Carcinoma della Prostata a decorso favorevole. Chi, come e perché sottoporre a sorveglianza attiva?

Nelle popolazioni in cui è diffuso lo screening del carcinoma prostatico è sempre più forte la tendenza ad adottare una strategia di attiva sorveglianza nei soggetti con un rischio di neoplasia a decorso favorevole, ossia i casi in cui il risultato dello screening permette di identificare una malattia priva di rilevanza clinica in cui l’astensione da qualsiasi trattamento non rappresenta una minaccia per lo stato di salute.
Questo approccio è supportato da dati che dimostrano come i pazienti che hanno una malattia clinicamente insignificante possono essere identificati con ragionevole accuratezza, inizialmente classificati a basso rischio e, nel tempo, eventualmente riclassificati ad alto rischio senza privarli della possibilità di un trattamento radicale con intento curativo.

In questo contesto è importante capire quali siano gli aspetti clinici e patologici della malattia che insieme ad età e comorbidità concorrono ad identificare chi ha un basso rischio di progressione di malattia durante la vita. Un monitoraggio attento nel tempo e la disponibilità di criteri di intervento ragionevoli sono aspetti entrambi orientati ad identificare in maniera opportuna la malattia aggressiva e così ovviare al sovratrattamento dei pazienti. In questi casi un ulteriore aspetto di enorme importanza è la comunicazione appropriata del medico per ridurre nel paziente il peso psicologico di vivere affetto da una neoplasia non trattata.

L’argomento è stato oggetto di una revisione pubblicata su Nature Clinical Practice in cui si discute la strategia della sorveglianza attiva come opzione nei maschi con un cancro della prostata di piccolo volume identificato mediante screening. I pazienti che cadono in questa categoria sono uomini affetti da tumore prostatico con uno score di Gleason ≤6, quelli con PSA ≤10 ng/ml e quelli con una uno stadio di malattia T1c o T2a. Questi criteri comprendono circa il 45% dei soggetti con una nuova diagnosi di cancro della prostata in una popolazione sottoposta a screening.

Questo concetti sono stati formalizzati in cinque postulati per la sorveglianza attiva:

  1. lo screening del cancro della prostata identifica una malattia che in diversi pazienti non rappresenta un pericolo per la loro salute
  2. i pazienti che cadono in questa categoria possono essere identificati con ragionevole certezza
  3. il non trattamento determina un impatto minimo in termini di effetti secondari e costi
  4. i pazienti inizialmente classificati come a basso rischio se riclassificati ad alto rischio potrebbero essere curati con trattamento radicale nella maggior parte dei casi
  5. per il paziente il peso psicologico di vivere con una neoplasia non trattata è minore dell’impatto sulla qualità di vita di una terapia curativa, ma non necessaria.

Secondo l’autore questi postulati dovrebbero guidare la selezione dei pazienti eleggibili. La strategia considera l’importanza di un’accurata definizione del Gleason score e del suo valore predittivo come confermato dai risultati del Connecticut Study che evidenzia, nel follow up a 20 anni, un tasso di mortalità stabile nei tumori della prostata localizzati a basso grado. Questo conferma l’ampia finestra di curabilità della malattia in accordo con quanto dimostrato da studi autoptici. Infatti è dimostrato che il tumore della prostata esordisce tipicamente come focolaio microscopico nella terza/quarta decade di vita e può rimanere subclinico per circa 30 anni. La conseguente fase di progressione clinica potenzialmente, ma non invariabilmente, evolve verso una malattia metastatica e il decesso.
Il razionale della sorveglianza attiva si basa, per i soggetti di età <60 anni, sui criteri di Epstein che garantiscono un interessamento inferiore a un terzo dei campioni bioptici con non più del 50% di infiltrato per singolo campione. Per soggetti più anziani (>70 anni) o con condizionanti un’aspettativa di vita <10 anni si potrebbe considerare un valore soglia di PSA >10 ng o un Gleason score = 7 (3+4). Il secondo aspetto della sorveglianza è la selezione dei pazienti per l’intervento radicale dopo il periodo di osservazione. L’approccio utilizzato prevede la rilevazione di un tempo di raddoppiamento del PSA (PSA Dubling Time) <3 anni o un grado di progressione secondo il Gleason score ≥7. Questi criteri sono apparsi più accurati del PSA velocity >2 ng/ml/anno che determina un sovratrattamento dei casi stabili.

Queste sono indicazioni e non regole e tutto il processo è condizionato dal giudizio clinico. La progressione a un Gleason score 3+4 in un soggetto giovane può rappresentare un’indicazione all’intervento, mentre in un paziente anziano con comorbidità si può ancora garantire l’attesa. I pazienti con tumore della prostata indolente, a basso rischio di mortalità, possono essere risparmiati dagli effetti collaterali di una terapia aggressiva. Perché questo si possa realizzare è necessaria una conferma da studi randomizzati in cui il medico dovrà considerare la comunicazione come la maggior sfida tra le opzioni terapeutiche per questa tipologia di pazienti.

Bibliografia

  1. Klotz L Active surveillance for favorable-risk prostate cancer: who,how and why? Nat Cl Pract Onc 2007;4:692-7
  2. Albertsen P et al.href=”http://jama.ama-assn.org/cgi/content/full/293/17/2095″ target=”_blank”>20-Year outcomes following conservative management of clinically localized prostate cancer.JAMA 2005;293:2095-2101
  1. Come il fumo che ti resta addosso
  2. La figura retorica scelta dagli autori di un breve contributo uscito sugli Archives of Internal Medicine è particolarmente suggestiva: la sensazione di perdita, impotenza e lutto vissuta dal personale sanitario ogni qualvolta un paziente muore ha caratteristiche terribilmente simili a quelle che lascia il fumo, intangibile, inafferrabile, ma così invadente e pervasivo.
  3. Piccolo campione di studio (bene assortito, garantiscono gli autori): solo 20 oncologi di centri ospedalieri canadesi. Metodologia elettivamente qualitativa: intervista semi-strutturata registrata e successivamente trascritta. Obiettivo: comprendere le reazioni emotive del curante successive alla morte del malato e le modalità con cui tali reazioni influenzino la vita personale e professionale del medico.
  4. Quali i risultati? L’oncologo patisce la responsabilità nei confronti del malato: la durezza dei dati clinici e di laboratorio è lo scoglio contro il quale si infrange la sicurezza del medico, determinando una sensazione di impotenza, colpevolezza e insufficienza. La strategia – consapevole o meno – è quella di cercare (per quanto possibile) di confinare le difficoltà sperimentate nell’incontro col malato in una dimensione esterna alla propria vita privata e, ancor prima, adoperarsi perché sia sempre conservata una – per così dire – “distanza di sicurezza” tra sé e il malato.
  5. Forse è superfluo aggiungere che la gran parte dei medici coinvolti nello studio ha dichiarato di riuscire solo in parte a mettere in atto questi meccanismi di difesa, finendo con l’essere fortemente coinvolto emotivamente nella storia del paziente. Precisazione importante ma forse ovvia, se pensiamo al ruolo che il supporto psicologico ha nella strategia terapeutica in ambito oncologico. Sostegno che trova ancora maggiori motivazioni se si considera l’elevata incidenza di depressione dei malati oncologici. Come leggiamo sulla rivista Recenti Progressi in Medicina, “la presenza di sintomi e vissuti depressivi compromette la qualità di vita del paziente, interferisce con l’adesione terapeutica, si associa a tempi di ospedalizzazione più lunghi e può influenzare negativamente la prognosi e la sopravvivenza: di qui l’utilità di una pratica clinica standardizzata di rilevazione tempestiva e accurata e, conseguentemente, di trattamento”.
  6. La presa in carico del malato di cancro non può che essere “comprensiva”; di conseguenza, è molto probabile sia fonte di tensione emotiva e psicologica nel personale sanitario.
  7. ▼ Graneh L, et al.Nature and Impact of grief over patient loss on oncologists’ personal and professional lives. Arch Intern Med 2012; 21 DOI: 10.1001/archinternmed.2012.1426
    ▼Annunziata MA, Muzzatti B. Misurare la depression in oncologia: rilevanza, problemi, modalità. Recenti Prog Med 2011;102:444-6. 

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