Terapia della glomerulonefrite associata a infezione da virus dell?epatite C

La pi? frequente malattia renale associata all?infezione da virus dell?epatite C ( HCV ) ? la glomerulonefrite membranoproliferativa di tipo I nei pazienti con crioglobulinemia mista di tipo II.

Le principali manifestazioni cliniche della malattia glomerulare nei pazienti infettati con il virus HCV sono la presenza di proteinuria e di ematuria microscopica con o senza alterata funzione renale.

Diversi approcci sono stati tentati nel trattamento della glomerulonefrite associata ad HCV, tra cui la terapia immunosoppressiva ( corticosteroidi e agenti citotossici ), plasmaferesi e agenti antivirali.

Esistono dati limitati riguardanti il trattamento antivirale della glomerulonefrite associata ad HCV, mentre i farmaci immunosoppressori sono stati indicati nella malattia renale crioglobulinemica.

Una meta-analisi di studi clinici controllati ha indicato che l?Interferone a dosaggi standard ? pi? efficace dei farmaci immunosoppressori nell?abbassare la proteinuria dei pazienti con glomerulonefrite crioglobulinemica correlata ad HCV ( odds ratio, OR= 3.86; p= 0.007 ).
Tuttavia mancano i dati di follow-up.

Due distinti approcci dovrebbero essere considerati nel trattamento della glomerulonefrite crioglobulinemica associata ad HCV in base al livello della proteinuria e dell?insufficienza renale.
Studi preliminari con Rituximab ( MabThera ) nella glomerulonefrite crioglobulinemica HCV-correlata hanno fornito risultati incoraggianti, anche se esiste il timore che l?impiego di Rituximab possa essere associato ad attivazione di varie infezioni tra cui HCV. ( Xagena_2008 )

Fabrizi F et al, J Nephrol 2008; 21: 813-825

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Il controllo della frequenza ? da preferire al controllo del ritmo nei pazienti

Lo studio AF-CHF ( Atrial Fibrillation and Congestive Heart Failure ) ? uno studio multicentrico, prospettico, in cui 1.376 pazienti con scompenso cardiaco e frazione d?eiezione ventricolare sinistra uguale o inferiore al 35%, e storia di fibrillazione atriale, sono stati assegnati alla terapia per il controllo del ritmo o alla terapia per il controllo della frequenza.
Durante un periodo osservazionale di 37 mesi, il controllo del ritmo non ha migliorato gli outcome ( esiti ) dei pazienti, rispetto alla strategia per il controllo della frequenza.

La fibrillazione atriale nei pazienti con insufficienza cardiaca e disfunzione ventricolare sinistra ? associata ad una prognosi meno favorevole.
Diversi studi clinici randomizzati hanno mostrato che il controllo del ritmo nei pazienti con fibrillazione atriale non migliora la prognosi, rispetto al controllo della frequenza.

Non ? stato chiarito se la prevenzione della fibrillazione atriale nei pazienti con scompenso cardiaco e disfunzione ventricolare sinistra fosse associata ad un miglioramento della sopravvivenza.

Nello studio AF-CHF, il ritmo sinusale ? stato documentato nel 75-80% dei pazienti nel gruppo controllo del ritmo, mentre nel gruppo controllo della frequenza, la frequenza cardiaca target ? stata raggiunta da pi? dell?80% dei pazienti.
Il 58% dei pazienti nel gruppo controllo del ritmo ha presentato almeno una recidiva di fibrillazione atriale nel corso del periodo osservazionale.

I risultati dello studio AF-CHF rinforzano il concetto che la strategia del controllo della frequenza dovrebbe essere considerata di prima scelta per i pazienti con insufficienza cardiaca e disfunzione ventricolare sinistra, affetti da fibrillazione atriale, e che i farmaci antiaritmici per il controllo del ritmo dovrebbero essere prescritti solo in casi selezionati con persistenza dei sintomi.

Fonte: European Society of Cardiology – Congress, 2008

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La supplementazione a base di olio di pesce non ha effetto sulle aritmie e sulla

Ricercatori dell?University of Alberta, in Canada, hanno compiuto una revisione sistematica e una meta-analisi riguardo agli effetti dell?olio di pesce, cio? dell?Acido Docosaexaenoico ( DHA ) e dell?Acido Eicosapentaenoico ( EPA ) sulla mortalit? e sulle aritmie.

Sono stati esaminati studi clinici randomizzati, controllati, dell?olio di pesce come supplemento dietetico.

L?endpoint primario era rappresentato da eventi aritmici e morte cardiaca improvvisa, mentre gli endpoint secondari comprendevano mortalit? per tutte le cause e morte per cause cardiache.

Hanno incontrato i criteri di inclusione 12 studi per un totale di 32.779 pazienti.

Un effetto neutro ? stato riportato in 3 studi ( n=1.148 ) per appropriato intervento del defibrillatore cardiaco impiantabile ( odds ratio, OR=0.90 ) e in 6 studi ( n=31.111 ) per morte cardiaca improvvisa ( OR=0.81 ).

Undici studi ( n=32.439 e n=32.519 ) hanno fornito dati riguardo agli effetti dell?olio di pesce sulla mortalit? per tutte le cause ( OR=0.92 ) e sulla riduzione della mortalit? cardiovascolare ( OR=0.80 ).

In conclusione, la supplementazione a base di olio di pesce ? associata a una significativa riduzione delle morti da cause cardiache, ma non ha effetto sulle aritmie o sulla mortalit? generale.
Pertanto non ci sono prove per raccomandare un?ottimale formulazione di EPA o DHA.
Inoltre, l?olio di pesce ? un prodotto eterogeneo, e le formulazioni ottimali a base di EPA e DHA devono essere ancora definite.

Leon H et al, Br Med J 2008; Published online

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Tumore della mammella: nuovo test per la stratificazione del rischio

Un nuovo marcatore molecolare potrebbe consentire un’efficace previsione del rischio di incidenza di metastasi nei casi di tumore della mammella. Il nuovo test diagnostico ? stato presentato sulla rivista Clinical Cancer Research.
Il marker, denominato TMEM (Tumor Microenvironment of Metastasis), ? presente in quantit? doppia nel flusso ematico delle pazienti che sviluppano metastasi sistemiche rispetto alle pazienti in cui il tumore della mammella rimane invece localizzato, dichiara Joan Jones, professore di Patologia Clinica presso il Weill Cornell Medical College di New York e primo autore della ricerca.
Le attuali tecniche di previsione delle metastasi nei casi di tumore della mammella di basano sull’analisi delle dimensioni della massa tumorale, sul grado di differenziazione delle cellule cancerose rispetto alla massa sana e sull’eventuale loro diffusione ai linfonodi. Secondo Jones, il nuovo test potrebbe rappresentare un utile ed efficace strumento di diagnosi in quanto la concentrazione del TMEM presente nel sangue riflette il meccanismo di formazione delle metastasi.
?Se la sua efficacia clinica venisse confermata?, sostengono gli autori dello studio, ?si potrebbe effettuare una stratificazione del rischio clinico delle pazienti affette da tumore della mammella e ci? condurrebbe a terapie pi? mirate e a una sostanziale diminuzione della spesa sanitaria pubblica?.
Fonte: Robinson BD et al. Tumor microenvironment of metastasis in human breast carcinoma: a potential prognostic marker linked to hematogenous dissemination. Clin Cancer Res 2009; 15(7):2433-41.

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Epatite C cronica: affidabilit? dell?elastografia transitoria nella diagnosi di

L?elastografia transitoria ? una tecnica che sta ricevendo crescente attenzione come mezzo per valutare la progressione della malattia nei pazienti con epatopatia cronica.

Ricercatori del Dipartimento di Medicina Interna dell?Universit? di Firenze hanno valutato la capacit? dell?elastografia transitoria nel predire lo stadio di fibrosi.

La biopsia epatica e l?elastografia transitoria sono state eseguite nello stesso giorno su 150 pazienti consecutivi con epatite correlata ad infezione da virus dell?epatite C ( HCV ) ( 92 uomini e 58 donne; di et? media: 50.6 anni ).

Le aree sotto la curva in grado di predire un significativo stato fibrotico ( maggiore o uguale a F2 ), una fibrosi avanzata ( maggiore o uguale a F3 ) o la cirrosi sono stati, rispettivamente, pari a 0.91, 0.99 e 0.98.

Il calcolo dei rapporti di probabilit? multilivello ha mostrato che i valori dell?elastografia transitoria inferiori a 6 o maggiori o uguali a 12, minori di 9 o maggiori o uguali a 12, e minori di 12 o maggiori o uguali a 18, indicavano chiaramente, rispettivamente, l?assenza o la presenza di fibrosi significativa, fibrosi avanzata, e la cirrosi.
I valori intermedi potevano non essere associati in modo attendibile all?assenza o alla presenza della condizione target.

La presenza dell?infiammazione ha influenzato in modo significativo le misurazioni dell?elastografia transitoria nei pazienti che non presentavano cirrosi ( p<0.0001 ), anche dopo aggiustamento per lo stadio di fibrosi.
Le misurazioni dell?elastografia transitoria non sono risultate influenzate dal grado di steatosi.

In conclusione, l?elastografia transitoria ? pi? adatta per l?identificazione di pazienti con fibrosi avanzata che quelli con cirrosi o fibrosi significativa.
Nei pazienti in cui i rapporti di probabilit? non sono ottimali e non forniscono un?indicazione attendibile della fase di malattia la biopsia epatica potrebbe essere presa in considerazione quando clinicamente indicata.
L?attivit? necroinfiammatoria, ma non la steatosi, influenza le misurazioni dell?elastografia transitoria nei pazienti che non hanno cirrosi.

Arena U et al, Gut 2008; 57; 1288-1293

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Screening mammografico: danni e benefici

Attualmente le informazioni che il pubblico riceve sullo screening mammografico non sono bilanciate: i potenziali benefici sono eccessivamente enfatizzati, ed i potenziali rischi raramente vengono discussi. La procedura, iniziata intorno ai 50 anni di et?, salva 1,8 vite ogni 1000 donne nell’arco di 15 anni. Il rischio assoluto di decesso da tumore mammario senza alcun tipo di screening ammonta all’uno percento nello stesso periodo di tempo, il che significa che la percentuale di sopravvivenza nelle donne fra i 50 ed i 60 anni non sottoposte a screening ? del 99 percento. Questi dati statistici sulla mammografia sono in netto contrasto con quanto si pubblicizza su questa forma di screening, in base a cui la mammografia “salva la vita”. E’ necessaria una presentazione equilibrata dei fatti alla paziente, il che includerebbe far menzione dei benefici assoluti associati allo screening e la discussione dei potenziali rischi, come falsi positivi, ansia, biopsie non necessarie ed overdiagnosi, cosa che oggi non accade. E’ ovvio che il principio dello screening consista proprio nell’applicare un intervento ad un gran numero di soggetti sani per fare in modo di beneficiare i pochi che hanno la sfortuna di sviluppare la malattia, ma ? giusto che il pubblico conosca le reali statistiche relative alla procedura in modo da prendere decisioni informate sulla propria partecipazione. (BMC Med Inform Decis Mak. 2009; 9: 18, 19 e 20)

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Colecisti rimossa per via vaginale

di Nicola Miglino
Un piccolo foro di 5 mm a livello addominale, per l?ingresso della telecamera. Poi l?inserimento di un endoscopio attraverso la vagina, una minuscola incisione nella parete posteriore dell?organo e, sotto la guida della telecamera, il posizionamento di un bisturi a ultrasuoni per la rimozione della colecisti, estratta, infine, per via vaginale.
Una procedura mininvasiva da poco eseguita con successo al Policlinico San Pietro di Ponte San Pietro (Bg) su una donna di 45 anni con colecisti contenente calcoli e in fase infiammatoria acuta. La tecnica si chiama colecistectomia laparoscopica transvaginale e appartiene alla categoria di interventi di ultima generazione, definita con la sigla Notes (Natural orifice transluminal endoscopic surgery).
Quello raccontato ? uno dei primissimi casi in Italia in cui ? stata utilizzata per la rimozione di una calcolosi colecistica di tipo acuto, con vantaggi in termini di riduzione del dolore e diminuzione della degenza ospedaliera, durata appena 24 ore.
?La nuova procedura offre importanti benefici al paziente rispetto alle procedure laparoscopiche precedenti, gi? poco invasive ma che richiedevano l?esecuzione di pi? fori addominali anzich? di un unico microforo, con effetti post-operatori visibili? afferma Paolo Ubicali, responsabile della Chirurgia del Policlinico San Pietro, che ha realizzato l?intervento insieme ai colleghi Eugenio Jonghi Lavarini e Rolando Brembilla. ?Il grande valore di questa tecnica chirurgica che sfrutta gli orifizi naturali del corpo umano, e che richiede l? utilizzo di strumenti avanzati di microchirurgia, ? legato anche alle prospettive future che apre per il trattamento di patologie pi? complesse?.

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Chirurgia non-cardiaca: nessuna evidenza a supporto dell?uso perioperatorio dei

Le linee guida dell?American College of Cardiology ( ACC ) e dell?American Heart Association ( AHA ) raccomandano l?impiego perioperatorio dei beta-bloccanti per gli interventi chirurgici non cardiaci, sebbene i risultati di alcuni studi clinici non sembrino essere a supporto di questa raccomandazione.

? stata compiuta una revisione della letteratura con l?obiettivo di valutare l?impiego perioperatorio dei beta-bloccanti nei pazienti sottoposti a chirurgia non-cardiaca.

Sono stati individuati 33 studi clinici, che hanno incluso 12.306 pazienti.

I beta-bloccanti non sono risultati associati a nessuna significativa riduzione del rischio di mortalit? totale, mortalit? cardiovascolare o insufficienza cardiaca, ma sono risultati associati a una riduzione ( odds ratio, OR=0.65 ) dell?infarto miocardico non-fatale ( numero di pazienti necessario da trattare per prevenire 1 evento, NNT=63 ) e a una riduzione ( OR=0.36 ) nell?ischemia miocardica ( NNT=16 ) a scapito di un aumento ( OR=2.01 ) negli ictus non-fatali ( numero necessario per il danno, NNH=293 ).

Gli effetti benefici dei beta-bloccanti sono emersi principalmente da studi clinici ad alto rischio di bias.

Riguardo alla sicurezza, i beta-bloccanti erano associati a un alto rischio di bradicardia perioperatoria richiedente trattamento ( NNH=22 ) e ipotensione perioperatoria richiedente trattamento ( NNH=17 ).
Non ? stato riscontrato nessun aumento del rischio di broncospasmo.

In conclusione, l?evidenza non fornisce elementi a supporto della terapia con beta-bloccanti nella prevenzione degli outcome ( esiti ) clinici perioperatori nei pazienti sottoposti a chirurgia non-cardiaca.

Bangalore S et al, Lancet 2008; 372: 1962-1972

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Rischio di tromboembolia venosa ricorrente e difetti trombofilici durante la ter

Uno studio ha valutato se i difetti trombofilici fossero in grado di aumentare la tromboembolia venosa ricorrente durante terapia con Warfarin ( Coumadin ).

Un totale di 661 pazienti con tromboembolia venosa non-provocata che erano stati assegnati in modo casuale a terapia anticoagulante a bassa intensit? ( INR: 1.5-1.9 ) o a intensit? convenzionale ( INR: 2-3 ), sono stati esaminati per la trombofilia.

Il periodo osservazionale ? stato di 2-3 anni.

Uno o pi? difetti trombofilici erano presenti nel 42% dei pazienti.

La percentuale generale di tromboembolia venosa ricorrente ? stata pari allo 0,9% per paziente ? anno.

La tromboembolia venosa ricorrente non ? aumentata in presenza del fattore VI di Leiden ( hazard ratio, HR=0.7 ); della mutazione 202109>A nel gene della prototrombina ( HR=0 ), deficienza di protrombina ( HR=0 ), elevato fattore XI ( HR=0.7 ) o elevati livelli di omocisteina (HR=0.7); ? stato invece osservato un trend verso un aumento con un anticorpo antifosfolipide ( HR=2.9 ).

Rispetto ai pazienti con nessun difetto trombofilico, la percentuale di recidiva non ? aumentata in presenza di uno ( HR=0.7 ) o pi? di un difetto ( HR=0.7 ).

In conclusione, i difetti trombofilici singoli o multipli non sono associati a pi? alto rischio di tromboembolia venosa ricorrente durante terapia con Warfarin.

Kearon C et al, Blood 2008; 112: 4432-4436

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Mammografia: danni e benefici

Attualmente le informazioni che il pubblico riceve sullo screening mammografico non sono bilanciate: i potenziali benefici sono eccessivamente enfatizzati, e i potenziali rischi raramente vengono discussi. La procedura, iniziata intorno ai 50 anni di et?, salva 1,8 vite ogni 1.000 donne nell’arco di 15 anni. Il rischio assoluto di decesso da tumore mammario senza alcun tipo di screening ammonta all’1% nello stesso periodo di tempo, il che significa che la percentuale di sopravvivenza nelle donne fra i 50 ed i 60 anni non sottoposte a screening ? del 99%. Questi dati statistici sulla mammografia sono in netto contrasto con quanto si pubblicizza su questa forma di screening, in base a cui la mammografia “salva la vita”. ? necessaria una presentazione equilibrata dei fatti alla paziente, il che includerebbe far menzione dei benefici assoluti associati allo screening e la discussione dei potenziali rischi, come falsi positivi, ansia, biopsie non necessarie e overdiagnosi, cosa che oggi non accade. ? ovvio che il principio dello screening consista proprio nell’applicare un intervento a un gran numero di soggetti sani per fare in modo di beneficiare i pochi che hanno la sfortuna di sviluppare la malattia, ma ? giusto che il pubblico conosca le reali statistiche relative alla procedura in modo da prendere decisioni informate sulla propria partecipazione.
BMC Med Inform Decis Mak 2009; 9: 18, 19 e 20

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