Postmenopausa, cuore a rischio con Dhea-S basso

13 Feb 2011 Cardiologia

Nelle donne in postmenopausa, portatrici di fattori di rischio coronarico e sottoposte a coronarografia per sospetta ischemia miocardica, ridotti livelli di deidroepiandrosterone solfato (Dhea-S) sono associati a una maggiore mortalit? cardiovascolare e per tutte le cause. ? il risultato di uno studio multicentrico statunitense che ha verificato i rischi connessi al declino con l’et? di uno dei maggiori pro-ormoni circolanti. Nel trial sono state coinvolte 270 donne in postmenopausa, sottoposte a coronarografia e a dosaggio degli ormoni nel sangue per sospetta ischemia, le quali sono state quindi seguite annualmente. Come outcome primario si ? considerata la mortalit? cardiovascolare; le analisi secondarie comprendevano la mortalit? per tutte le cause, gli eventi cardiovascolari non fatali (infarto miocardico, ictus e scompenso cardiaco congestizio) e la malattia coronarica ostruttiva. Analizzando i dati, si ? visto che le donne nel terzile inferiore Dhea-S avevano la pi? alta mortalit? cardiovascolare (17% tasso di mortalit? a 6 anni vs 8%) e per tutte le cause (21 vs 10%) rispetto alle donne con i livelli pi? elevati dell’ormone. L’accresciuto rischio di morte cardiovascolare (Hr: 2,55) si ? mantenuto immodificato dopo aggiustamento per molteplici fattori di rischio cardiovascolare (Hr: 2,43) ma ? divenuto non signficativo in seguito a ulteriori correzioni per la presenza o la gravit? di malattia coronarica ostruttiva (Hr: 1,99). Risultati simili sono stati ottenuti in relazione alla mortalit? per tutte le cause. Bassi livelli di Dhea-S, infine, sono apparsi solo marginalmente ma non indipendentemente associati con coronaropatia ostruttiva.

J Clin Endocrinol Metab, 2010 Aug 25. [Epub ahead of print]

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Frequenza cardiaca a riposo stima il rischio cardiovascolare

I metodi per la stima del rischio cardiovascolare, tra i quali il Systematic coronary risk evaluation (Score), solitamente non tengono conto dell’elevata frequenza cardiaca a riposo (Rhr), che peraltro ? un noto fattore indipendente di rischio cardiovascolare (Cv). Da Marie Therese Cooney e collaboratori del Dipartimento di cardiologia dell’Adelaide meath hospital di Tallaght (Dublino) viene allora la proposta di inglobare questo semplice parametro nei sistemi diagnostici solitamente utilizzati (basati sul rilievo della pressione arteriosa e dei lipidi ematici); se infatti il valore della Rhr non ? sempre in grado di migliorare apprezzabilmente il calcolo della mortalit? Cv, sottolineano gli autori, esso ? comunque utile in quanto pu? rendere pi? favorevole il rapporto costo-beneficio e l’accessibilit? della procedura complessiva utilizzata. L’?quipe irlandese ha ricavato dallo studio nazionale Finrisk (comprendente 14.997 uomini e 15.861 donne) due formule per la stima del rischio a dieci anni della mortalit? Cv. La prima conteneva le attuali variabili dello Score (colesterolo totale, pressione arteriosa sistolica, fumo, et?, sesso); l’aggiunta della Rhr determinava soltanto minimi miglioramenti discriminativi, basati sia sull’area sotto la curva (Auroc) sia sul net reclassification index (Nri). La seconda formula, semplificata, conteneva solo, come variabili, et?, fumo, sesso e indice di massa corporea. In questo caso, l’addizione della Rhr provocava un miglioramento statisticamente significativo e molto rilevante nella Auroc (uomini: 0,819 da 0,812; donne: 0,862 da 0,827) e nel Nri, consentendo ai ricercatori di mettere a punto un semplice grafico per il calcolo del rischio di un evento fatale Cvs.

Eur Heart J, 2010 Jul 23. [Epub ahead of print]

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Clopidogrel e Asa: efficacia non cambia con dosi

L’acido acetilsalicilico (Asa) e il clopidogrel sono antiaggreganti ampiamente utilizzati nei pazienti con sindrome coronarica acuta e in quelli sottoposti a intervento coronarico percutaneo (Pci), ma non esistono linee guida circa i dosaggi. Uno studio multicentrico, condotto da ricercatori appartenenti al gruppo Current-Oasis7 (Clopidogrel and aspirin optimal dose usage to reduce recurrent events – Seventh organization to assess strategies in ischemic syndromes), ora rivela che non esistono differenze significative tra alti e bassi dosaggi, per entrambi gli agenti, in relazione all’outcome primario costituito da morte cardiovascolare, infarto miocardico o ictus a trenta giorni. Gli studiosi hanno assegnato in modo randomizzato, secondo un disegno fattoriale 2×2, 25.086 pazienti con sindrome coronarica acuta e ricoverati per l’applicazione di una strategia invasiva, a ricevere una dose di clopidogrel doppia (carico al giorno 1 da 600 mg, seguito da 150 mg/die per sei giorni e 75 mg/die in seguito) o standard (carico da 300 mg e 75 mg/die successivamente) oppure Asa a dosi elevate (da 300 a 325 mg/die) o ridotte (da 75 a 100 mg/die). L’outcome primario si ? verificato nel 4,2% dei pazienti che ricevevano la doppia dose di clopidogrel rispetto al 4,4% di quelli trattati con dose standard (Hr: 0,94); un sanguinamento maggiore, inoltre, si ? rilevato nel 2,5% dei soggetti con somministrazione di doppia dose di clopidogrel, contro il 2,0% dei pazienti con dosaggio standard (Hr: 1,24). Da segnalare che la dose doppia di clopidogrel, nei 17.263 pazienti sottoposti a Pci, ? apparsa associata a una significativa riduzione dell’outcome secondario costituito dalla trombosi dello stent (1,6% vs 2,3%; Hr: 0,68). Non si sono infine registrate differenze significative tra Asa ad alte e basse dosi in relazione all’outcome primario (4,2% vs 4,4%; Hr: 0,97) o al sanguinamento maggiore (2,3% vs 2,3%; Hr: 0,99).

N Engl J Med, 2010; 363:930-942

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Scarso controllo glicemico in unit? coronarica predice mortalit

14 Dic 2010 Cardiologia

Nei pazienti con infarto acuto e sovraslivellamento del tratto ST, ricoverati per intervento coronarico percutaneo (Pci) e senza diabete precedentemente noto, quanto peggiore ? il controllo glicemico intraospedaliero tanto maggiore ? la mortalit?. In particolare, a un picco glicemico >180 mg/dl corrisponde la mortalit? pi? elevata, mentre con valori compresi tra 140 e 180 mg/dl i tassi di mortalit? risultano intermedi. Il picco glicemico risulta un fattore predittivo indipendente di mortalit? in unit? coronarica. Secondo questi dati, prodotti da Chiara Lazzeri, Gian Franco Gensini e collaboratori dell’unit? di Terapia intensiva cardiaca dell’ospedale Careggi di Firenze, durante il ricovero in ospedale gli intensivisti, per conseguire il controllo glicemico, dovrebbero raggiungere valori inferiori a 140 mg/dl. Lo studio, che rivaluta la gestione dell’iperglicemia dopo rivascolarizzazione, ? stato effettuato su 252 pazienti giunti consecutivamente in reparto con le caratteristiche sopra descritte per l’effettuazione di una Pci e ha valutato il ruolo prognostico di tre diverse fasce di picco glicemico in ospedale (<140, 140-180 e >180 mg/dl). Il gruppo con valori pi? elevati ha mostrato una mortalit? del 15,9%, significativamente superiore rispetto a quella degli altri due sottogruppi.

Eur J Cardiovasc Prev Rehabil, 2010; 17(4):419-23

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Stent coronarici a confronto

27 Nov 2010 Cardiologia

A 13 mesi dall’applicazione, lo stent di nuova generazione a eluizione di zotarolimus ha dimostrato di non essere inferiore allo stent a rilascio di everolimus in una popolazione di pazienti che aveva minimi criteri di esclusione. La sperimentazione del dispositivo coronarico, che aveva gi? dato prova di ridurre il rischio di ristenosi, ? stata eseguita mediante paragone allo strumento pi? diffuso per verificarne efficacia e sicurezza. Allo scopo ? stato varato un trial multicentrico, nel quale 2.292 soggetti sono stati randomizzati al trattamento con uno dei due stent. Un 20% dei partecipanti sono stati scelti in modo casuale a ripetere l’angiografia dopo 13 mesi. L’endpoint primario considerato ? stato l’insuccesso della lesione target, definita come un insieme di morte da cause cardiache, qualunque tipo di infarto miocardico (non chiaramente attribuibile a un vaso non target) o rivascolarizzazione entro 12 mesi della lesione bersaglio indicata clinicamente. L’endpoint angiografico secondario ? stato l’estensione della stenosi interna a 13 mesi. Lo stent allo zotarolimus ? apparso non inferiore all’everolimus in relazione all’endpoint primario, che ? occorso nell’8,2% e nell’8,3% dei pazienti, rispettivamente. Non si sono rilevate differenze significative tra i due gruppi in relazione al tasso di morte per cause cardiache, infarto miocardico di qualsiasi tipo o rivascolarizzazione. Il tasso di trombosi dello stent ? stato di 2,3% nel gruppo zotarolimus e 1,5% in quello everolimus. Sostanziale sovrapponibilit? si ? vista tra i due device per altri parametri relativi alla perviet? del lume. Non si sono avute differenze significative tra gruppi, infine, nel tasso di eventi avversi.

N Engl J Med, 2010 Jun 16. [Epub ahead of print]

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Post-infarto, prognosi molto peggiorata con Bpco

In un’ampia popolazione di soggetti colpiti da infarto del miocardio (Im), seguita per quasi trent’anni in una comunit? geograficamente delimitata, si ? verificato che la prevalenza della broncopneumopatia cronica ostruttiva (Bpco) ? aumentata con il passare degli anni, e che questa condizione risulta associata a un aumentato rischio di morte post-infartuale, indipendentemente da et?, fattori di rischio e altre comorbilit?. Tutto ci? evidenzia l’importanza di questo quadro patologico e la necessit? di ottimizzare l’assistenza rivolta a questi pazienti ad alto rischio. ? la conclusione di uno studio condotto da Francesca Bursi, dell’Istituto di Cardiologia dell’Ospedale policlinico universitario di Modena, in collaborazione con la Divisione di Malattie cardiovascolari della Mayo Clinic di Rochester. Sono state incluse nel trial persone abitanti in una cittadina del Minnesota, colpite da Im tra il 1979 e il 2007 (n=3.438, 42% donne, et? media: 68 /-15 anni), nelle quali la presenza di Bpco veniva accertata dalle cartelle cliniche. Sul totale dei pazienti studiati, 415 (12%) sono risultati affetti da Bpco, la cui prevalenza ? cresciuta dal 7% del periodo 1979-1985 al 15% di quello 2000-2007 (P<0,001). La sopravvivenza ? apparsa peggiore nei soggetti con Bpco rispetto a quelli senza, con un tasso di sopravvivenza a cinque anni di 46% vs 68%, rispettivamente. L'associazione tra Bpco e morte, infine, ? risultata indipendente da et? e fattori di rischio (Hr aggiustata: 1,30) e non si ? modificata con il passare del tempo. Am Heart J, 2010; 160(1):95-101

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Ipercolesterolemici oggi, ipertesi domani

22 Ott 2010 Cardiologia

Controllare il colesterolo per ridurre la pressione. A suggerire questa strategia sono i risultati del Brisighella heart study, condotto dal gruppo di Ada Dormi del Dipartimento di Medicina, Invecchiamento e Nefrologia clinica dell’Universit? di Bologna per valutare in che misura l’ipercolesterolemia costantemente elevata in soggetti giovani e inizialmente normotesi pu? incidere sullo sviluppo di ipertensione stabile nell’arco degli otto anni successivi. I 932 soggetti coinvolti nello studio, caratterizzati da valori di colesterolo crescenti (da normali a francamente elevati) e sottoposti o meno a terapie ipocolesterolemizzanti, sono stati suddivisi in quattro gruppi in funzione dei cambiamenti della colesterolemia registrati tra il 1996 e il 2004. I gruppi 1 e 2 comprendevano soggetti con valori di colesterolo totale nella norma o scesi al di sotto della soglia critica nel periodo d’osservazione. Nei gruppi 3 e 4 erano inclusi pazienti con colesterolemia elevata fin dall’inizio del trial o aumentata oltre i limiti di tolleranza nel corso del monitoraggio. In base ai dati presentati a Oslo (Norvegia) in occasione del 20? Congresso dell’European society of hypertension (Esh 2010), la presenza di ipercolesterolemia di base o di nuova insorgenza aumenta in modo significativo l’incidenza di ipertensione stabile, che passa dal 7,1% registrato nei gruppi 1-2 al 13,8% dei gruppi 3-4, quasi il doppio. Un incremento che si mantiene statisticamente significativo anche dopo aver eliminato possibili fattori di rischio confondenti e che ? particolarmente accentuato nella sottopolazione femminile, dove l’incidenza di ipertensione cresce in media dal 6,1% della coorte con valori di colesterolo accettabili a ben il 14,5% nel gruppo con ipercolesterolemia pi? o meno pronunciata. Le corrispondenti incidenze registrate negli uomini sono state dell’8,2 e del 13,1%. Un chiaro segnale che il parametro lipidico peggiora il rischio cardiovascolare non soltanto per se, ma anche indirettamente influenzando in modo sfavorevole i parametri pressori, probabilmente attraverso l’attivazione del sistema renina-angiotensina a livello tissutale.

Congresso Esh 2010, 18-21 giugno

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Aterosclerosi regredisce con inibitore fosfodiesterasi

13 Ott 2010 Cardiologia

In un confronto tra farmaci antiaggreganti efficaci nel prevenire recidive aterosclerotiche in pazienti con diabete di tipo 2, la somministrazione di cilostazol, inibitore della fosfodiesterasi, rispetto a quella di acido acetilsalicilico (Asa) ha determinato una potente inibizione alla crescita progressiva dello spessore della tunica intima e media carotidea, indicatore indiretto di eventi cardiovascolari. ? il risultato dello studio Dapc (Diabetic atherosclerosis prevention by cilostazol), prospettico, randomizzato, in aperto e a endpoint cieco, svolto in quattro paesi dell’Asia orientale da Naoto Katakami, della Scuola universitaria di medicina di Osaka (Giappone), e collaboratori. Un totale di 329 soggetti affetti da diabete di tipo 2 con sospetta arteriopatia periferica sono stati suddivisi in due gruppi di trattamento: Asa (da 81 a 100 mg/die) o cilostazol (da 100 a 200 mg/die). L’endpoint primario dello studio era costituito dalle modificazioni rilevate nello spessore della parete delle arterie carotidi comuni in un periodo di osservazione di due anni. La diminuzione dello spessore massimo e medio della carotide comune sinistra e destra ? risultata significativamente superiore nel gruppo cilostazol rispetto a quello Asa. A un’analisi di regressione corretta per possibili fattori confondenti come i livelli dei lipidi e dell’emoglobina A1c, i miglioramenti dello spessore carotideo ottenuti mediante il trattamento con cilostazol sono rimasti significativamente superiori a quelli conseguiti con Asa.

Circulation, 2010; 121(23):2584-91

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Efficacia della terapia immunosoppressiva nei pazienti con cardiomiopatia infiam

Lo studio TIMIC ha valutato l?efficacia dell?immunosoppressione nella cardiomiopatia infiammatoria virus-negativa.

Lo studio, randomizzato, in doppio cieco, controllato con placebo, ha incluso 85 pazienti con miocardite e insufficienza cardiaca cronica ( maggiore di 6 mesi ), non-responsiva alla terapia convenzionale, con nessuna evidenza di genomi virali a livello miocardico.

I pazienti sono stati trattati con Prednisone 1 mg/kg/die per 4 settimane, seguito da 0.33 mg/kg/die per 5 mesi , e Azatioprina 2 mg/kg/die per 6 mesi ( 43 pazienti, Gruppo 1 ) oppure placebo ( 42 pazienti, Gruppo 2 ) in aggiunta alla terapia convenzionale per lo scompenso cardiaco.

L?endpoint primario era rappresentato dal miglioramento a 6 mesi della funzione ventricolare sinistra.

I pazienti del Gruppo 1 hanno mostrato un significativo miglioramento della frazione d?eiezione ventricolare sinistra e una significativa riduzione delle dimensioni e del volume ventricolare sinistro, rispetto al basale.

Nessuno dei pazienti del Gruppo 2 ha mostrato miglioramento della frazione d?eiezione, che ? peggiorata in modo significativo rispetto al basale.

Nessuna reazione avversa maggiore ? stata registrata come conseguenza dell?immunosoppressione.

Questi dati hanno confermato l?efficacia dell?immunosoppressione nella cardiomiopatia infiammatoria virus-negativa. La mancanza di risposta nel 12% dei casi sta ad indicare la presenza di virus non-screenati o di meccanismi di danno e di infiammazione non-sensibili all?immunosoppressione.

Frustaci A et al, Eur Heart J 2009; 30: 1995-2002

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Calcolo del rischio cv pi? preciso con tre marker in pi?

29 Set 2010 Cardiologia

La misurazione dei livelli ematici di frammento aminoterminale del pro-peptide natriuretico cerebrale (Nt-proNb), proteina C-reattiva (Pcr) e troponina I sensibile, ossia di biomarker aggiuntivi rispetto a quelli impiegati nella pratica convenzionale, ha permesso di migliorare la valutazione del rischio cardiovascolare a 10 anni in due coorti europee costituite da persone di mezza et?. Per arrivare a questo risultato, Stefan Blankenberg, dell’universit? Johannes Gutenberg di Magonza (Germania), e collaboratori sono partiti dalla valutazione di trenta nuovi biomarker, appartenenti a differenti vie fisiopatologiche, in 7.915 uomini e donne della coorte Finrisk97, sani al basale, quando ? stato effettuato il dosaggio dei marcatori. Tra questi soggetti si sono registrati 538 attacchi cardiovascolari a 10 anni (eventi coronarici o ictus fatali o non fatali) e ci? ha portato allo sviluppo di un punteggio da biomarcatori successivamente sottoposto a validazione in un’altra coorte, denominata Belfast prime, composta questa volta da soli uomini (n=2.551) nei quali si sono poi avuti 260 eventi. Non si ? riscontrato alcun biomarker che da solo riuscisse a migliorare in modo consistente la stima del rischio cardiovascolare negli uomini e nelle donne del Finrisk97 e negli uomini del Prime. In ogni caso, le associazioni pi? forti in tal senso si sono rilevate con Nt-proNb (1,23), Prc (1,23), peptide natriuretico di tipo B (1,19) e troponina sensibile (1,18). Selezionando questi ultimi, si ? allora sviluppato un nuovo punteggio dalla coorte Finrisk97 e lo si ? aggiunto a un modello convenzionale di fattori di rischio nella coorte maschile Belfast prime, dove ? stato validato: il suo impiego, infatti, ha permesso di migliorare la statistica, la discriminazione integrata e ha consentito l’effettuazione di una riclassificazione significativa degli individui tra le varie categorie di rischio. Sono comunque necessarie ulteriori validazioni, in altre popolazioni e gruppi d’et?.

Circulation, 2010; 121(22):2388-97

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