Antibiotici nell’alimentazione animale da bandire
Due ricercatori della Tufts university School of medicine di Boston (Usa), Bonnie M. Marshall e Stuart B. Levy, affrontano, attraverso una revisione critica della letteratura, il problema dell’utilizzo degli antibiotici nell’alimentazione degli animali da allevamento a scopo non terapeutico ma principalmente per favorirne la crescita: uso indicato come una tra le principali cause dell’antibioticoresistenza. Gli autori riportano stime secondo cui l’utilizzo non terapeutico è otto volte superiore alla somministrazione effettuata allo scopo di curare animali ammalati. Nel lungo termine, si crea un ambiente ottimale che consente ai geni resistenti agli antibiotici di moltiplicarsi. «Fondamentalmente» si riporta nello studio «gli animali si trasformano in “fabbriche” per la produzione e distribuzione di batteri resistenti agli antibiotici, come la Salmonella e l’Mrsa, ossia lo Stafilococco aureo meticillino-resistente». L’antibioticoresistenza si può trasferire ad altri batteri e, anche se gli allevatori non utilizzano farmaci abitualmente usati per l’uomo, alla lunga si produce comunque un fenomeno di resistenza. Diversi studi citati nella revisione dimostrano che questi batteri passano facilmente dagli animali agli uomini con cui sono strettamente a contatto, come veterinari o allevatori, e poi alle loro famiglie. Il 90% degli antibiotici somministrati agli animali finisce nell’ambiente e la resistenza si diffonde direttamente per contatto oppure in via indiretta, attraverso l’acqua, l’aria e la catena alimentare. Nel proporre un bando all’utilizzo degli antibiotici nell’alimentazione degli animali, gli autori della ricerca ricordano le gravi conseguenze della progressiva estensione del fenomeno. Solo negli Usa, i costi per combattere infezioni antibioticoresistenti sono calcolati in 20 miliardi di dollari all’anno, più altri 8 ascrivibili ai costi aggiuntivi di ospedalizzazione. Senza contare le ben più gravi sofferenze che ne derivano ai pazienti.
Clin Microbiol Rev, 2011; 24(4):718-33
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