Elevati livelli di trigliceridi (Tg) possono essere un’importante causa di morte cardiaca. Lo si deduce dai risultati di una ricerca genetica condotta all’Universit? di Cambridge (Uk) da un consorzio internazionale. Per accertare il nesso causale tra Tg e malattia coronarica, finora incerto, si ? utilizzata la “randomizzazione mendeliana”, ossia lo studio di persone con differenti versioni di un gene noto per influenzare i livelli ematici dei Tg. In particolare, si ? valutato il polimorfismo -1131T>C (rs662799) del promotore del gene dell’apolipoproteina A5 (ApoA5) in relazione alla concentrazione dei Tg e a vari altri fattori di rischio tra cui quello di malattia coronarica. Si ? poi confrontato il rischio di malattia nei casi di concentrazione di Tg geneticamente aumentata (20.842 pazienti con coronaropatia, 35.206 controlli) con quello riportato, a fronte di differenze equivalenti nella concentrazione di Tg circolanti, in studi prospettici (302.430 partecipanti senza malattia cardiovascolare pregressa; 12.785 casi incidentali di coronaropatia durante 2,79 milioni di persone/anno a rischio). -1131T>C non ? apparso significativamente associato ai vari fattori di rischio non lipidici o alla colesterolemia-Ldl, mentre ? risultato modestamente correlato a una minore colesterolemia-Hdl e a livelli maggiormente ridotti o pi? elevati, rispettivamente, di apolipoproteina AI e apolipoproteina B. Al contrario, in presenza dell’allele C si ? rilevata una concentrazione media dei TG del 16,0% o di 0,25 mmol/L, ossia pi? elevata, con una odds ratio per malattia coronarica di 1,18, dato concordante con l’hazard ratio di 1,10 per una concentrazione pi? elevata del 16% di TG rilevata negli studi prospettici. -1131T>C, infine, ? risultato significativamente correlato a concentrazioni pi? elevate di particelle VLdl e a particelle Hdl di dimensioni pi? piccole, fattori che potrebbero mediare gli effetti dei Tg.
I pazienti con scompenso cardiaco che vengono visitati da un medico entro una settimana dalla dimissione ospedaliera hanno una minore probabilit? di essere nuovamente ricoverati entro trenta giorni. Lo rivela uno studio svolto da Adrian F. Hernandez, della Duke university school of medicine di Durham, North Carolina, e collaboratori. Un dato che va nella direzione della tesi, gi? avanzata da vari clinici, che un follow-up precoce dopo la dimissione permette di diminuire la frequenza dei nuovi ricoveri. Sono stati analizzati i dati relativi a 30.136 pazienti (et?>/=65anni), ricoverati per insufficienza cardiaca tra il 2003 e il 2006 e inviati al domicilio dopo un periodo mediano di 4 giorni. 6.483 soggetti (21,3%) sono stati riammessi in ospedale entro i primi 30 giorni dall’uscita dal reparto. Si ? cos? verificato che il follow-up precoce (entro una settimana) non rappresentava la norma: a livello ospedaliero, soltanto il 38,3% dei pazienti aveva incontrato un medico per la valutazione post-ricovero. Gli ospedali che ricorrevano in modo pi? rilevante al follow-up precoce, per?, presentavano tassi inferiori di nuovi ricoveri; in particolare, il tasso di riammissione entro 30 giorni ? risultato pi? alto (23,3%) tra i pazienti ricoverati in ospedali compresi nel quartile inferiore di ricorso al follow-up precoce, contro il 20-21% di quelli nel quartile superiore. Infine, rispetto ai tassi rilevati nel quartile inferiore degli ospedali con follow-up precoci, le hazard ratio aggiustate per nuovo ricovero entro 30 giorni o per mortalit? sono state, nei pazienti dimessi da ospedali nel secondo, terzo e quarto quartile, rispettivamente 0,85, 0,87 e 0,91.
principali fattori di rischio per recidive di fibrillazione atriale (Fa) sono un’anamnesi positiva per due o pi? episodi di Fa nei sei mesi precedenti – indipendentemente dalla modalit? di recupero del ritmo sinusale (Rs), spontanea o tramite cardioversione (Cve) – e una bassa frequenza cardiaca durante il Rs. Questo l’esito di uno studio condotto da Marcello Disertori, del dipartimento di Cardiologia dell’ospedale Santa Chiara di Trento, e collaboratori, nell’ambito del trial Gissi-Af (Gruppo italiano per lo studio della sopravvivenza nell’infarto miocardico-Atrial fibrillation). Obiettivo della ricerca: raccogliere informazioni utili per la definizione della migliore strategia ai fini della prevenzione secondaria. Sono stati coinvolti 1.442 pazienti in Rs con almeno due episodi documentati di Fa nei sei mesi addietro o dopo Cve nelle ultime due settimane. I soggetti sono stati randomizzati a ricevere valsartan o placebo; tutti gli altri trattamenti per Fa o malattie cardiache sottostanti erano permessi. Gli end point primari erano rappresentati dal tempo intercorso fino alla prima recidiva di Fa e la proporzione di pazienti con pi? di un episodio di Fa durante un follow-up di un anno. Sono state valutate le caratteristiche cliniche ed elettrocardiografiche alla baseline di tutti i pazienti per identificare, mediante un modello Cox multivariato, gli elementi predittivi indipendenti di recidiva di Fa. I fattori di rischio individuati sono risultati gli stessi anche nel caso di pi? di una recidiva. I pazienti trattati con amiodarone, infine, avevano un rischio inferiore per entrambi gli end point, quelli che assumevano diuretici, invece, maggiore.
Per prevenire fenomeni tardivi di trombosi endoluminale, i pazienti diabetici che hanno ricevuto l’impianto di uno stent a eluizione di farmaco possono trarre beneficio dalla somministrazione di una doppia terapia antiaggregante (Dat) prolungata, anche al di l? di quanto raccomandato dalle linee guida. Ne ? convinta un’?quipe di clinici operanti in tre strutture milanesi (le unit? di cardiologia interventistica dell’Istituto scientifico San Raffaele e dell’Emo-Gvm centro-cuore Columbus e l’unit? di terapia coronarica dell’ospedale Niguarda) dopo aver valutato, in una coorte di diabetici “de novo” ad alto rischio, l’effetto prognostico della sospensione di una tienopiridina rispetto alla comparsa successiva di trombosi dello stent (Ts) o di morte da qualsiasi causa. Dal maggio del 2002 al dicembre del 2005 sono stati studiati 542 pazienti consecutivi affetti da diabete mellito (fattore avverso indipendente sull’outcome) e sottoposti all’intervento, ma nell’analisi finale sono stati inclusi soltanto i 217 che non avevano subito in precedenza una rivascolarizzazione percutanea o chirurgica. Il tempo del follow-up ? stato ridotto a 3,5 anni. Per tutti i soggetti studiati sono state raccolte dettagliate informazioni riguardo alla Dat. Su 217 pazienti, 15 sono deceduti (6,9%) e in 9 casi la causa della morte ? stata cardiaca (4,1%). L’incidenza cumulativa della Ts ? risultata pari al 4,6% (10 soggetti); 3 Ts sono state precoci (1,38%), 5 tardive (2,3%) e soltanto 2 molto tardive (0,9%). Sui 10 casi di Ts, 5 sono state accertate mentre 5 sono state considerate probabili. La maggior parte delle Ts (80%) ? avvenuta entro i primi 6 mesi nel corso della Dat, la cui durata media ? stata di 420 giorni. La sospensione della Dat ? stata l’unico fattore predittivo indipendente degli eventi al follow-up (Hr 20,42).
L’apelina, ligando endogeno del recettore Apj accoppiato alla proteina G, rappresenta un nuovo potenziale agente terapeutico per i pazienti in scompenso cardiaco. La sua sommistrazione in fase acuta, infatti, ? in grado di determinare vasodilatazione periferica e coronarica, oltre ad aumentare l’output cardiaco. Questo il frutto di una serie di studi randomizzati, in doppio cieco, controllati con placebo condotti al Royal Infirmary di Edinburgo (Uk) su 18 pazienti scompensati in classe Nyha II o III, 6 pazienti candidati a una coronarografia diagnostica e 26 volontari sani; obiettivo: chiarire, al di l? dei modelli preclinici, gli effetti dell’iniezione dell’apelina a livello emodinamico periferico, cardiaco e sistemico. Le variazioni del flusso ematico dell’avambraccio, di quello coronarico, della pressione ventricolare sinistra e della gittata cardiaca sono state misurate rispettivamente mediante pletismografia veno-occlusiva, filo guida Doppler e coronarografia quantitativa pressoria, filo a pressione e bioimpedenza toracica. L’infusione sia di apelina, sia di acetilcolina, sia di nitroprussiato di sodio ha determinato vasodilatazione dell’avambraccio nei pazienti e nei controlli, per? soltanto la vasodilatazione all’acetilcolina, e non quella all’apelina o al nitroprussiato di sodio, si ? attenuata nei pazienti scompensati. La somministrazione di un bolo intracoronarico di apelina ha incrementato il flusso coronarico e il picco massimo di pressione ventricolare sinistra, riducendone il valore in fase telediastolica. Infusioni sistemiche di apelina (da 30 a 300 nmol/min) hanno infine innalzato l’indice cardiaco e ridotto la pressione arteriosa media e la resistenza vascolare periferica nei pazienti e nei controlli ma hanno aumentato la frequenza cardiaca solo nei soggetti sani.
23 Febbraio 2010 – Nel maggio 2007, una meta-analisi pubblicata sul The New England Journal of Medicine gener? preoccupazione sull?impiego di Avandia ( Rosiglitazone ), un farmaco per il diabete mellito di tipo 2. La meta-analisi, compiuta da Steven Nissen della Cleveland Clinic dimostr? un aumentato rischio di infarto miocardico tra i pazienti trattati con Avandia.
Nel luglio 2007, un Panel di Esperti dell?FDA, l?Agenzia statunitense per il controllo dei farmaci, conven? nel ritenere che Avandia aumentasse il rischio di eventi ischemici, ma raccomand? di non ritirare il farmaco dal mercato. L?FDA segu? il consiglio del Panel, non fece ritirare il farmaco, ma inser? un boxed warning nella scheda tecnica di Avandia in cui si sottolineava il possibile rischio di scompenso cardiaco associato al farmaco, un evento questo noto; inoltre fece riportare la descrizione della meta-analisi di Nissen, ma senza esprimere un giudizio.
Il caso Avandia ? stato riaperto a met? febbraio 2010 da una rapporto del Finance Committee del Senato degli Stati Uniti, dopo 2 anni di indagini. Il rapporto si conclude accusando la societ? produttrice di Avandia, GlaxoSmithKline ( GSK ), di essere stata a conoscenza gi? diversi anni prima della pubblicazione dell?analisi di Nissen, dei rischi cardiaci di Avandia.
Nel rapporto si legge che GSK aveva il dovere di informare i pazienti e l?FDA dei rischi associati ad Avandia; i manager della societ? farmaceutica invece tentarono di intimidire i medici indipendenti, elaborarono strategie atte a minimizzare i dati riguardo al rischio cardiaco di Avandia, a falsificare i dati sostenendo la sicurezza cardiaca del proprio farmaco, ed infine di minimizzare i risultati di riduzione del rischio cardiovascolare di un farmaco concorrente.
Nel report del Senato Usa si accusa anche l?FDA di non aver preso decisioni a salvaguardia della salute dei pazienti e di aver concesso l?autorizzazione all?effettuazione di uno studio con Rosiglitazone ( studio TIDE ), ben sapendo i pericoli che avrebbero affrontato i pazienti.
Il Senate Committee on Finance degli Stati Uniti inizi? le indagini dopo che uno studio, pubblicato sul The New England Journal of Medicine ( NEJM ) nel maggio 2007 a firma di Steven Nissen della Cleveland Clinic, aveva mostrato un?associazione tra l?infarto miocardico e il farmaco per il diabete Avandia ( Rosiglitazone ) di GlaxoSmithKline ( GSK ).
Dall?analisi di pi? di 250.000 pagine di documenti ? emerso che la societ? farmaceutica GlaxoSmithKline era a conoscenza gi? da alcuni anni, prima che lo studio fosse pubblicato, del rischio cardiaco associato al proprio antidiabetico. Tuttavia anzich? informare i pazienti e l?Agenzia regolatoria FDA ( Food and Drug Administration ), i manager di GSK seguirono un?altra strategia con l’intenzione di intimidire medici medici indipendenti, di minimizzare o di alterare i risultati che dimostravano come Avandia potesse aumentare il rischio cardiovascolare; inoltre cercarono di confutare i risultati di un farmaco concorrente, Actos ( Pioglitazone ).
Dopo la pubblicazione del lavoro di Nissen, l?FDA, nel luglio 2007, organizz? un incontro con un gruppo di Esperti per discutere sulla sicurezza di Avandia, In questa occasione fu presentata un?analisi che stimava che l?uso di Avandia era associato a un eccesso di 83.000 casi di infarto miocardico a partire dal 1999, anno in cui il farmaco ha ricevuto l’approvazione. Nel suo rapporto il Finance Committee del Senato statunitense riporta che, gi? nel marzo 2007, in una discussione interna, i Consulenti scientifici di GSK avevano concluso che gli studi riguardanti Avandia ( ADOPT, DREAM, CV Clinical Trials ) mostravano un segnale di rischio per lo scompenso cardiaco e per gli eventi ischemici.
Il 2 di maggio 2007, Nissen della Cleveland Clinic invi? la sua meta-analisi per la pubblicazione al NEJM. Il giornale invi? copie riservate ai propri Esperti per la revisione del materiale ( peer review ). Di norma queste copie devono rimanere confidenziali e non possono essere divulgate, ma uno di questi revisori, Steve Haffner, invi? il testo del lavoro di Nissen a un dirigente di GlaxoSmithKline. GSK esamin? la meta-analisi, ma lo statistico incaricato della verifica concluse che i risultati da lui ottenuti erano simili alle conclusioni di Nissen.
Moncef Slaoui, responsabile del settore ricerca di GSK, comunic? ad altri dirigenti di GSK che le meta-analisi condotte sia dall?FDA sia da Nissen nonch? dalla stessa GSK erano giunte alla medesima conclusione riguardo all?aumentato rischio di eventi ischemici, che oscillava tra il 30 e il 43%. Inoltre le analisi di mortalit? effettuate da FDA e da Nissen coincidevano: il rischio ( hazard ratio ) di mortalit? sia per scompenso cardiaco che per eventi ischemici, era, rispettivamente, aumentato del 72% e del 75%. Questi risultati penalizzavano il prodotto di GSK rispetto ad un altro glitazone, il concorrente diretto del Rosiglitazone, il Pioglitazone che invece nello studio PROactive mostrava benefici cardiovascolari del 6-16% nei pazienti ad alto rischio.
Il 21 maggio 2007, il NEJM pubblic? online la meta-analisi di Steven Nissen, che aveva individuato un legame tra Avandia e l?insorgenza di infarto miocardico. Nello stesso giorno GlaxoSmithKline emise un comunicato dichiarandosi fortemente in disaccordo con le conclusioni raggiunte da Nissen. Lo studio del cardiologo della Cleveland Clinic era ritenuto basato su un?incompleta evidenza e su una metodologia che anche lo stesso Autore definitiva con limitazioni.
Il timore di pesanti conseguenze prescrittive, indusse i manager di GSK ad imporre la pubblicazione immediata dei risultati preliminari dello studio sponsorizzato dalla stessa GlaxoSmithKline, denominato RECORD, nonostante la riluttanza del RECORD Steering Committee. Il 5 luglio 2007, nonostante le critiche dei revisori, NEJM pubblic? lo studio RECORD. Nelle conclusioni, gli Autori dello studio sponsorizzato affermavano che i dati erano insufficienti per provare un legame tra Avandia e infarto del miocardio.
L?obiettivo dei manager di GSK era quello di integrare i dati dello studio RECORD con quelli della meta-analisi di Nissen, in modo da ridurre l?incidenza di eventi ischemici totali dovuti ad Avandia.
Un editoriale, pubblicato sempre su NEJM, non solo critic? lo studio RECORD, ma anche gli studi precedenti, DREAM e ADOPT, sponsorizzati sempre da GlaxoSmithKline. Secondo gli editorialisti, gli studi DREAM e ADOPT erano incentrati su obiettivi di marketing e non avevano invece valutato i rischi o i benefici correlati all?infarto miocardico. Inoltre, lo studio RECORD presentava diverse debolezze nel disegno e nella conduzione, tra cui la mancanza del cieco quando il trattamento era assegnato; inoltre, cosa assai grave, lo studio non aveva peso statistico per individuare l?infarto miocardico come endpoint.
Secondo il rapporto del Finance Committee, GlaxoSmithKlines sarebbe stata a conoscenza del rischio cardiaco del Rosiglitazone gi? a partire dalla fine del 2004 o all?inizio del 2005. Alla fine del 2005, GSK pubblic?, in bozza, un?analisi retrospettiva di eventi cardiovascolari sui dati degli studi clinici riguardanti Avandia. Fu allora ipotizzato che la ritenzione idrica potesse contribuire al peggioramento dell?ischemia miocardica nei pazienti ad alto rischio.
Nel 2005, GSK commission? uno studio osservazionale che fu condotto in due fasi: la prima parte nel 2005 e la seconda nel 2006. Il primo studio interess? 11.586 soggetti; l?hazard ratio per ischemia miocardica fu pari a 1.29, indicando che il Rosiglitazone aumentava il rischio di ischemia cardiaca del 29%, un valore questo statisticamente significativo. Il secondo studio analizz? 14.237 pazienti; l?hazard ratio fu di 1.31, cio? Avandia aumentava il rischio di ischemia miocardica del 31%.
Conclusioni
Il rapporto del Finance Committee del Senato degli Stati Uniti ha indicato che la societ? produttrice del farmaco antidiabetico Avandia, GlaxoSmithKline, era a conoscenza del rischio cardiaco associato al Rosiglitazone anni prima che tale evidenza diventasse di dominio pubblico. GSK aveva il dovere di informare i pazienti e l?Agenzia regolatoria FDA, invece i manager di GSK agirono in modo diverso, intimidendo i medici indipendenti, e cercando di minimizzare il fatto che Avandia fosse associato a rischio cardiaco.
Nell’ultimo numero degli Annals of Internal Medicine ? apparsa, finanziata dal National Institute of Diabetes and Digestive and Kidney Disease, dal National Institutes of Health Office of Dietary Supplements, dalla US Food and Drug Administration, dall’Agency for Healthcare Research and Quality e dalla Public Health Agency of Canada una review che ha voluto verificare se i dati disponibili in letteratura fossero indicativi per un ruolo della Vitamina D nel modificare il rischio correlato alle malattie cardiovascolari ed al diabete. Fonte dei dati erano gli studi di lingua inglese in MEDLINE (inizio al 4 novembre 2009) e la Cochrane Central Register of Controlled Trials (quarto trimestre del 2009). Da questi studi, 5 revisori indipendenti hanno estratto 13 studi osservazionali (14 di coorte) e 18 trial clinici.
I risultati sono stati i seguenti: ? in 3 dei 6 studi che affrontavano il problema viene riportato un pi? basso rischio di incidenza di nei gruppi di soggetti con pi? elevato tenore di Vitamina D ? 8 studi non hanno riscontrato alcun effetto positivo sull’incidenza di diabete dalla supplementazione con Vitamina D ? nella meta-analisi di 3 studi di coorte, un basso tenore di 25-idrossivitamina D ? stato associato ad una maggior incidenza di ipertensione arteriosa (RR 1,8 [95% CI, 1,3-2,4]) ? nella meta-analisi di altri 10 studi, la supplementazione vitaminica non ha tuttavia significativamente ridotto la pressione arteriosa sistolica (differenza media ponderata -1,9 mm Hg [CI, -4,2 a 0,4 mm Hg]) e non ha agito sulla pressione arteriosa diastolica (differenza media ponderata -0,1 mm Hg [CI, -0,7 a 0,5 mm Hg]) ? basse concentrazioni di 25-idrossivitamina D sono state associate ad un aumento di malattia cardiovascolare incidente in 5 dei 7 studi osservazionali (6 coorti) ? in 4 di questi studi non si ? dimostrato alcun effetto protettivo della supplementazione vitaminica sugli eventi cardiovascolari. Pur con molte limitazioni derivate dalla eterogeneit? degli studi e dal fatto che molte analisi statistiche erano riportate post hoc, gli AA della review concludono pertanto che l’associazione tra il tenore di vitamina D e gli esiti cardiometabolici ? incerto. Sottolineano per? che nessuno studio ha dimostrato effetti clinicamente significativi da parte di una supplementazione di vitamina D ai dosaggi abituali.
La disfunzione erettile risulta direttamente associata all’incremento dell’incidenza di malattie cardiovascolari, bench? non sia in grado di migliorare le previsioni riguardanti il loro sviluppo. A renderlo noto ? uno studio apparso su Journal of the American College of Cardiology e condotto presso il New England Research Institutes, Watertown in Massachusetts alla luce del fatto che le due condizioni patologiche condividono gli stessi meccanismi fisiopatologici e sono spesso compresenti. L’indagine prospettica ha preso in considerazione oltre 1.000 uomini d’et? compresa tra 40 e 70 anni, con disfunzione erettile ma senza problemi cardiovascolari o diabete al momento del reclutamento, che sono stati sottoposti a valutazioni della funzionalit? cardiovascolare per quasi 12 anni. In breve, la presenza di disfunzioni erettili ? apparsa correlata all’incidenza di problemi cardiovascolari, dopo le opportune correzioni per et? (harard ratio = 1,42); et? e fattori di rischio tradizionali (hr= 1,41) e “Framingham risk score” (hr= 1,41). ?Nonostante la significativit? dei nostri risultati, va sottolineato che la disfunzione erettile non ? in grado di migliorare le previsioni riguardanti lo sviluppo di malattie cardiovascolari, in aggiunta all’utilizzo di fattori di rischio convenzionali? ha commentato Andre B. Araujo, principale autore dello studio. (L.A.)
J Am Coll Cardiol, 2010; 55:350-356, doi:10.1016/j.jacc.2009.08.058
La revisione chirurgica di stenosi venosa, in pazienti sottoposti a emodialisi, pu? essere migliorata con l’impiego di stent autoespandibili di politetrafluoroetilene, in aggiunta all’angioplastica convenzionale. ? quanto pubblicato sul New England Journal of Medicine in uno studio che ha permesso di verificare che, rispetto alla sola angioplastica a palloncino, l’utilizzo aggiuntivo di questi stent determina un migliore funzionamento dell’area trattata e dell’intero sistema d’accesso vascolare oltre che un maggiore tempo senza necessit? di ulteriore intervento. L’indagine multicentrica ha riguardato 190 pazienti in emodialisi, con stenosi venosa, che sono stati randomizzati ad angioplastica standard (gruppo 1) oppure ad angioplastica e utilizzo di stent autoespandibili (gruppo 2). Dopo sei mesi, la percentuale di “patency” sia dell’area trattata sia del circuito vascolare sono apparse pi? elevate nel secondo gruppo rispetto al primo (51% vs 23% e 38% vs 20%, rispettivamente). Anche il tempo senza ricorso a nuovo intervento chirurgico ? stato pi? elevato nel gruppo 2 rispetto al gruppo 1 (32% vs 16%). Infine, l’incidenza a sei mesi di restenosi binaria ? risultata maggiore con la sola angioplastica rispetto dalla combinazione dei due approcci (78% vs 28%) mentre quella di altri eventi avversi ? apparsa paragonabile tra i due gruppi. (L.A.)