Neuroimaging e Fibromialgia

La sindrome fibromialgica è una forma di dolore a carico dell’apparato muscoloscheletrico diffuso e di affaticamento, molto diffusa che si stima colpisca approssimativamente 1.5 – 2 milioni di Italiani. Il termine fibromialgia significa letteralmente dolore nei muscoli e nelle strutture connettivali fibrose.

Si perviene alla diagnosi da una parte valutando quanto il paziente riferisce e dall’altra ricercando dei punti tipici (triggers) che stimolati, evocano inusuale dolore (cioè sono silenti nei soggetti sani).

Di fatto la diagnosi è affidata a ciò che il paziente ci riferisce; le variabilità di risposte ottenute in larghi campioni hanno fato si che la fibromialgia sia stata ritenuta una manifestazione tipicamente psichiatrica, anziché un disturbo cerebrale primario o il risultato di disfunzioni periferiche che inducono alterazioni cerebrali, con meccanismi di fondo che in parte si sovrappongono ad altre condizioni dolorose.

Nel V Congresso Nazionale ANIRCEF (Associazione Nazionale per la Ricerca sulle Cefalee) che si è svolto a Napoli dal 31 maggio al 02 giugno 2012 si è fatto il punto su tale patologia .

Anche se ci sono variazioni metodologiche, recenti studi di neuroimaging hanno correlato a risultati clinici le anomalie di modulazione del dolore nella fibromialgia.

In particolare vi è correlazione tra la diminuzione della sostanza bianca cerebrale specie quella del lobo cingolato e il decorso della malattia. Le regioni cerebrali dell’insula e della amigdala sono iperattive, particolarmente “accese” nei pazienti fibromialgici rispetto ai controlli sani. Inoltre i pazienti sottoposti a terapia con amitriptilina (un antidepressivo ampiamente usato nella terapia di questa patologia) mostravano agli studi di neuro immagine un miglioramento della irrorazione del talamo: ciò portava a miglioramento clinico del dolore ma non al miglioramento di un’eventuale depressione associata.

Appare evidente come questi dati abbiano notevolmente migliorato le conoscenze, e quindi le implicanze terapeutiche, di una patologia “dell’immaginario” fino a qualche tempo fa. (1,2).

Ca mammario, spiegare alle pazienti la prevenzione con Serm

 

Negli Usa, dove tamoxifene o raloxifene sono approvati dall’Fda per la chemioprevenzione del ca mammario, i medici dovrebbero illustrare alle pazienti le caratteristiche degli inibitori selettivi degli estrogeni (Serm) e proporne l’impiego soltanto a chi presenta un alto rischio di sviluppare il tumore e ha invece scarse probabilità di andare incontro a effetti collaterali. Lo ha stabilito un gruppo governativo di esperti, in linea con quanto ribadito dalle recenti linee guida dell’U.S. Preventive Services Task Force (Uspstf), ovvero che è necessario selezionare accuratamente le donne alle quali somministrare i Serm a causa dell’alto rischio di fenomeni vasomotori e tromboembolici. «Non esiste a priori una risposta giusta o sbagliata» sostiene Mark Ebell, della University of Georgia (Athens) e affiliato all’Uspstf. «Ciò che più importa è che le pazienti siano informate di questa opzione e discutano con il loro medico se esse siano ad alto rischio». È opportuno sottolineare che una donna è considerata ad alto rischio se ha almeno una probabilità su 60 di sviluppare un cancro mammario. La stessa Uspstf, inoltre, ha da poco pubblicato una review su 7 studi condotti con i due Serm secondo cui tali farmaci da un lato riducono il rischio di carcinoma della mammella in una percentuale variabile dal 30 al 56%, dall’altro raddoppiano il rischio di trombosi e (solo nel caso di tamoxifene) cancro endometriale e cataratta. Secondo Angie Fagerlin, bioeticista della University of Michigan (Ann Arbor), è fondamentale considerare una riduzione relativa del 50% circa del rischio di sviluppare un cancro. «Se una donna inizia il trattamento quando ha una probabilità su 40 di sviluppare il tumore, il rischio passa da 2,5 a 1,25%: una differenza dell’1%, correlata all’assunzione quotidiana di un farmaco per 5 anni con qualche possibile effetto collaterale. Se però la donna ha un rischio molto più alto nel breve termine, per esempio del 16%, i farmaci hanno più probabilità di causare effetti collaterali. Sono dunque molti i fattori che possono incidere sulla decisione».

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