Cardiol 2009;104: 175-181). Lo studio fa parte del progetto MAINTAIN che ha lo scopo di verificare l’aderenza alla terapia Evidence Based tra i pazienti con infarto miocardico acuto senza sopraslivellamento ST arruolati nei registri CRUSADE od ACTION. 1.077 pazienti sono stati seguiti per tre mesi ed ? stato documentato che il 28.2% di loro aveva sospeso una o pi? medicine prescritte alla dimissione. Nello studio non ? emerso un profilo particolare di paziente pi? esposto alla sospensione, n? per quanto riguarda gli aspetti clinici n? quelli socio-economici. Sebbene nella maggior parte dei casi la sospensione sia avvenuta per decisione autonoma dei pazienti (61,5%), va sottolineato come in quasi il 40% la sospensione sia stata consigliata da personale sanitario. Questo dato ? assai rilevante ed ? difficilmente giustificabile con l’eventuale insorgenza di effetti collaterali: potrebbe almeno in parte essere indicativo di una comunicazione tra ospedale e territorio non sufficientemente chiara ovvero di una scarsa conoscenza delle finalit? per le quali i farmaci vengono prescritti (non ? infrequente osservare, ad esempio, che una statina viene sospesa quando i valori di colesterolo sono rientrati nella norma).
L’ipertensione ? un riconosciuto fattore di rischio per la demenza, sia essa di tipo vascolare che da Morbo di Alzheimer. Negli ultimi dieci anni alcuni studi epidemiologici di coorte avevano evidenziato una correlazione positiva tra il trattamento antipertensivo e la riduzione di incidenza di demenza. L’analisi post hoc di grandi trial aveva portato a risultati contrastanti: l’analisi di estensione del SyST-Eur aveva documentato una riduzione del rischio di demenza negli ipertesi trattati con calcio antagonisti diidropiridinici (Forette F. et al. Arch Intern Med. 2002;162:2046-2052); analoga correlazione ? stata osservata nello studio PROGRESS con il perindopril (Tzourio C, et al. Arch Intern Med. 2003;163:1069-1075), mentre nessun effetto si ? evidenziato nello studio SCOPE con il candesartan. Una recente indagine condotta nell’ambito del Cardiovascular Health Study su 1.054 pazienti ipertesi valutati per le funzioni cognitive e seguiti per 6 anni, ha evidenziato che i pazienti trattati con ACE-inibitori che superano la barriera ematoencefalica (per esempio Captopril e Perindopril) avevano una incidenza di demenza significativamente minore rispetto ai trattati con altri antipertensivi o con tutti gli ACE-inibitori considerati insieme come classe (Sink KM, et al. Arch Intern Med. 2009;169:1195-1202). I presupposti biologici di questo dato sono abbastanza facilmente intuibili: nel sistema nervoso centrale ? presente un sistema renina angiotensina tissutale che si sa essere coinvolto – peraltro con meccanismi non ben conosciuti – nei processi cognitivi e della memoria. Dati sperimentali su animali supportano il concetto che questi farmaci possano avere effetti protettivi sul decadimento cognitivo (Wyss JM, et al. Clin Exp Hypertens. 2003;25:455-474). Se questo dato verr? confermato e consolidato da altri riscontri, soprattutto se in trials disegnati ad hoc, potr? forse in futuro essere ridotta l’incidenza di questa patologia che rappresenta un grave problema sociale (viste le previsioni demografiche che prevedono che entro il 2050 il numero di persone con demenza sar? compreso, solo negli USA, fra i 9 ed i 13 milioni).
Sono ormai numerosi gli integratori alimentari liberamente commercializzati per il “trattamento” delle dislipidemie. Fra questi il lievito di riso rosso ( Monascus Purpureus) che viene presentato in compresse da 600 mg contenenti Monacolina e Acido Mevinolinico. Nell’ultimo numero degli Annals of Internal Medicine del mese di giugno, un gruppo di ricercatori dell’Universit? della Pennsylvania ha voluto verificarne l’efficacia su 62 pazienti dislipidemici che avevano dovuto sospendere – perch? intolleranti- le Statine. L’outcome primario dello studio era rivolto a verificare le modificazioni eventualmente indotte dal trattamento sul colesterolo LDL. Outcome secondari erano le variazioni del colesterolo totale, del colesterolo HDL e degli enzimi muscolari. Il trial, controllato e randomizzato, prevedeva che tutti i pazienti modificassero il loro stile di vita con un programma condiviso della durata di 12 settimane e che i soggetti trattati (31) ricevessero in aggiunta 1800 mg di Lievito di Riso Rosso in tre somministrazioni/die per 24 settimane . Nel gruppo di coloro che avevano assunto anche il lievito di riso rosso, il colesterolo LDL era diminuito di 1.11 mmol/L (43 mg/dL) dopo le prime 12 settimane e di 0,90 mmol/L (35 mg/dL) al termine delle 24 settimane previste dalla sperimentazione, con una significativit? statistica elevata sia a 12 ( p < 0.001) che a 24 settimane (p < 0.011) rispetto al gruppo placebo. Nessuna differenza si era invece riscontrata per gli outcome secondari, in particolare non erano emerse alterazioni del CPK e non erano stati riferiti dolori muscolari. Nonostante la limitazione numerica della casistica, il breve tempo di osservazione e l'outcome primario focalizzato esclusivamente sul dato laboratoristico, le conclusioni che gli autori forniscono sono positive per ci? che riguarda la possibilit? di utilizzo dei preparati di lievito di Riso Rosso nei pazienti dislipidemici che sono intolleranti alle Statine. Tuttavia, queste informazioni devono essere attentamente vagliate dai medici e pazienti: un conto ? la modificazione indotta da un trattamento su un dato di laboratorio, seppure importante quale il valore del colesterolo LDL, un altro ? il riflesso che tale trattamento potr? avere sugli end point "hard" quali la riduzione del rischio cardiovascolare per riduzione di IMA o Stroke . (Ann Intern Med ,2009 ,150,12 : 830-839)
Come ? noto, le quote plasmatiche del TSH sono considerate l’indice terapeutico dell’azione della L-tiroxina. Altrettanto noto ? che i pazienti sottoposti a tiroidectomia per una neoplasia della tiroide, specie se con rischio medio-elevato, debbono mantenere soppressi i valori del TSH per una prevenzione delle recidive. Pure noto ? che il cibo pu? condizionare l’assorbimento dell’ormone, tant’? che se ne consiglia l’assunzione almeno 20 minuti prima del pasto. Alcuni endocrinologi americani della Georgetown University di Washington DC hanno voluto verificare tale assunto ed hanno reclutato 65 Pazienti con ipotiroidismo post tiroidectomia per una neoplasia tiroidea suddividendoli in modo randomizzato in tre gruppi a seconda che l’assunzione della tiroxina avvenisse a digiuno, assieme al pasto o al momento di andare a letto. La media dei valori del TSH dopo 8 settimane dall’inizio della terapia era significativamente differente nei pazienti che avevano assunto la L-tiroxina a digiuno (1,06 mIU/L +/- 1,23 ), non solo rispetto a coloro che l’avevano assunta durante il pasto (2,93 mIU/L +/- 3.29), ma anche rispetto ai pazienti cui era stata somministrata al momento di coricarsi (2,19 mIU/L +/- 2,66). Tali risultati, se poco influenti nel management dei pazienti con ipotiroidismo “classico” (per i quali le modeste variazioni del TSH non influenzano n? la qualit? n? la quantit? della vita), lo sono invece molto per coloro che assumono la L-tiroxina dopo una tiroidectomia per una neoplasia della tiroide. Tale condizione infatti pu? essere di molto influenzata nel senso di un aumento delle recidive neoplastiche per una insufficiente soppressione del TSH e pertanto,in questi pazienti ? mandatario che la somministrazione della L-tiroxina avvenga dopo un periodo di digiuno preferibilmente superiore alle 10 ore. (J Clin Endocrinol Metab. 2009 Jul 7)
Fra i pazienti con morbo di Crohn che vengono sottoposti ad intervento chirurgico per la comparsa di stenosi, il numero di stenosi e di plastiche effettuate pu? predire la probabilit? di ostruzioni recidivanti. Questa osservazione si deve probabilmente a fattori correlati alla malattia. La presenza di un maggior numero di stenosi intestinali di per s? non porta ad un aumento delle recidive delle ostruzioni, ma probabilmente rappresenta un marcatore della presenza di una forma patologica pi? grave o avanzata. E’ necessario approfondire gli studi per comprendere meglio le ragioni alla base di queste associazioni, ed identificare potenziali interventi per ridurre i tassi di recidiva. (J Am Coll Surg 2009; 208: 1065-70) Statine e aumento livelli di vitamina D Poich? bassi livelli di Vitamina D sono correlati con un incremento della mortalit? cardiovascolare e visto che le Statine, in grado di interferire con la sintesi del 7-deidrocolesterolo (precursore sia del colesterolo che della Vitamina D) possono determinare una significativa riduzione del rischio di mortalit? cardiovascolare, i Colleghi del Dipartimento di Cardiologia dell’Ospedale di Insegnamento e di Ricerca Kecioren di Ankara, hanno voluto verificare se il trattamento con Rosuvastatina , potesse influenzare oltre che i parametri lipidici anche i livelli plasmatici di 25-idrossi e quelli della 1,25-diidrossivitamina D, aggiungendo fra i vari motivi del successo di questo farmaco anche quello di un aumento delle quote plasmatiche della Vitamina D. Dopo 8 settimane di trattamento, la Rosuvastatina ? stata in grado di aumentare significativamente tanto le quote plasmatiche di 25-idrossivitamina D (da 14.0 ng/ml, range 3.7/ 67, a 36.3 ng/ml, range 3.8 /117; p < 0.001), quanto quelle di 1,25-diidrossivitamina D (da una media di 22.9 +/- 11.2 a quella di 26.6 +/- 9.3 pg/dl; p = 0.023), determinando nel contempo un consensuale decremento dei livelli di Fosfatasi Alcalina (da una media di 17.7 U/l, range 2.6/214, a quella di 9.5 U/l, range 2.3/19.1; p < 0.001). Pur con l'usuale considerazione che questi risultati dovranno essere ulteriormente confermati da ulteriori studi, gli autori concludono che la loro ricerca dimostrerebbe un'altra azione pleiotropa delle Statine, Rosuvastatina in particolare, in grado di motivare i significativi successi sulla riduzione del rischio cardiovascolare che non sarebbero esclusivamente mediati dalla loro principale e positiva influenza sul metabolismo lipidico. (Cardiovasc Drugs Ther. 2009 Jun 20)
Una ricerca danese pubblicata su British Medical Journal, mette in discussione il valore assoluto dello screening per il tumore al seno, non senza destare polemiche. Secondo gli autori, i test diagnostici salvano ogni anno migliaia di vite, ma in circa un terzo dei casi, verificato in 5 Paesi, Regno Unito compreso, vengono diagnosticate forme tumorali potenzialmente innocue. Il risultato ? che molte donne vengono sottoposte a chirurgia a chemioterapia bench? non ne abbiano reale bisogno, poich? il tumore identificato, stando almeno alla ricerca del Nordic Cochrane Centre, difficilmente potrebbe svilupparsi e minacciarne la vita. I sostenitori dei programmi di screening fanno notare, sul sito della Bbc online, che nella sola Inghilterra, questi programmi salvano ben 1.400 vite ogni anno, strappando dalla morte quasi quattro donne al giorno. Ma secondo i ricercatori danesi, i risultati dello studio mostrano che gli screening possono condurre a una “sovra-diagnosi” dei casi. E lo stesso Gilbert Welch, un esperto del Dartmouth Institute for Health Policy, in un editoriale che accompagna lo studio ammette che, bench? le mammografie aiutino senz’altro le donne, “possono avere anche la conseguenza di portarne alcune a sottoporsi a trattamenti nonostante non ne abbiano reale necessit?. E non si tratta – ricorda – di terapie leggere”. Sostegno pieno allo screening arriva da Julietta Patnick, a capo proprio del Programma di screening per i tumori del Servizio sanitario britannico, che con una nota polemica ricorda che “una donna su otto sarebbe morta senza il test”.
La met? dei tumori al seno individuati con gli screening di massa se non fosse stata scoperta non avrebbe mai dato segno di s?. E anche escludendo i carcinomi in situ, un terzo di quelli invasivi resta comunque sovra diagnosticato. La conclusione dei ricercatori danesi che hanno appena pubblicato sul British Medical Journal i risultati della loro metanalisi ricalca quella ottenuta nel corso di una revisione Cochrane del 2006. Allora per? si prendevano in considerazione solo studi randomizzati e controllati. Uno degli autori di quel lavoro, Peter C. G?tzsche, direttore del Centro Nordico Cochrane di Copenhagen, insieme con un suo ricercatore, Karsten Juhl J?rgensen, hanno invece ora deciso di passare dal contesto ovattato dei trial a quello della vita reale. Hanno quindi esaminato i tassi di incidenza di cancro al seno nei sette anni precedenti e nei sette anni successivi all?implementazione dei programmi di screening mammografico in cinque paesi in cui sono stati introdotti con successo e di cui sono stati pubblicati gli esiti. In particolare sono stati raccolti dati attendibili relativi al Regno Unito, allo stato canadese di Manitoba e al New South Wales australiano, alla Svezia e a parti della Norvegia.?Passando al setaccio con un programma di screening una popolazione? ha spiegato G?tzsche, ?? normale che nei primi anni l?incidenza della malattia apparentemente aumenti, perch? vengono individuati casi ancora silenti. Ma questo incremento dovrebbe essere compensato negli anni successivi da un calo nel numero di nuovi casi tra le donne gi? sottoposte a screening. Ora, nel caso del tumore della mammella, questo calo ? stato registrato in tre paesi, ma non in misura tale da modificare la quota di sovra diagnosi, che resta eccessiva?.La sovra diagnosi ? un concetto diverso da quello di falso positivo, che implica una scarsa specificit? dell?esame, il quale segnala come tumore qualcosa che tumore non ?. Quando si parla di sovra diagnosi si intende il riscontro di masse che sono tumorali a tutti gli effetti, e che possono avere tutte le caratteristiche di un cancro invasivo, ma che, lasciate a loro stesse, non avrebbero avuto conseguenze sulla salute e la sopravvivenza dell?individuo.La questione ? all?ordine del giorno nel dibattito sullo screening per il carcinoma della prostata o del polmone, ma ? sempre rimasta in sordina nel caso della mammella. Su questo fronte, l?opportunit? di convincere tutte le donne a sottoporsi allo screening fino a poco tempo fa era fuori discussione. Al limite si discuteva sulle fasce di et? in cui concentrare gli sforzi e sulla frequenza con cui ripetere l?indagine. Qualche mese fa, tuttavia, lo stesso G?tzsche, sempre sulle pagine del British Medical Journal, aveva criticato le autorit? inglesi per aver pubblicato un opuscolo britannico diretto alle donne, per invitarle a sottoporsi allo screening, in cui non si faceva alcun cenno al rischio di sovra diagnosi.?Oggi invece anche in questo campo occorre che la decisione sia lasciata alle dirette interessate? commenta Gilbert Welch, professore di medicina al Dartmouth Institute for Health Policy and Clinical Research, ?che devono essere informate il meglio possibile. Per questo occorre definire qual ? il prezzo da pagare in termini di sovra diagnosi per evitare un decesso: secondo studi precedenti questa relazione sarebbe di 62 morti evitate per 115 sovradiagnosi, per G?tzsche, invece, sarebbe di una a dieci?. Infine, per ridurre l?effetto negativo dello screening, secondo l?esperto statunitense potrebbe essere utile rivedere i criteri soglia oltre i quali si raccomanda la biopsia, allargando un po? le maglie della rete.
Fonte: Brit Med J 2009; 339: b1425 e b2587, Brit Med J 2009; 338: b86