Crohn moderatamente attivo, remissione da rifaximina-Eir

In uno studio multicentrico coordinato da Cosimo Prantera, dell’ospedale San Camillo-Forlanini di Roma, la somministrazione di due dosi giornaliere di 800 mg di rifaximina-Eir per dodici settimane ha indotto la remissione dei sintomi in 402 pazienti con morbo di Crohn moderatamente attivo e si è accompagnata a pochi effetti avversi. La rifaximina-Eir (Extended intestinal release) è una nuova formulazione farmaceutica che contiene microgranuli di rifaximina ricoperti di polimero resistente agli acidi gastrici, in modo che il principio attivo venga rilasciato nel tratto intestinale. Gli autori hanno effettuato uno studio in doppio cieco confrontando efficacia e sicurezza del farmaco somministrato due volte al giorno ai dosaggi di 400, 800 e 1.200 mg rispetto a un gruppo di pazienti che ha ricevuto una sostanza placebo. Alla fine delle dodici settimane di trattamento, 61 dei 98 pazienti trattati con 800 mg di rifaximina-Eir risultavano in remissione: una percentuale del 63% rispetto al 43% riscontrato nel gruppo placebo. La differenza si è mantenuta lungo le 12 settimane (45% vs 29%, rispettivamente). Nei gruppi trattati con dosaggi di 400 mg e 1.200 mg le percentuali di remissione sono state rispettivamente del 54% e del 47%, un risultato non molto superiore rispetto al placebo. Gli effetti avversi della rifaximina-Eir sono stati modesti a basso dosaggio (400 mg e 800 mg), ma si sono verificati nel 16% dei soggetti trattati con 1.200 mg giornalieri. Gastroenterology, 2012; 142(3):473-481.e4

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Duloxetina, possibile freno ad alimentazione incontrollata

La duloxetina può essere efficace nel ridurre il disturbo da alimentazione incontrollata (binge eating disorder, Bed), il peso, e la gravità globale della malattia in caso di Bed con comorbilità per disturbo depressivo in corso. È l’esito di uno studio in doppio cieco condotto per 12 settimane su 40 pazienti da Anna I. Guerdjikova, del Lindner center of hope di Mason (Usa), e colleghi. I soggetti arruolati, che avevano ricevuto una diagnosi di Bed e comorbilità depressiva in base ai criteri del Diagnostic and statistical manual of mental disorders-IV-Tr, sono stati suddivisi in due gruppi da 20 individui, i primi trattati con duloxetina, i secondi con un placebo. All’analisi primaria, duloxetina (alla dose media di 78,7 mg/die) è risultata superiore al placebo nel ridurre la frequenza settimanale di giorni di alimentazione incontrollata (outcome primario), gli episodi di binge eating, il peso e le valutazioni Clinical global impression-Severity of illness per alimentazione incontrollata e disturbi depressivi. Non si sono peraltro osservate differenze tra i due gruppi riguardanti cambiamenti di body mass index e misure di patologia alimentare, depressione e ansia. I risultati dello studio, sottolineano gli autori, necessitano di conferme su trial controllati con placebo più ampi. Int J Eat Disord, 2012; 45(2):281-9

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Vasculite reumatoide sistemica, efficace rituximab

Nei pazienti affetti da vasculite sistemica associata ad artrite reumatoide, la somministrazione di rituximab – nell’ambito di una pratica clinica di “vita reale” – ha portato a una totale remissione della patologia in quasi i tre quarti dei casi, con significativa riduzione nel dosaggio quotidiano di prednisone e offrendo un profilo di tossicità accettabile. Lo dimostrano i risultati ottenuti in Francia da un team di ricercatori guidati da Xavier Puéchal, dell’Ospedale generale di Le Mans, analizzando un registro nazionale che riporta i dati dei pazienti affetti da malattie autoimmuni trattati con rituximab. Su 1.994 soggetti con artrite reumatoide riportati nel registro, 17 erano stati posti in trattamento con rituximab per vasculite reumatoide sistemica attiva. Al basale, il Birmingham Vasculitis Activity Score medio per artrite reumatoide (Bvas/Ra) era pari a 9,6, con una dose media di prednisone di 19,2 mg/die. Dopo 6 mesi di terapia con rituximab, 12 pazienti (71%) hanno conseguito una remissione totale della vasculite, 4 hanno conseguito una risposta parziale, mentre 1 è deceduto senza controllo della patologia. Il Bvas/Ra medio si è ridotto a 0,6 e la dose media di prednisone a 9,7 mg/die. Dopo 12 mesi 14 pazienti (82%) si trovavano in remissione completa sostenuta. Una grave infezione si è manifestata in 3 soggetti, corrispondenti a un tasso del 6,4 per 100 anni-paziente. In 6 pazienti che hanno ricevuto ulteriore rituximab come terapia di mantenimento tra il 6° e il 12° mese non si sono osservate recidive vasculitiche. Invece, tra i 9 pazienti che non hanno proseguito la terapia con l’anticorpo monoclonale, si è riscontrata una recidiva in 3 soggetti trattati con il solo metotrexate; in 2 di questi casi, reintroducendo rituximab, si è ristabilita la remissione. Rituximab, concludono gli autori, rappresenta un’opzione terapeutica per indurre la remissione della vasculite reumatoide sistemica, ma sembra necessaria l’istituzione di una terapia di mantenimento. Arthritis Care Res, 2012; 64(3):331-9

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Test genetico individua soggetti a rischio di recidive di Nsclc

31 Mag 2012 Oncologia

Messo a punto un test basato su Pcr (reazione a catena della polimerasi) che consente di identificare, nell’ambito dei pazienti affetti da tumore polmonare non a piccole cellule (Nsclc) non squamoso in stadio precoce, quelli ad alto rischio di exitus dopo resezione chirurgica. È un avanzamento importante; la gestione di questi pazienti finora è dipesa da una stadiazione prognostica basata sulla probabilità della presenza di malattia occulta metastatica sfuggita all’asportazione completa del tumore. Il test quantitativo di espressione di 14 geni, in grado di differenziare pazienti con prognosi eterogenee su base statistica, è stato sviluppato in 361 pazienti con Nsclc di stadio I, resecati presso l’università di California, a San Francisco. Il metodo è stato quindi validato in modo indipendente alla Kaiser permanente division of research in una coorte in cieco di 433 pazienti con Nsclc non squamoso di stadio I lì operati e su 1.006 pazienti con Nsclc non squamoso di fase I-III resecati in vari centri leader cinesi del cancro, appartenenti al Consorzio cinese dei trial clinici (Cctc). L’analisi di Kaplan-Meier sulla coorte di validazione della Divisione Kaiser ha evidenziato una sopravvivenza globale a 5 anni del 71,4% nel gruppo identificato come a basso rischio, del 58,3% nel gruppo intermedio, del 49,2% nei pazienti ad alto rischio. Analisi simili sulla coorte Cctc indicano una sopravvivenza a 5 anni del 74,1% nel gruppo a basso rischio, del 57,4% nel gruppo intermedio, e del 44,6% tra i pazienti ad alto rischio. L’analisi multivariata in entrambe le coorti ha mostrato che non esistono fattori di rischio clinico standard che possano fornire le informazioni prognostiche derivate dall’espressione dei geni tumorali. Il test ha dimostrato di differenziare i pazienti con rischio basso, intermedio e alto in tutti gli stati di malattia. Lancet, 2012; 379(9818):823-32

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L’enzima Enb-0040 è efficace contro l’ipofosfatasia grave

Una terapia enzimatica sostitutiva con Enb-0040 si è associata a miglioramenti scheletrici osservati radiograficamente e a una migliorata funzionalità fisica e polmonare in undici bambini affetti da grave ipofosfatasia – rara patologia ereditaria con ridotta attività della fosfatasi alcalina sierica – a rischio di vita. Gli autori, guidati da Michael P. Whyte dello Shriners hospital for children di St. Louis (Usa), hanno selezionato pazienti fino a tre anni di et, la cui sopravvivenza era minacciata da ipofosfatasia infantile o perinatale, con l’obiettivo primario di controllare l’efficacia del trattamento con Enb-0040 contro il rachitismo, misurato sulle immagini radiografiche. Dieci degli undici bambini hanno completato 6 mesi di terapia e 9 hanno completato 1 anno di trattamento. Dopo 6 mesi, 9 pazienti hanno fatto registrare miglioramenti nello sviluppo e nella funzionalità polmonare e si è inoltre ridotto l’accumulo di pirofosfato. In corrispondenza alla guarigione scheletrica, gli aumenti di ormone paratiroideo nel siero hanno spesso richiesto un’integrazione di calcio nella dieta. Non si sono comunque avute evidenze di ipocalcemia né di calcificazione ectopica e neppure di affetti avversi associati al farmaco. In quattro pazienti si sono sviluppati anticorpi anti-Enb-0040 a basso titolo, senza evidenza di anomalie cliniche, biochimiche o autoimmuni durante il trattamento. I risultati ottenuti sono importanti in un quadro in cui, nell’assenza di una terapia medica approvata e condivisa, molti bambini muoiono per insufficienza respiratoria dovuta alla progressiva deformità toracica e altri sopravvivono con malattie ossee permanenti. N Engl J Med, 2012; 366(10):904-13

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Rilevata associazione inversa tra Alzheimer e cancro

31 Mag 2012 Neurologia

Uno studio condotto a Boston ha rilevato che i sopravvissuti a tumore corrono un rischio inferiore di contrarre il morbo di Alzheimer e che i pazienti con Alzheimer hanno un minore rischio di cancro. Il risultato è stato ottenuto da Jane A. Driver del Geriatric research education and clinical center e colleghi attraverso una sperimentazione su 1.278 pazienti senza diagnosi di demenza e di almeno 65 anni di età. Lungo un follow-up durato mediamente dieci anni, sono stati diagnosticati 221 casi di probabile malattia di Alzheimer. Tra coloro che, alla baseline, avevano una storia di tumore a cui erano sopravvissuti, il rischio di Alzheimer è stato sensibilmente inferiore, con un hazard ratio di 0,67 dopo aggiustamento per fattori confondenti quale età, sesso e abitudine al fumo. Il rischio è stato ancora più basso per coloro che avevano avuto un cancro collegato al fumo (hazard ratio 0,26) rispetto agli altri tipi di tumore (0,82); in compenso i primi hanno avuto un deciso aumento del rischio di attacco apoplettico (2.18). Viceversa, l’analisi statistica ristretta ai 221 partecipanti con probabile malattia di Alzheimer ha indicato in questi soggetti un rischio minore di contrarre successivamente una malattia tumorale (0.38). Alla ricerca di una spiegazione dei risultati ottenuti, gli autori ricordano che altri studi avevano già rilevato un meccanismo analogo relativo alla malattia di Parkinson, il che suggerisce l’esistenza di un’associazione inversa tra il cancro e la neurodegenerazione. «Una propensione genetica contro l’apoptosi» ipotizzano «potrebbe proteggere dal cancro e allo stesso tempo aumentare il rischio di degenerazione neuronale». BMJ, 2012; 344:e1442

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Maggior mortalità determinata dal consumo di carne rossa

Il consumo di carne rossa è associato a un maggiore rischio di mortalità totale o legata a malattia cardiovascolare o al cancro. La sua sostituzione nella dieta alimentare con altre sorgenti proteiche determina un minore rischio cardiovascolare. Ne è convinta An Pan che, a capo di un’èquipe di studiosi ad Harvard (Boston), ha coordinato l’analisi retrospettiva di dati provenienti da 2 coorti, una di 37.698 uomini, l’altra da 83.644 donne, tutti privi di malattie cardiovascolari od oncologiche al basale. Il regime dietetico è stato analizzato tramite questionari validati e aggiornati ogni 4 anni. Sono stati documentati 23.926 decessi (di cui 5.910 cardiovascolari e 9.464 per cancro) durante un follow-up di 2,96 milioni di anni-persona. Dopo aggiustamento multivariabile per i maggiori fattori di rischio comportamentali e dietetici, l’hazard ratio (Hr) della mortalità totale per l’aumento di una porzione al giorno di carne rossa non trasformata è stato di 1,13, e di 1,20 per quella trasformata. I valori corrispondenti per la mortalità cardiovascolare sono risultati 1,18 e 1,21, e quelli per la mortalità da cancro 1,10 e 1,16. Gli autori stimano che la sostituzione di 1 razione al giorno di altri cibi (pesce, pollame, nocciole, legumi, grano intero) al posto di una porzione al giorno di carne rossa si associ a una riduzione del rischio di mortalità dal 7% al 19%. Inoltre, si ritiene che, nel periodo osservato, il 9,3% delle morti tra gli uomini e il 7,6% dei decessi tra le donne possa essere prevenuto al termine se tutti gli individui avessero consumato meno di 0,5 razioni al giorno (circa 42 g/die) di carne rossa. Arch Intern Med, 2012 Mar 12. [Epub ahead of print]

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Obesità o diabete gestazionale: gravidanza con esiti avversi

31 Mag 2012 Ginecologia

Nella madre, sia il diabete gestazionale (Gdm) che l’obesità sono associati in modo indipendente a esiti avversi della gravidanza, e l’impatto esercitato dai due fattori in combinazione è ancora maggiore. È quanto ha dimostrato un gruppo di ricercatori – guidati da Patrick M. Catalano, della Case Western Reserve University at MetroHealth Medical Center di Cleveland (Usa) – coinvolti nello studio Hapo (Hyperglycemia and Adverse Pregnancy Outcome). Le donne inserite nel protocollo sono state sottoposte a un test di tolleranza orale al glucosio (Ogtt) tra la 24ma e la 32ma settimana e una condizione di Gdm è stata diagnosticata sulla base di criteri internazionali. Dopo la nascita, sono state effettuate misure antropometriche sul neonato, con misurazione dei livelli sierici del peptide-C nel cordone ombelicale. Il body mass index (Bmi) medio materno è risultato di 27,7, il 13,7% delle donne studiate soffriva di obesità e una condizione di Gdm è stata diagnosticata nel 16,1% dei casi. In rapporto alle donne senza Gdm e non obese, in quelle con solo Gdm l’odds ratio per un peso alla nascita della prole >90° percentile si è attestato su 2,19, in quelle solo obese su 1,73 e in quelle sia obese che con Gdm su 3,62. Gli esiti relativi ad altri outcome avversi di gravidanza, quali parto primario cesareo, preeclampsia, peptide-C sierico cordonale e grasso corporeo >90 percentile sono apparsi simili. La probabiltà di un peso alla nascita superiore al 90° percentile sono apparse progressivamente maggiori sia con il crescere dell’Ogtt che con l’aumentare del Bmi materno. Nel complesso, si è registrata una differenza di peso alla nascita di circa 340 grammi tra figli di madri obese con Gdm rispetto alla prole di madri con peso normale o sottopeso e valori normali di glicemia. Diabetes Care, 2012 Feb 22.

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Aumento di peso da beta-bloccanti nei pazienti scompensati

L’uso di beta-bloccanti e l’intensificazione del trattamento dello scompenso cardiaco si associano a un aumento di peso nell’insufficienza cronica congestizia. L’aumento, di solito colpisce, i soggetti non edematosi in classe funzionale Nyha (New York Heart Association) I e II. Il dato – rilevante considerando che esiste un’associazione inversa tra massa corporea e mortalità nei pazienti con scompenso cardiaco cronico – giunge da Kingston-upon-Hull (UK), dove Ben W. J. Boxall e Andrew L. Clarke, della University of Hull, hanno studiato 276 pazienti affetti da insufficienza cardiaca (età media: 71,3 anni; 72,8% maschi). Per prima cosa i partecipanti sono stati pesati. Alla presentazione nessuno di questi assumeva beta-bloccanti, ma tutti avevano iniziato ad assumerli entro il follow-up a 4 mesi. I soggetti sono stati pesati nuovamente dopo 1 anno. Vi è stato un incremento di peso e di indice di massa corporea. I pazienti in classe funzionale Nyha III o IV non hanno evidenziato modificazioni significative di peso, mentre quelli in classe I o II hanno fatto registrare un incremento di 1,62 kg. Nei pazienti senza edema periferico alla visita iniziale o a 1 anno, si registrava un maggiore incremento di peso.

J Card Fail, 2012; 18(3):233-7

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Produzione extratimica di linfociti T scoperta nelle tonsille

Ricercatori della Ohio State University hanno dimostrato che le tonsille sono in grado di produrre linfociti T, cellule cruciali del sistema immunitario che si pensava potessero svilupparsi soltanto all’interno del timo. Il principale autore dello studio, Michael A. Caligiuri, ricorda che «da molto tempo si ritiene che il timo sia necessario per lo sviluppo di repertorio completo di cellule T, ma la presenza di una fabbrica di linfociti T all’esterno della ghiandola timica è rimasta a lungo controversa; ritengo che il nostro studio permetta di sciogliere questo dubbio: per la prima volta siamo riuscito a descrivere un modello completo per lo sviluppo delle cellule T extra-timiche». Lo studio ha identificato nelle tonsille i linfociti T a cinque diversi stadi di sviluppo. Questi stadi sono stati individuati attraverso l’utilizzo di indicatori molecolari nelle cellule e si sono rivelati molto simili a quelli che caratterizzano lo sviluppo delle cellule T all’interno del timo, anche se è stata riscontrata qualche leggera differenza. I ricercatori hanno anche scoperto che i linfociti T si sviluppano in una zona particolare delle tonsille, vicina alla capsula fibrosa. Lo studio, nel risolvere un dubbio, solleva numerose altre questioni: non è ancora chiaro, per esempio, se le cellule T che si sviluppano nelle tonsille giungano a completa maturazione in queste ghiandole o le lascino per maturare altrove. 

J Clin Invest, 2012 Mar 1. [Epub ahead of print]

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