L?aspirino-resistenza? Difficile da diagnosticare e ancora impossibile da trattare. ? la sconfortante conclusione di uno studio apparso sull?International Journal of Cardiology.
L?aspirino-resistenza ? definita come l?inabilit? del farmaco di inibire la produzione di trombossano A2 COX-1 dipendente e conseguentemente la funzione piastrinica TX-A2 dipendente. Una quantit? sempre crescente di studi clinici dimostra che esiste una variabilit? inter-individuale nella risposta alla terapia antiaggregante con aspirina. Questo si traduce, per i pazienti definiti ?resistenti?, in un?inadeguata inibizione dell?aggregazione piastrinica con conseguente esposizione ad un maggior rischio di eventi aterotrombotici. Nonostante gli importanti risultati ottenuti dall?interconnessione tra i risultati dei vari test di laboratorio e l?evoluzione clinica dei pazienti, non ? stato ancora indicato un metodo standardizzato per la diagnosi di resistenza all?aspirina. I ricercatori greci dell?Hippokration Hospital di Atene coordinati da Dimitris Tousoulis hanno preso in esame tutti i metodi proposti in letteratura per valutare la resistenza piastrinica al trattamento (tempo di sanguinamento, aggregometria a trasmissione di luce, aggregometria per impedenza, analizzatore di funzione piastrinica, Rapid Platelet Function Assay, TXB2, citometria a flusso): tutti hanno dimostrato vantaggi e limitazioni, ma nessuno si ? dimostrato davvero efficace. Anche il trattamento farmacologico dell?aspirino-resistenza mediante innalzamento delle dosi somministrate o terapia combinata antiaggregante non ha dato risultati positivi. Occorrono nuovi studi approfonditi che facciano luce sulla questione individuando nuove soluzioni.
Bibliografia. Tousoulis D, Siasos G, Stefanadis C. Aspirin resistance: What the cardiologist needs to know? International Journal of Cardiology 2009; 132(2):153-156
Proposto un iter diagnostico differenziato in base alla gravit? dei sintomi Il morbo celiaco ? dovuto ad un’intolleranza permanente al glutine causante un’atrofia dei villi dell’intestino tenue ed un conseguente malassorbimento di gravit? variabile (NEJM 2007, 357: 1731-1743; Ann Intern Med 2005, 142: 289-298). La prevalenza della celiachia ? stimata del 1-1,5% della popolazione e viene sottostimata dal numero dei casi diagnosticati (www.ministerosalute.it). La celiachia pu? essere del tutto asintomatica o invece manifestarsi in et? adulta o pediatrica solo con dolori addominali ricorrenti e/o con ritardo di crescita o bassa statura, calo ponderale, steatorrea, diarrea o stipsi e numerose manifestazioni extra-intestinali (astenia da anemia da carenza di ferro, folati o vitamina B12, iperparatiroidismo e osteopenia da carenza di vitamina D e calcio, displasia dello smalto dentario, tetania da ipocalcemia, emorragie e porpora da carenza di vitamina K, xeroftalmia da carenza di vitamina A, edemi da enteropatia protido-disperdente con ipoalbuminemia, ipertransaminasemia da epatite autoimmune, alopecia, dermatite erpetiforme, stomatite aftosa, ecc.). La celiachia pu? associarsi ad altre malattie autoimmuni e se non diagnosticata o non curata pu? essere complicata da coliti, linfomi e altre neoplasie del tenue e dell’esofago (Br Med J 2004, 329: 716-719). Diagnosi Sono test diagnostici di screening per la celiachia la ricerca nel siero di anticorpi anti-transglutaminasi, anti-endomisio, anti-gliadina. Il gold standard diagnostico ? la biopsia, mediante endoscopia, della mucosa del digiuno che appare appiattita e documenta all’esame istologico l’atrofia dei villi intestinali, l’iperplasia delle cripte e l’infiltrazione linfocitaria della lamina propria, lesioni reversibili escludendo il glutine dalla dieta. La celiachia non ? pi? intesa come una patologia solo pediatrica in quanto attualmente l’et? media di diagnosi ? di circa 40 anni. La determinazione degli anticorpi anti-transglutaminasi e anti-endomisio ha dimostrato una sensibilit? del 78% ed una specificit? del 100% per la diagnosi di celiachia (Br Med J 2007, 335: 1244-1247). La biopsia intestinale mediante endoscopia per accertare la diagnosi pu? essere rifiutata dai pazienti in quanto esame invasivo e inoltre l’esito istologico riscontrabile nella celiachia ? riscontrabile anche in altre patologie (tabella 1), ma esistono forme di celiachia sieronegative in cui la biopsia ? determinante per la diagnosi. Perci? ? stato proposto e validato un iter diagnostico che distingue i soggetti ad alto e basso rischio di celiachia in base alla sintomatologia riferita, proponendo quindi a coloro che presentano disturbi aspecifici come dolore addominale, dispepsia, nausea e vomito solo la determinazione degli anticorpi specifici, proponendo invece a coloro che presentano perdita di peso, anemia e diarrea la determinazione degli anticorpi specifici seguita sempre, anche in caso di loro negativit?, dalla biopsia digiunale (Br Med J 2007, 334: 729). Terapia La dieta priva di glutine ? l’unica terapia efficace per la celiachia (www.celiachia.it). Il glutine ? presente, ad esempio, nelle farine di frumento, orzo, segale, nel malto, crusca, pane, pasta, pizza, dadi da brodo, lievito di birra, birra, caff? solubile, olio di semi vari, margarina, formaggini, dolciumi, biscotti, cioccolate, gelati confezionati che quindi sono cibi vietati. L’avena non contiene glutine, ma pu? essere contaminata dal glutine. Cos? pure i cibi industriali preconfezionati o surgelati. Sono cibi consentiti nella dieta: riso, mais, miglio, fecola di patate, grano saraceno, soia, tapioca, olio d’oliva, olio di mais e di arachide e di girasole, carni e pesce (non impanati con farine vietate), uova, verdura e frutta fresca, latte e derivati se non ? presente un’intolleranza al lattosio secondaria, t?, caff?, spremute e succhi di frutta, vino. L’associazione dei pazienti celiaci fornisce un’informazione dettagliata sui cibi permessi che di norma presentano sulle confezioni un logo con la spiga barrata attestante che il prodotto ? privo di glutine (www.celiachia.it). Il Sistema Sanitario ai sensi della legge n. 123 del 4 luglio 2005 fornisce gratuitamente ai soggetti con diagnosi accertata prodotti alimentari privi di glutine attraverso le farmacie cui si accede con prescrizione del medico curante facente riferimento al Decreto Ministeriale n.279 del 18 maggio 2001 e prevede la possibilit? di fornire alimenti senza glutine nelle mense scolastiche, ospedaliere e di strutture pubbliche.
La prevalenza di depressione e ansia ? elevata nelle pazienti con sindrome dell’ovaio policistico, e richiede lo screening di routine e un trattamento mirato per risolverli. Uno studio precedente aveva gi? identificato un significativo aumento del rischio di umore depresso in queste pazienti: sullo stesso campione di pazienti ? stata successivamente riscontrata la persistenza di questo rischio, e la sua conversione in rischio di depressione conclamata. E’ stato suggerito l’uso del questionario Primary Care Evaluation of Mental Disorders (PRIME-MD) Patient Health Questionnaire (PHQ) nella valutazione iniziale delle pazienti con sindrome dell’ovaio policistico: tale questionario presenta il vantaggio di effettuare uno screening dei disordini dell’alimentazione e dell’ansia oltre che della depressione. Le pazienti in cui si riscontra il disturbo dovrebbero essere indirizzate a visite specialistiche dermatologiche e dietologiche, in quanto irsutismo, acne ed eccesso di peso associati all’ovaio policistico potrebbero contribuire ai loro problemi emotivi.
La letteratura riporta dati incoerenti sui rischi associati ai farmaci per il trattamento dell’infertilit? che inducono l’ovulazione. Un ampio studio in materia, pubblicato sul British Medical Journal, non li ha riscontrati L’assunzione di farmaci per stimolare l’ovulazione in programmi di procreazione medicalmente assistita ? stata associata, da alcuni studi, all’aumento del rischio di sviluppare tumori ovarici epiteliali, ma il dato ? stato poi smentito da successive ricerche. Tuttavia non si ? mai arrivati a valutare un campione sufficientemente ampio di casi per poterli confrontare con controlli, inoltre, nelle premesse delle ricerche non veniva specificata una distinzione tra gli effetti dei farmaci per trattare l’infertilit?, da possibili cause dell’infertilit? stessa, che avrebbero potuto influenzare il rischio di neoplasia ovarica. Dal momento che, in alcuni casi, le donne si sottopongono anche a 12 cicli di trattamento, gli esperti non hanno mai smesso di domandarsi quali e quanti fossero i rischi a cui si esponevano le pazienti.
In questa direzione ha agito la Danish Cancer Society supportando uno studio molto ampio che ha incluso una coorte di oltre 54mila donne che tra il 1963 e il 1998 si erano rivolte a un centro specializzato per l’infertilit?. Coloro che si erano sottoposte a trattamenti per la fertilit? avevano assunto gonadotropine, clomifene, gonadotropina corionica umana oppure ormone di rilascio delle gonadotropine (GnRH) e tutte erano state monitorate fino all’et? di 47 anni. Nel complesso sono stati riscontrati 156 casi di tumore ovarico, un campione ben pi? grande di quelli finora considerati, che ha permesso di fare un confronto, statisticamente significativo, tra donne infertili che si erano sottoposte o meno al trattamento farmacologico. Il confronto ha permesso di riscontrare che il rischio generale di tumore ovarico non era influenzato in modo significativo dall’uso di questi farmaci, il rischio relativo infatti era sempre molto basso: 0,83 per le gonadotropine, 1,14 per il clomifene, 0,89 per la gonadotropina corionica e 0,80 per il GnRH, quindi, molto simile a quello di donne con la neoplasia ma non trattate. E lo stesso risultato si otteneva anche quando i farmaci erano in combinazione e a parit? di altre variabili come la contraccezione, le cause di infertilit? e il numero di parti precedenti.
L’unico rischio che aumentava interessava i tumori ovarici sierosi, del 67%, che per? sono meno frequenti di quelli epiteliali, obiettivo della ricerca. Motivo di cautela da parte degli autori della ricerca, ? l’et? media in cui il monitoraggio si ? fermato, mentre il picco di massima prevalenza ? all’inizio dei 60 anni, una considerazione che li ha portati a non escludere del tutto la possibilit? di un piccolo incremento del rischio.
I soggetti affetti da arteriopatie periferiche, con o senza claudicatio intermittens, possono trarre beneficio dalla pratica, regolare e supervisionata, di esercizi di resistenza per le proprie estremit? inferiori, e della deambulazione anche tramite nastro rotante. Queste pratiche portano a miglioramenti significativi di test di deambulazione in 6 minuti, dilatazione flusso-mediata dell’arteria brachiale e qualit? della vita. La maggior parte dei pazienti con arteriopatie periferiche non presenta i classici sintomi della claudicatio: molti di essi sono asintomatici, e altri hanno sintomi atipici a carico delle gambe, ma i miglioramenti osservati si ottengono anche in assenza dei sintomi tipici. Il paziente spesso evita l’esercizio, temendo il dolore e l’astenia negli arti inferiori, ma l’esercizio di fatto pu? aiutare a lungo termine, e per la prima volta ? stato suggerito anche che possa migliorare lo stato di salute vascolare complessivo in questi soggetti. JAMA 2009; 301: 165-74
L’interpretazione dei mammogrammi digitali effettuati a scopo di screening richiede il doppio del tempo rispetto a quella dei mammogrammi tradizionali: in presenza di volumi elevati, ci? potrebbe giungere a una differenza clinicamente significativa. Sono attualmente in corso programmi per aumentare l’aderenza delle donne nelle fasce a rischio allo screening mammografico, e allo stesso tempo i radiologi qualificati che vogliano leggere i mammogrammi scarseggiano. Questa situazione contraddittoria potrebbe essere portata ad esacerbazione, giungendo ad un ritardo delle interpretazioni o alla limitazione dell’accesso alla mammografia. Nella mammografia digitale per? vi sono vantaggi che surclassano il prolungamento dei tempi di interpretazione, come la maggiore semplicit? nell’ottenere, trasportare e conservare le immagini, ma anche un’accuratezza sia pur leggermente maggiore. Am J Roentgenol 2009; 192: 216-20
L?assunzione di integratori alimentari a base di isoflavoni, composti appartenenti al gruppo dei fitoestrogeni, ? in grado di ridurre la disfunzione endoteliale nei pazienti con aterosclerosi conclamata e pregresso ictus ischemico. ? quanto emerge da uno studio randomizzato in doppio cieco (Chan YH et Al. Eur Heart J, 2009, 29:2800-7) su 102 pazienti, trattati con 80 mg/die di isoflavone o un placebo per 12 settimane. In rapporto al placebo, la somministrazione di isoflavone ha prodotto un aumento significativo della dilatazione brachiale flusso-mediata (effetto del trattamento: 1,0%; 95%CI: 0,1-2,0; p = 0,035), effetto particolarmente evidente nei soggetti con pi? severa disfunzione endoteliale al basale. Inoltre, il gruppo trattato con isoflavone ha anche mostrato una riduzione dei livelli sierici di proteina C-reattiva ad alta sensibilit? a confronto del gruppo placebo (effetto del trattamento: 21,7 mg/l; 95%CI: 23,3-20,1; p = 0,033). Tuttavia, nessuna differenza ? stata osservata fra i due gruppi in termini di pressione arteriosa, frequenza cardiaca, glicemia e insulinemia. ?I meccanismi specifici che mediano gli effetti vasoprotettivi degli isoflavoni non sono noti? commentano gli autori dello studio. ?Studi precedenti hanno dimostrato che queste sostanze hanno un effetto stimolatorio sulla funzione endoteliale attraverso l?attivazione del sistema della ossido-nitrico-sintetasi, ma nella nostra esperienza non abbiamo osservato modifiche significative in termini di stress ossidativo. ? possibile che gli effetti benefici siano mediati da altri meccanismi, inclusa la riduzione dello stress infiammatorio vascolare, come dimostrano i dati sulla proteina C-reattiva?. Fonte: European heart journal
Una semplice regola per le decisioni cliniche, associata ad un test del D-dimero, ? in grado di aiutare nella gestione della sospetta trombosi venosa profonda a livello di medicina di base. Il 90 percento dei pazienti per cui si richiede l’ecografia per sospetta trombosi venosa profonda delle gambe in realt? non hanno questa patologia: la recente introduzione di test rapidi del D-dimero che possono essere inclusi in una regola decisionale clinica specifica rende possibile effettuare la diagnosi anche in medicina di base. Semplicemente, se il punteggio del test non supera il tre l’ecografia non ? necessaria. La sua applicazione riduce almeno del 50 percento la necessit? di indirizzare il paziente a centri secondari, ed ? associata ad un basso rischio di successivi eventi tromboembolici venosi. (Ann Intern Med. 2009; 150: 229-35)
Il batterio che causa ulcere e tumori gastrointestinali potrebbe essere responsabile anche dell’alitosi. Per la prima volta un gruppo di ricercatori ha dimostrato la presenza dell’Helicobacter pylori sulle labbra e nella saliva di soggetti che non soffrono di alcun disturbo gastrointestinale. La ricerca ? stata pubblicata sull’ultimo numero della rivista Journal of Medical Microbiology.
Le labbra ospitano pi? o meno regolarmente una flora di circa 600 tipi differenti di batteri, alcuni dei quali patogeni. Uno di questi ? proprio l’Helicobacter pylori, un batterio balzato agli onori della cronaca nel 2005 quando ha fruttato il Nobel per la medicina a Barry Marshall e J. Robin Warren. I due ricercatori hanno dimostrato che le infiammazioni dello stomaco, l?ulcera e nei casi pi? gravi alcuni tumori dello stomaco sono provocati da un?infezione dovuta a questo batterio. L?infezione da Helicobacter pylori ? peraltro una delle infezioni croniche pi? diffuse nell?uomo; ? presente in almeno il 50 per cento della popolazione mondiale e si contrae prevalentemente nell?infanzia.
Pare per? che l’Helicobacter pylori possa trovare ottime condizioni per annidarsi anche nel cavo orale dove, secondo i ricercatori del Fukuoka Dental College, in Giappone, sarebbero responsabili della presenza di alitosi, anche se indirettamente: “La nostra ipotesi ? che il batterio causi malattie parodontali, che sarebbero le responsabili della produzione di sostanze volatili contenenti sulfidi che sono causa del cattivo odore dell’alito”, hanno dichiarato gli autori dello studio. Bibliografia. Suzuki N et al. Detection of Helicobacter pylori DNA in the saliva of patients complaining of halitosis. J Med Microbiol 2008; 57:1553-59.
Nuovi biomarker e modelli predittivi vengono costantemente proposti in Sanit? per migliorare l?identificazione dei pazienti a rischio cardiovascolare. Ma come possono e devono essere valutati? Se lo domanda un editoriale pubblicato dagli Archives of Internal Medicine.
?I clinici devono essere al corrente dei vari metodi utilizzati per mettere a punto questi nuovi strumenti e come dovrebbero essere interpretati. Per far questo, di solito, si prendono in esame quattro aspetti: l?aderenza ai modelli precedenti e la capacit? di far emergere dati sensibili, la capacit? di isolare gli individui che svilupperanno l?outcome ricercato, la calibratura tra rischi previsti e rischi che effettivamente si verificheranno, e infine la riclassificazione, cio? la capacit? di intervenire sui pazienti modificando i rischi che corrono?, spiega Kevin McGeechan della School of Public Health dell?University of Sydney.
Ma ? possibile utilizzare questi quattro criteri di valutazione per rispondere alle due seguenti domande: – il nuovo modello predice il rischio pi? accuratamente di quelli finora disponibili? – i rischi predicibili sono sufficienti a determinare un cambio nel trattamento? L?editoriale ritiene di s?, e sottolinea che poich? una gran variet? di tool statistici e grafici ? associata alla soluzione dei quattro punti enunciati, andrebbe utilizzato ogni strumento a disposizione per ottenere un risultato pertinente e completo in grado di sancire l?utilit? di un biomarker o di un modello predittivo nella pratica clinica quotidiana.
Bibliografia. McGeechan K, Macaskill P, Irwig L et al. Assessing new biomarkers and predictive models for use in clinical practice. Arch Intern Med 2008; 168(21):2304-2310.