Fa post-infarto: rischio a breve termine da antiaritmici

28 Set 2010 Cardiologia

Arriva una nuova conferma, questa volta proveniente dallo studio Valiant (Valsartan in acute myocardial infarction), sul fatto che esiste una popolazione di pazienti con fibrillazione atriale (Fa) in cui l’uso di farmaci antiaritmici pu? aumentare il rischio di morte. Si tratta dei soggetti con aritmia successiva a un infarto miocardico (Mi), nei quali l’adozione di una strategia di controllo del ritmo basata sugli antiaritmici risulta associata a una maggiore mortalit? a 45 giorni rispetto a una strategia di controllo della frequenza. Il trattamento antiaritmico, peraltro, non risulta correlato a un aumento della mortalit? al di fuori dell’immediato periodo perinfartuale. Sono queste le evidenze tratte dall’analisi effettuata da Kent R. Nilsson e collaboratori del Duke university Medical center di Durham (Stati uniti) sui dati di 1.131 pazienti con Af dopo Mi, classificati secondo il tipo di trattamento ricevuto in due categorie: controllo del ritmo (n=371) e controllo della frequenza (n=760). Usando modelli di Cox, i ricercatori hanno confrontato i due gruppi in relazione al decesso e all’ictus (gli outcome principali) durante due differenti e predeterminati periodi di tempo dopo la randomizzazione: 0-45 giorni e 45-1.096 giorni. Dopo correzioni per fattori confondenti, si ? verificato che la strategia di controllo del ritmo era associata a un aumento della mortalit? precoce (0-45 giorni, Hr 1,9) ma non di quella tardiva (45-1.096, Hr 1,1), mentre non si sono osservate differenze nell’incidenza di ictus nei due periodi di tempo (Hr 1,2 e 0,6, rispettivamente).

Heart, 2010; 96(11):838-42

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Negli Usa calo di ricoveri e decessi per infarto

25 Set 2010 Cardiologia

L’incidenza dell’infarto miocardico acuto (Ima) ? diminuita in modo significativo dopo il 2000; inoltre, a partire dal 1999, risulta ridotta in modo marcato anche l’incidenza dell’Ima con sovraslivellamento del tratto St (Stemi). Quanto alle riduzioni osservate nei tassi di fatalit? a breve termine per Ima, queste sembrerebbero dovute, almeno in parte, a una diminuzione di incidenza di Stemi e a un minore tasso di decessi dopo Ima senza sovraslivellamento St. Sono questi i pi? recenti trend di incidenza e outcome dell’Ima nella popolazione secondo un ampio studio di comunit? svolto negli Stati uniti da Robert W. Yeh, del Massachusetts general hospital di Boston, e collaboratori, basandosi sui dati di pazienti ospedalizzati tra il 1999 e il 2008. In questo periodo sono stati identificati 46.086 ricoveri per Ima che hanno interessato 18.691.131 persone/anno. L’incidenza dell’Ima, tenendo conto di correzioni per et? e sesso, ? aumentata da 274 casi per 100.000 persone/anno nel 1999 a 287 nel 2000, per diminuire in seguito ogni anno, fino a raggiungere una quota pari a 208 casi per 100.000 persona/anno nel 2008, equivalente a una riduzione relativa del 24% sull’intervallo considerato. L’incidenza dello Stemi, corretta per et? e sesso, ? calata lungo tutto il periodo di studio (da 133 a 50 casi per 100.000 persone/anno, rispettivamente nel 1999 e nel 2008). Anche la mortalit? a trenta giorni, infine, ? significativamente diminuita nello stesso lasso di tempo (odds ratio: 0,76).

New Engl J Med, 2010; 362(23):2155-65

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Morte cardiaca improvvisa: prevenzione con l?Amiodarone

22 Set 2010 Cardiologia

Non tutti i pazienti a rischio di morte cardiaca improvvisa sono eleggibili per l?impianto di ICD ( defibrillatore cardioverter impiantabile ).
Ci sono, tuttavia, dati discordanti riguardo all?efficacia e alla sicurezza dell?Amiodarone ( Cordarone ) nella prevenzione della morte cardiaca improvvisa.

Ricercatori della Duke University a Durham negli Stati Uniti, hanno condotto una meta-analisi di tutti gli studi controllati, randomizzati, che avevano esaminato l?uso di Amiodarone nella prevenzione della morte improvvisa cardiaca.

Sono stati identificati 15 studi, in cui 8.522 pazienti sono stati assegnati in modo casuale ad Amiodarone o a placebo/controllo.

L?Amiodarone ha ridotto l?incidenza di morte cardiaca improvvisa ( 7.1% vs 9.7%; OR=0.71; p<0.001 ) e di mortalit? cardiovascolare ( 14% vs 16.3%; OR=0.82; p=0.004 ). C?? stata una riduzione del rischio assoluto dell?1.5% nella mortalit? per qualsiasi causa che non ha incontrato la significativit? statistica ( p=0.093 ). La terapia con Amiodarone ha aumentato il rischio di tossicit? polmonare ( 2.9% vs 1.5%; OR=1.97; p=0.002 ), tossicit? tiroidea ( 3.6% vs 0.4%; OR=5.68; p<0.001 ). In conclusione, l?Amiodarone riduce il rischio di morte improvvisa cardiaca del 29% e di malattia cardiovascolare del 18%, e pertanto rappresenta un?alternativa nei pazienti non-eleggibili per l?ICD nella prevenzione della morte cardiaca improvvisa.
Tuttavia, la terapia con Amiodarone ha un effetto neutro riguardo alla mortalit? generale ed ? associata ad un aumento del rischio di tossicit? polmonare e tiroidea di 2 e di 5 volte.

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Prevenzione con statine: la mortalit? non si riduce

16 Set 2010 Cardiologia

Non esistono evidenze di benefici derivanti da un trattamento con statine in termini di ridotta mortalit? per tutte le cause quando gli ipocolesterolemizzanti sono somministrati a una popolazione con rischio da intermedio a elevato, ma senza storia pregressa di malattia cardiovascolare. Non si conferma, dunque, in prevenzione primaria, la prerogativa degli inibitori dell’HmgCoA reduttasi di diminuire il rischio di mortalit? per tutte le cause in soggetti con storia clinica di malattia coronarica. ? questo l’esito di una metanalisi, effettuata da Kausik Ray e collaboratori del Dipartimento di Salute pubblica e Cure primarie dell’Universit? di Cambridge, i quali si sono basati esclusivamente su trial controllati, randomizzati e prospettici, svolti mediante terapia con statine in individui senza malattie vascolari al basale e con disponibilit? di informazioni relative alla mortalit? per tutte le cause. I dati sono stati ottenuti dalla combinazione di 11 studi, per un totale di 65.229 partecipanti seguiti per approssimativamente 244.000 persone-anno, periodo durante il quale si sono verificati 2.793 decessi. L’impiego delle statine nel setting della prevenzione primaria ad alto rischio non ? risultato associato a una diminuzione statisticamente significativa (Rr: 0,91) del rischio di mortalit? per tutte le cause. Non si ? rilevata alcuna evidenza statistica di eterogeneit? tra gli studi.

Arch Intern Med, 2010; 170(12):1024-31

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INFARTO:USA, PER PREVENIRLO SI DEBBONO DORMIRE 7 ORE PRECISE

Se non si vuole avere un un infarto si debbono dormire esattamente 7 ore, incluse eventuali pennichelle. Non un non un minuto di piu’, non un minuto di meno. E’ quanto emerge da uno studio condotto dai ricercatori della facolta’ di medicina dell’universita’ della West Virginia pubblicato sulla rivista ‘Sleep’. Se si dorme meno di 5 ore al gionro i rischi di problemi cardiovascolari, dall’angina al danno ischemico, all’ictus raddoppiano; se di dorme piu’ delle 7 ore di rigore, i rischi aumentano di una volta e mezza . (AGI)

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Rivascolarizzazione funziona in ischemia ventricolare

25 Ago 2010 Cardiologia

La rivascolarizzazione miocardica migliora la sopravvivenza a lungo termine di pazienti con disfunzione ischemica ventricolare sinistra e con un ampio spettro di vitalit?. ? probabilmente la prima volta che questo dato viene dimostrato con uno studio randomizzato e non soltanto in relazione al breve termine. La ricerca, condotta da Stephen G. Sawada e collaboratori dell’Indiana University Medical Center di Indianapolis, ha previsto un’analisi di propensione come sostituto della randomizzazione per comparare la sopravvivenza dei pazienti rivascolarizzati e trattati medicalmente con disfunzione ischemica. Un’ecocardiografia con dobutamina ? stata eseguita in 274 soggetti con disfunzione ischemica ventricolare sinistra (frazione d’eiezione media: 32%) con il 32% dei pazienti aventi vitalit? in > o = 25% del miocardio. Le caratteristiche cliniche, angiografiche ed ecocardiografiche erano simili tra i due gruppi di trattamento, eccetto che per la malattia multivascolare, l’iperlipidemia e la percentuale di miocardio non vitale. Un punteggio di propensione, relativo alla probabilit? di essere sottoposto a rivascolarizzazione, ? stato tratto da ogni paziente dalle variabili basali. Dopo stratificazione in base a tale punteggio, non si sono riscontrate differenze tra i gruppi. I pazienti sono stati quindi seguiti per morte cardiaca, come outcome. La rivascolarizzazione ? stata effettuata in 130 pazienti, mentre 144 soggetti sono stati trattati farmacologicamente. Si sono avute 114 morti cardiache (42%) durante 4,5 anni di follow-up. Dopo aggiustamento per il punteggio di propensione, la sopravvivenza ? risultata migliore nel gruppo rivascolarizzazione (sopravvivenza media: 5,9 vs 3,3 anni, Hr: 0,42, p<0,0001). La terapia medica e strumentale ? stata simile durante il follow-up tra i due gruppi, tranne che per l'uso di beta-bloccanti, pi? comune nei pazienti rivascolarizzati. Dopo aggiustamento per l'impiego di beta-bloccanti e il punteggio di propensione, la sopravvivenza si ? mantenuta migliore nei pazienti rivascolarizzati (Hr: 0,47, p=0,0006). Am J Cardiol, 2010; 106(2):187-92

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Scompenso, meglio betabloccante non selettivo

22 Ago 2010 Cardiologia

Nei pazienti con scompenso cardiaco (Hf) si pu? ottenere una riduzione dell’iperventilazione, con un miglioramento dell’efficienza ventilatoria (Ve) durante l’esercizio, grazie a un bloccante beta1-beta2 non selettivo come carvedilolo e non con un beta-1 bloccante selettivo quale bisoprololo. ? quanto ha verificato Piergiuseppe Agostoni, del Centro cardiologico Monzino di Milano e della Division of respiratory and critical care della University of Washington a Seattle, insieme a collaboratori della stessa struttura milanese, del dipartimento di Scienze cardiovascolari e respiratorie dell’universit? La Sapienza di Roma e dell’Unit? di riabilitazione cardiaca della Fondazione Maugeri di Milano. L’obiettivo dei ricercatori era quello di valutare l’impatto di due beta-bloccanti, che solitamente migliorano la prognosi dell’Hf, sulla Ve; quest’ultima, infatti, ? frequentemente ridotta con l’iperventilazione durante l’esercizio nei pazienti Hf, venendosi a determinare un aumento della pendenza della retta di relazione Ve/anidride carbonica (Ve/VCO2), elemento predittivo indipendente per la prognosi. Sono stati analizzati 572 test consecutivi di sforzo massimale cardiopolmonare eseguiti da pazienti con Hf clinicamente stabile (classe NYHA I-III e frazione d’eiezione ventricolare

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ACE-inibizione per coronaropatici

Il beneficio prognostico derivante dalla somministrazione di un Ace-inibitore in seguito a sindrome coronarica acuta (Acs) si ha soltanto nei pazienti con una pi? marcata elevazione plasmatica del frammento aminoterminale del propeptide natriuretico di tipo B (Nt-proBnp), che pu? dunque diventare un utile marker per la scelta della terapia medica pi? adatta nei soggetti coronaropatici. L’indicazione giunge dall’universit? di Leicester (Regno unito), dove Iain Squire e collaboratori del dipartimento di Scienze cardiovascolari hanno svolto uno studio osservazionale di coorte su 1.725 pazienti, di et? media pari a 67 anni, ricoverati per Acs. Utilizzando l’analisi dei rischi proporzionali di Cox, si ? calcolato il valore predittivo riguardo eventi avversi cardiaci maggiori (Mace, ossia morte, infarto miocardico recidivante od ospedalizzazione per scompenso cardiaco) della prescrizione di un Ace-inbitore, dell’Nt-proBnp e dell’interazione tra questi due fattori; inoltre, al fine di correggere le differenze demografiche tra pazienti ai quali erano somministrati o meno gli Ace-inibitori, si ? inserito un fattore correttivo (punteggio di propensione) riferito alla probabilit? di tale prescrizione. Al momento dell’ammissione, l’Ace-inibizione ? stata prescritta a 1.267 soggetti su 1.725 (73,4%). Nel corso del follow-up (mediana: 528 giorni) 534 pazienti hanno avuto un Mace. Dopo aggiustamento covariabile, l’Nt-proBnp ha mostrato un’associazione lineare con il rischio di Mace, pi? evidente nei pazienti con Nt-proBnp nel quartile superiore dei valori osservati (Hr=2,768). Soltanto nei pazienti con Nt-proBnp nel quartile maggiore la prescrizione di un Ace-inibitore ? apparsa associata? a una riduzione del rischio di Mace (Hr=0,532). Questa associazione si ? mantenuta dopo correzione per i punteggi di propensione.?

Heart, 2010; 96(11):831-7?

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Cuore non a rischio se Bnp elevato dopo calo di peso

16 Lug 2010 Cardiologia

Non sempre un aumento dei livelli ematici del peptide natriuretico di tipo B (Bnp) indica un peggioramento di una malattia cardiaca o ha un valore prognostico negativo. Al contrario, se si registra un incremento di Bnp in soggetti che hanno perso peso in seguito a modificazioni dello stile di vita, si possono osservare vantaggi clinici. ? questo, in sintesi, il messaggio di uno studio condotto da Nita Chainani-Wu, dell’universit? della California a San Francisco, e collaboratori. Sono stati selezionati 131 soggetti, 56 con malattia coronarica (Chd) e 75 ad alto rischio, con tre o pi? fattori di rischio per Chd e/o diabete mellito, ed ? stato effettuato un intervento sugli stili di vita consistente in riduzione dell’apporto di grassi, alimentazione con cibi integrali, esercizio fisico, gestione dello stress e supporto sociale. Al basale e dopo tre mesi si ? effettuata la misurazione del Bnp, del’indice di massa corporea (Bmi) e di altri biomarker. Al terzo mese il valore medio del Bmi era diminuito (da 34,4 a 31,7 kg/m2), quello del Bnp era aumentato (in media da 18 a 28 pg/ml), mentre risultavano ridotti i livelli di lipoproteina a bassa densit?, proteina C-reattiva e apolipoproteina B, la frequenza e la gravit? dell’angina. Inoltre, mentre le limitazioni fisiche delle persone erano divenute minori, il loro funzionamento fisico era migliorato. La modificazione percentuale del Bnp ? apparsa associata in modo inverso con quella dell’insulina e con quella del Bmi e quest’ultima correlazione ? rimasta significativa nelle analisi di regressione multipla controllate per et?, genere, Chd, diabete, percentuale di modificazione nell’indice dello stile di vita e uso di beta-bloccanti. La proposta di utilizzare il Bnp per monitorare la progressione della malattia cardiaca, concludono gli autori, dovrebbe tenere conto dei cambi del Bmi.

Am J Cardiol, 2010; 105(11):1570-6

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Ipertesi Usa: dopo vent’anni controllato il 50,1%

13 Lug 2010 Cardiologia

La prevalenza dell’ipertensione negli Stati Uniti ? diminuita dal 1988 a oggi, a testimonianza di una migliore consapevolezza nei pazienti, della disponibilit? di trattamenti pi? efficaci e di un controllo dei valori pressori sempre pi? completo sulla popolazione, fino a coinvolgere, nel 2007-2008, il 50,1% di tutti i pazienti, obiettivo prefissato da tempo. ? la “morale” che scaturisce dall’analisi svolta da Brent M. Egan e collaboratori della Medical university of South Carolina (Charleston), sui dati di due indagini Nhanes (the National health and nutrition examination survey) relative ai periodi 1988-1994 e 1999-2008, suddivise in cinque blocchi biennali, e riferite a oltre 42mila adulti di et? >18 anni. L’ipertensione ? stata definita come la presenza di una pressione sistolica e diastolica di almeno 140 e 90 mmHg, rispettivamente; valori inferiori identificavano una condizione di controllo pressorio. I tassi dell’ipertensione sono aumentati da 23,9% nel periodo 1998-1994 a 28,5% nel biennio 1999-2000, ma non si sono modificati tra il 1999-2000 e il 2007-2008 (29%). Il controllo dell’ipertensione ? aumentato dal 27,3% nel 1988-1994 a 50,1% nel 2007-2008, mentre la pressione arteriosa tra i pazienti ipertesi ? diminuita da 143,0/80,4 a 135,2/74,1 mmHg. Il controllo pressorio ? aumentato in modo significativamente maggiore in percentuali assolute tra il 1999-2000 e il 2007-2008 in confronto al periodo compreso tra il 1988-1994 e il 1999-2000 (18,6% vs 4,1%). Nel complesso, un miglior controllo ? stato il riflesso di una maggiore consapevolezza (69,1% vs 80,7%), di un migliore trattamento (54,0% vs. 72,5%) e una superiore proporzione di pazienti in terapia con ipertensione controllata (50,6% vs 69,1%). Il ?controllo dell’ipertensione ? dunque molto migliorato, specie dopo il 1999-2000, indipendentemente da et?, etnia e sesso, ma ? stato minore nei soggetti di et? compresa tra 18 e 39 anni e dai 60 anni in su.

JAMA, 2010; 303(20):2043-50

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