Più aumenta la pressione arteriosa, più aumenta il rischio di fibrillazione atriale

14 Lug 2012 Cardiologia

La fibrillazione atriale (FA), l’aritmia cardiaca in assoluto più comune, si verifica nell’1-2% della popolazione generale e la sua incidenza è in aumento, tanto che ci si aspetta che raddoppi nei prossimi 50 anni. L’ipertensione (IA) è il maggior fattore di rischio di FA e recentemente uno studio effettuato sulle donne ha dimostrato un maggior rischio di FA anche per la pressione normale-alta. Hypertension ha recentemente pubblicato uno studio epidemiologico a lungo termine in cui si è estesa agli uomini questa relazione: in Norvegia sono strati studiati 2.014 uomini sani, arruolati tra il 1972 e il 1975, e sono stati seguiti in un follow up di 30 anni, con 270 casi di FA documentata. I soggetti esaminati sono stati divisi in quartili e si è osservato che il rischio di FA aumentava significativamente (1.60 volte) negli uomini con una PAS basale > 140 mm Hg e di 1.50 volte in quelli con una pressione normale-alta (128-138 mm Hg, terzo quartile) confrontati con quelli con una PAS < 128 mm Hg (quartile più basso). La PAD basale > 80 mm Hg aumentava il rischio di FA di 1.79 volte confrontato con i soggetti che avevano una PAD basale < 80 mm Hg. Le differenze si mantenevano significative anche se  aggiustate per diabete o malattie cardiovascolari insorte prima della FA (durante i 30 anni di osservazione, ci sono stati 115 pazienti che hanno sviluppato una di queste condizioni). Nell’editoriale che accompagna lo studio, Verdecchia si domanda se, visto che i soggetti con PA normale-alta sviluppano ipertensione più di quelli con PA ottimale, sia possibile che la FA si sia sviluppata non tanto nei pazienti con PA nomale-alta, ma in pazienti che nel frattempo erano diventati ipertesi. Comunque è chiaro che questi risultati inducono ad una politica ancora più aggressiva nei confronti dell’IA ma anche della PA normale-alta ed è importantissimo che si conducano studi di intervento per chiarire la relazione tra le strategie di controllo della PA ed il rischio di FA.

Grundvold I et al. Hypertension 2012, 59:198-204
Verdecchia P et al. Hypertension 2012; 59: 184-185

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Scompenso cardiaco e indicazioni terapeutiche delle Linee Guida

12 Lug 2012 Cardiologia

Alcuni cardiologi di Los Angeles, confrontando un gruppo di pazienti con scompenso cardiaco che erano deceduti entro due anni dall’arruolamento con un altro gruppo di pazienti che invece non erano morti, hanno voluto verificare se il rischio di mortalità fosse correlabile all’attinenza o meno alle raccomandazioni terapeutiche contenute nelle principali linee guida sullo scompenso cardiaco. L’ uso dei beta-bloccanti e, laddove necessaria, della terapia di re-sincronizzazione cardiaca (CRT) ha ridotto significativamente il rischio di morte rispettivamente del 58% e del 56%, mentre gli sforzi educativi circa la ottimale gestione della insufficienza cardiaca lo ha ridotto del 27%. Ininfluente invece l’utilizzo degli antagonisti dell’aldosterone (vedi tabella 1). I ricercatori hanno inoltre osservato una riduzione della mortalità incrementale ad ogni successivo trattamento raccomandato dalle linee guida: infatti associando beta-bloccanti agli ACE-inibitori e/o sartani e/o all’ICD, come pure ad una buona educazione sulla gestione della insufficienza cardiaca, si è osservata una straordinaria riduzione del rischio di morte a due anni, pari all’81%, anche se si è rilevato un plateau una volta che il paziente veniva trattato con quattro o cinque differenti terapie (vedi tabella 2). Ovvie le conclusioni degli autori dello studio circa la necessità di utilizzare le linee guida sia in termini di terapia al basale che di necessità di una sua modificazione incrementale nel corso della evoluzione clinica dello scompenso; conclusioni ovvie ma utili per rafforzare nei clinici questa necessità. 

Fonarow GC et al. Incremental Reduction in Risk of Death Associated With Use of Guideline-Recommended Therapies in Patients With Heart Failure: A Nested Case-Control Analysis of IMPROVE HF  Journal of the American Heart Association. 2012; 1: 16-26

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Cardiosfere infuse nelle coronarie riducono l’area infartuale

L’infusione intracoronarica di cellule autologhe derivate da cardiosfere (Cdc, sfere di cellule staminali proliferanti di origine miocardica) nei pazienti con disfunzione ventricolare sinistra dopo infarto miocardico, è sicura e determina, a distanza di qualche mese, la riduzione dell’area cicatriziale e un aumento di massa cardiaca vitale. Il dato, in precedenza conseguito in modelli preclinici, trova ora riscontro sull’uomo in uno studio prospettico randomizzato di fase 1, denominato Caduceus (Cardiosphere-derived autologous stem cells to reverse ventricular dysfunction). Il trial è stato condotto dal team di Raj R. Makkar, del Cedars-Sinai heart institute di Los Angeles (Usa), su 25 pazienti che avevano subito un infarto da 2 a 4 settimane prima. Sul totale degli arruolati, 8 sono stati assegnati alle cure standard e 17 al trattamento con Cdc. In questi ultimi, le cellule autologhe proliferate da campioni bioptici endomiocardici sono state infuse nell’arteria correlata all’area infartuale 1,5-3 mesi dopo l’evento, senza che si verificassero mai complicanze. A un follow-up di 6 mesi nessun paziente era deceduto, né aveva sviluppato tumori cardiaci o eventi avversi cardiaci maggiori. Nel gruppo Cdc, 4 pazienti (24%) hanno avuto eventi avversi gravi contro 1 solo soggetto tra i controlli (13%). L’analisi Rm, però, nei soggetti trattati con Cdc ha evidenziato diminuzioni della massa cicatriziale e aumenti di massa cardiaca vitale, contrattilità regionale e ispessimento regionale sistolico della parete. In ogni caso, non si sono rilevate differenze fra i 2 gruppi per quanto riguarda le modificazioni del volume  telediastolico e telesistolico e della frazione d’eiezione ventricolare sinistra. Gli autori, alla luce dei risultati ottenuti, compatibili con la dimostrazione di una rigenerazionale terapeutica di tessuto miocardico vitale, ritengono si debba proseguire la ricerca in questo settore con studi di fase 2.

Lancet, 2012 Feb 14.

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Anamnesi familiare identifica rischio cardiovascolare

14 Mag 2012 Cardiologia

Nell’ambito delle cure primarie, la raccolta sistematica dell’anamnesi familiare dai pazienti aumenta in modo significativo il numero dei soggetti identificati come ad alto rischio cardiovascolare. Lo sostengono Nadeem Qureshi dell’università di Nottingham (UK) e collaboratori, autori di uno studio controllato randomizzato a grappolo su 748 soggetti di età compresa fra i 30 e i 65 anni, senza diagnosi pregressa di rischio cardiovascolare (Cv). I partecipanti sono stati suddivisi in un gruppo controllo, in cui si effettuava una valutazione standard del rischio Cv, e in gruppo intervento, che prevedeva la raccolta dettagliata aggiuntiva dei dati anamnestici familiari e la compilazione – da parte del paziente – di un questionario relativo alla storia medica personale, con dettagli su malattie coronariche nei genitori e nei nonni e sulle caratteristiche fisiopatologiche degli altri familiari. In tutti i soggetti è stato calcolato il rischio Cv secondo il punteggio Framingham. Se tale rischio era =/> 20% lungo i 10 anni successivi, si offriva la possibilità di un appuntamento per una consulenza sugli stili di vita. Usando in modo sistematico la raccolta dell’anamnesi familiare, la percentuale di soggetti del gruppo intervento classificati ad alto rischio Cv (=/<20% a 10 anni) è aumentata del 40,8%, rispetto all’incremento del 5,6% del gruppo controllo dopo aggiunta dei dati familiari da record elettronici. Tra le due modalità di intervento (sistematica vs tradizionale), la percentuale di partecipanti ad alto rischio Cv in media è aumentata, rispettivamente, di 4,8 e 0,3 punti percentuali, con una differenza tra gruppi di 4,5 punti percentuali, rimasta significativa anche dopo correzioni per variabili confondenti. I ricercatori concludono che questa utile strategia di intervento, visti i bassi costi, l’alta adesione e gli elevati tassi di completamento dei questionari, è effettivamente percorribile. 

Ann Intern Med, 2012; 156(4):253-62

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Iperglicemia postprandiale danneggia variabilità pressoria diurna

L’iperglicemia postprandiale è più comune dell’iperglicemia a digiuno nei pazienti con diabete di tipo 2 con mancata diminuzione notturna della pressione. Al momento non è il caso di raccomandare variazioni del trattamento antidiabetico per il ripristino della corretta variabilità pressoria, ma considerando l’importanza dell’iperglicemia postprandiale per gli eventi cardiovascolari, sarebbe opportuno trattare sia l’iperglicemia a digiuno che quella postprandiale in questi pazienti. Il collegamento meccanico fra anomalie della variabilità pressoria notturna e anomalie del metabolismo del glucosio rimane poco chiaro: l’anello mancante potrebbe consistere in una disfunzione autonomica e delle cellule endoteliali.

(Am J Hypertens 2007; 20: 541-5 e 546-7)

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Recidiva ictale con livelli pressori nel range di normalità

I pazienti colpiti da un recente ictus ischemico non cardioembolico potrebbero non tollerare livelli pressori nei limiti molto bassi di normalità. Dallo studio Profess (Prevention regimen for effectively avoiding second strokes) – condotto da Bruce Ovbiagele, dell’università della California, e collaboratori – emerge infatti che il rischio di recidive è molto elevato con valori di pressione arteriosa sistolica (Sbp) non solo alti (140-<150 mmHg) e molto alti (=/>150 mmHg), ma anche normali molto bassi (<120 mmHg). Il dato – che si discosta dalle attuali linee guida, secondo cui quanto maggiore è la diminuzione della Sbp (ritenuta normale a un livello <120 mmHg), tanto maggiore è la riduzione del rischio di recidive ictali – scaturisce da un’analisi osservazionale post hoc di un trial multicentrico in cui sono stati arruolati 20.330 pazienti (età =/>50 anni) colpiti da ictus non cardioembolico recente, seguiti per 2,5 anni e suddivisi in 5 categorie, in base al livello medio di Sbp: ‘normale molto basso’ (<120 mmHg), ‘normale basso’ (120-<130 mmHg), ‘normale alto’ (130-<140 mmHg), ‘alto’ (140-<150 mmHg) e ‘molto alto’ (=/>150 mmHg). I tassi di prima recidiva ictale (outcome primario) tra i pazienti dei gruppi con livelli ‘alti’ e ‘molto alti’ di Sbp sono stati 8,7% e 14,1%, rispettivamente. Fra i soggetti nel range di normalità i tassi di recidiva si sono attestati su 8,0% nel gruppo ‘normale molto basso’, 7,2% in quello ‘normale basso’, e 6,8% nel ‘normale alto’. Rispetto ai pazienti del gruppo ‘normale alto’ il rischio di ictus è aumentato di 1,23 e 2,08 volte nei pazienti con livello di Sbp, rispettivamente, ‘alto’ e ‘molto alto’. Il rischio di ictus, comunque, è aumentato significativamente di 1,29 volte anche nei soggetti del gruppo ‘normale molto basso’. Rispetto agli individui del gruppo ‘normale alto’, il rischio composito di ictus, infarto miocardico o morte per cause vascolari (outcome secondario) si è rivelato significativamente maggiore nei pazienti di tutti gli altri gruppi.

JAMA, 2011 Nov 16;306(19):2137-44

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Placche carotidee più predittive dello spessore intima-media

La valutazione ecografica della placca carotidea, rispetto a quella dello spessore intima-media della carotide (Cimt), offre una maggiore accuratezza predittiva di futuri eventi cardiovascolari. È quanto risulta da una meta-analisi effettuata da Yoichi Inaba, dell’Oregon health and science university di Portland (Usa), e collaboratori, condotta su due diversi tipi di studi ritenuti rilevanti: 11 basati sulla popolazione (con misura di outcome costituita da eventi infartuali miocardici), 27 diagnostici di coorte (focalizzati al riconoscimento della malattia coronarica). La meta-analisi effettuata sugli studi di popolazione (che comprendevano un totale di 54.336 pazienti) ha dimostrato che la misurazione della placca carotidea, rispetto a Cimt, possiede un’accuratezza diagnostica significativamente superiore ai fini della predizione di futuri eventi di infarto del miocardio (area sotto la curva Roc, Auc: 0,64 vs 0,61). I tassi di eventi infartuali a 10 anni dopo risultati negativi sono stati inferiori con l’esame della placca carotidea (4%) che con Cimt 4,7%). Anche alla meta-analisi degli studi di coorte (per un totale di 4.878 pazienti) si è confermata una maggiore – ma non significativa – accuratezza diagnostica della valutazione della placca carotidea rispetto alla Cimt per il riconoscimento della malattia coronarica (Auc: 0,76 vs 0,74). 

Atherosclerosis, 2012 Jan;220(1):128-33

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Asa in prevenzione primaria, più danni che benefici

L’impiego dell’acido acetilsalicilico (Asa) in prevenzione primaria al fine di evitare eventi cardiaci o ictali, potrebbe essere più dannoso che benefico. Infatti – secondo una meta-analisi britannica di 9 trial per un totale di 102.261 pazienti seguiti per 6 anni – nonostante vi sia un’importante diminuzione del numero di infarti miocardici non fatali, non si registra una riduzione dei decessi cardiovascolari né della mortalità da cancro. Ma soprattutto è il rischio di sanguinamento interno ad apparire troppo elevato. Gli autori dello studio – appartenenti a varie strutture universitarie e ospedaliere del Regno Unito – ritengono pertanto che sia giustificato l’uso dell’Asa solo in prevenzione secondaria. «Se si trattano 73 persone per circa 6 anni, si avrà un episodio di sanguinamento non banale. Se si trattano circa 160 soggetti per lo stesso periodo di tempo, si riuscirà a prevenire un attacco di cuore che probabilmente non sarebbe stato in ogni caso fatale» ha dichiarato alla Bbc il ricercatore leader Kausik K. Ray, della St George’s University di Londra. «L’Asa può aiutare a ridurre il rischio di attacco cardiaco o ictus nei soggetti con cardiopatia nota, e questo gruppo di pazienti dovrebbe continuare ad assumere il farmaco prescritto dal medico» ha ribattuto Natasha Stewart, della British Heart Foundation. «È però vero che chi non ha una malattia cardiaca sintomatica o diagnosticata non dovrebbe assumere Asa perché il rischio di emorragie interne potrebbe sopravanzare i benefici».

Arch Intern Med, 2012 Jan 9. [Epub ahead of print]

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Ematologia
La luteina previene l’aterosclerosi precoce

Alti livelli sierici di luteina possono giocare un ruolo rilevante nella prevenzione dell’aterosclerosi in fase precoce. È quanto inducono a ritenere i risultati di uno studio caso-controllo effettuato da Zhiyong Zou e colleghi dell’università di Pechino (Cina). I ricercatori hanno arruolato 125 pazienti con aterosclerosi precoce (ossia senza rilevazione ecografica di placche calcifiche), e 107 controlli, tutti di età compresa tra 45 e 68 anni. In ogni partecipante si sono misurati contemporaneamente, mediante ecografia carotidea, lo spessore dell’intima-media (Im) della carotide comune e la rigidità arteriosa del medesimo vaso, oltre alla concentrazione sierica dei carotenoidi tramite cromatografia liquida. Nei casi di aterosclerosi precoce, il livello sierico di luteina è risultato significativamente inferiore rispetto ai controlli. Inoltre si è visto che la concentrazione della luteina era inversamente associata allo spessore Im carotideo. La zeaxantina e il beta-carotene sono apparsi entrambi inversamente correlati alla rigidità della arteria carotide comune destra, al modulo elastico e alla velocità dell’onda di polso. Dopo correzione per età e genere, queste associazioni sono rimaste significative. In ogni caso non si è rilevata una differenza significativa tra zeaxantina e beta-carotene tra casi e controlli.

Atherosclerosis, 2011; 219(2):789-93

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Rischio Cv legato a peso materno prima e durante gravidanza

12 Mar 2012 Cardiologia

Il peso della madre, prima e durante la gravidanza, si associa a fattori di rischio cardiovascolare nella prole in età adulta giovanile. Le associazioni sembrano guidate principalmente dall’adiposità nei figli. È quanto emerge da uno studio condotto da un gruppo di ricercatori israeliani, guidato da Hagit Hochner dell’università ebraica di Gerusalemme, i quali hanno coinvolto una coorte di 1.400 giovani adulti (età media: 32 anni) con l’obiettivo di esaminare, in modo prospettico, le associazioni tra body mass index pregravidico (mppBmi) e aumento di peso gestazionale (Gwg), da un lato, con l’adiposità e gli esiti cardiovascolari correlati nei figli. I valori più elevati di mppBmi, in modo indipendente da Gwg o altri fattori confondenti – sono risultati significativamente associati, nella prole, a livelli più alti di Bmi, circonferenza vita, pressione arteriosa sistolica e diastolica, insulina e trigliceridi, e a ridotte quote di Hdl-c. In particolare, nei figli di donne del quartile più elevato di mppBmi (Bmi>26,4 kg/m2) – rispetto a quelli di donne del quartile inferiore (Bmi<21 kg/m2) – si sono osservati una differenza individuale di 5 kg/m2 di Bmi in più, una circonferenza vita superiore di 8,4 cm, livelli di trigliceridi più alti di 11,4 mg/dL e una quota di Hdl-c ridotta di 3,8 mg/dL. Il Gwg, indipendentemente dal mppBmi, è pure apparso associato all’adiposità nei figli; mettendo a confronto la prole generata da madri del quartile più alto con quello più basso, si sono rilevate differenze di 1,6 kg/m2 nel Bmi e di 2,4 cm a livello della circonferenza vita. 

Circulation, 2012 Feb 17.

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Scompenso: ursodesossicolico migliora flusso ematico

11 Mar 2012 Cardiologia

L’acido ursodesossicolico (Udca), normalmente impiegato nel trattamento della epatopatia colestatica, è ben tollerato dai pazienti con scompenso cardiaco cronico nei quali migliora il flusso ematico periferico e i marker di funzionalità epatica. Lo dimostrano i risultati di uno studio prospettico, crociato e in doppio cieco con placebo realizzato da Stephan von Haehling della scuola medica Charité di Berlino (Germania) e collaboratori. Il razionale della sperimentazione consisteva da un lato nel frequente riscontro – nei soggetti scompensati – di disfunzione endoteliale, ritenuta corresponsabile delle limitate capacità di esercizio dei pazienti, e dall’altro nel considerare il lipopolisaccaride batterico un possibile trigger per il rilascio di citochine proinfiammatorie, con aggravamento del quadro endoteliale. Di qui l’ipotesi di somministrare l’Udca che, grazie alle sue proprietà antinfiammatorie e citoprotettive, e alla possibilità di formare micelle intorno al lipopolisaccaride, avrebbe potuto migliorare il flusso ematico periferico nei pazienti con insufficienza cardiaca. Per verificare questa tesi, sono stati arruolati 16 pazienti di sesso maschile scompensati (classe Nyha II/III, frazione di eiezione ventricolare <45%) ma clinicamente stabili, i quali sono stati randomizzati a ricevere 500 mg di Udca bis/die per 4 settimane e placebo per altre 4 settimane. Rispetto al placebo, l’Udca ha migliorato il picco di flusso post-ischemico nel braccio (endpoint primario, misurato con pletismografia “strain-gauge”) e si è rilevata una tendenza positiva per un miglioramento analogo nell’arto inferiore. Anche le funzioni epatiche sono migliorate: rispetto al placebo, i livelli di gamma-Gt, aspartato transaminasi e recettore solubile del Tnf-alfa sono risultati inferiori. Non si sono visti cambiamenti nel test del cammino a 6 minuti o di classe funzionale Nyha, e i livelli di Tnf-alfa e interleuchina-6 sono rimasti immutati o aumentati rispetto al placebo.

J Am Coll Cardiol, 2012; 59(6):585-92

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