La deprivazione androgenica per il trattamento del cancro alla prostata non aumenta il rischio di morte indotta da problemi cardiovascolari

Pubblicata su JAMA una metanalisi per valutare l’utilizzo terapeutico della terapia da deprivazione androgenica (TDA) per il trattamento del cancro alla prostata, i risultati dicono che non aumenta il rischio di morte indotta da problemi cardiovascolari.
L’ipotesi che questa terapia per il cancro prostatico aumentasse la mortalità dovuta a patologie cardiache aveva richiesto un avviso di sicurezza da parte della FDA. Tuttavia le conclusioni dello studio  condotto da Paul L. Nguyen pongono una nuova base per future osservazioni.

L’obiettivo della sperimentazione è stato la valutazione dell’eventuale collegamento tra la TDA e la mortalità per cause cardiovascolari nonché la mortalità per la malattia oncologica in atto. Sono stati selezionati 8 trials randomizzati che hanno arruolato  4141 pazienti con cancro prostatico non metastatico e prognosi sfavorevole.
Tra i 2200 pazienti trattati con TDA, 255 sono stati i decessi per problemi cardiovascolari, corrispondenti a un’incidenza dell’11%; nel  gruppo di controllo, composto da 1941 pazienti, i casi di decessi  causati da eventi cardiovascolari sono stati 252 con un’ incidenza del 11,2%. Tra i pazienti trattati per un breve periodo i decessi per problemi cardiovascolari sono stati del 10,5% per pazienti tratti con TDA contro il 10,3 % dei controlli. Per i trattamenti di lungo periodo si ha la stessa incidenza di morti cardiovascolari (11,5 %) sia nei trattati che nei controlli.
I casi di decessi specificamente legati al cancro prostatico, sono legati alla patologia con percentuale maggiore nei pazienti del gruppo di controllo rispetto ai trattati con TDA, rispettivamente con un’ incidenza del 22,1% contro il 13,5% del gruppo in trattamento attivo con TDA , con una riduzione del rischio di morte del 31%. Lo stesso discorso vale per tutti gli altri casi di decesso non assimilabili a problemi cardiovascolari o legati alla malattia.

Bibliografia: Paul L. Nguyen. Association of Androgen Deprivation Therapy With Cardiovascular Death in Patients With Prostate Cancer: A Meta-analysis of Randomized Trials JAMA. 2011;306(21):2359-2366.doi:10.1001/jama.2011.1745

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Diabete di tipo 1: maschi a rischio osteoporosi

Il tasso di demineralizzazione del collo femorale negli uomini con diabete di tipo 1 è simile a quello delle donne in postmenopausa con diabete di tipo 2. Inoltre, i cambiamenti nei marker biochimici suggeriscono che, negli uomini con diabete di tipo 1, coesistono una scarsa capacità di formazione ossea con un processo di riassorbimento accelerato, oltre che una bassa biodisponibilità di ormoni sessuali. È quanto rivelato da uno studio condotto da Emma J. Hamilton dell’university of western Australia di Fremantle (Australia), e colleghi, che hanno esaminato per 5 anni gli effetti del diabete sulla struttura e sul metabolismo ossei in 26 individui con diabete di tipo 1 (età media 49 anni) e 27 con diabete di tipo 2 (età media 65 anni). Perfettamente sovrapponibile la riduzione di densità minerale ossea del collo femorale nei 17 maschi con diabete di tipo 1 e nelle 11 donne con diabete di tipo 2: nei primi è passata 0,804 a 0,769 g/cm2; nelle seconde da 0,779 a 0,742 g/cm2. Nessuna riduzione è stata registrata invece nelle donne con diabete di tipo 1 e negli uomini con diabete di tipo 2. I dati dello studio, secondo i ricercatori, potrebbero ritornare utili nella gestione clinica dei giovani adulti con diabete di tipo 1.

Acta Diabetol, 2011 Oct 5. [Epub ahead of print]

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Se aumenta il Bmi si riduce l’effetto delle insuline basali

L’adiposità attenua la farmacodinamica di tutte le insuline basali nei pazienti con diabete di tipo 2. In ogni caso, se l’adiposità aumenta, l’effetto della detemir risulta inferiore rispetto alla Nph e alla glargine. La dimostrazione è stata ottenuta da un team del dipartimento di Medicina interna (sezione di Endocrinologia e metabolismo) dell’univeristà di Perugia, coordinato da Francesca Porcellati. Il gruppo di ricercatori ha esaminato, con metodica crociata, le variabili che risultavano predire meglio la velocità di infusione del glucosio (Gir) e quello di produzione endogena di glucosio (Egp) durante studi di clampaggio di 32 ore dopo trattamento con iniezioni sottocutanee di 0,4 unità/kg di insulina Nph, detemir e glargine, effettuato su 18 pazienti con diabete di tipo 2. L’analisi di regressione multipla ha dimostrato che l’indice di massa corporea (Bmi) era il miglior fattore predittivo di variazioni del Gir durante il clampaggio. Più in dettaglio, il Bmi era correlato inversamente al Gir con tutti e tre i trattamenti insulinici, ma tale correlazione era statisticamente significativa solamente con l’insulina determir. Il Bmi, inoltre, era correlato positivamente con la soppressione residua di Egp con detemir, ma non con i trattamenti a base di glargine e Nph.

Diabetes Care, 2011 Oct 4. [Epub ahead of print]

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Funzionalità epatica marker di prediabete e diabete 2

Nei giovani adulti sarebbe clinicamente utile considerare anche l’alanino aminotransferasi (Alt) e la gamma-glutamil transferasi (Ggt) come biomarker negli algoritmi per la valutazione del rischio di diabete. Il dato, proveniente da uno studio retrospettivo di corte realizzato da un gruppo di ricercatori della Tulane university di New Orleans guidato da Quoc Manh Nguyen, è rilevante poiché è noto che un’elevazione di Alt e Ggt, marker surrogati di disfunzione del fegato e steatosi epatica non alcolica, fanno parte della sindrome metabolica e del diabete di tipo 2 a essa correlato, tuttavia erano scarse le informazioni sulle possibilità predittive dei due enzimi circa il prediabete e il diabete di tipo 2. Il team ha preso in considerazione soggetti adulti normoglicemici (n=874), prediabetici (n=101) e diabetici (n=80) di età compresa fra i 26 e i 50 anni (età media: 41,3), seguiti per un periodo di 16 anni a partire da una giovane età adulta (compresa fra i 18 e i 38 anni; età media: 25,1), con misurazioni dei fattori variabili di rischio cardiovascolare, compresi Alt e Ggt. Il tasso di prevalenza di stato diabetico al follow-up, calcolato in base ai quartili di Alt e Ggt alla baseline, hanno evidenziato un trend negativo sia per il prediabete sia per il diabete. A un’analisi di regressione logistica multivariata longitudinale, che ha incluso variabili antropometriche, emodinamiche e metaboliche, così come il consumo di alcol e il fumo, gli individui con valori basali elevati di Alt e Ggt hanno mostrato una probabilità maggiore, rispettivamente, di 1,16 e 1,20 volte di sviluppare diabete. Non si sono notate associazioni analoghe in relazione al prediabete. Per quanto riguarda il valore predittivo di Alt e Ggt, l’analisi delle curve Roc ha portato a risultati compresi tra 0,70 e 0,82, con valori significativamente più alti per il diabete rispetto al prediabete.

Diabetes Care, 2011 Sep 27. [Epub ahead of print]

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Isoflavoni della soia inefficaci in menopausa

L’assunzione di isoflavoni della soia per 2 anni non previene la perdita di massa ossea o i sintomi della menopausa nelle donne in tale condizione da non più di 5 anni e con densità minerale ossea ridotta. È la conclusione di un lavoro statunitense, coordinato da Silvina Levis, del centro di Ricerca geriatrica della Miller school of medicine, università di Miami, in cui è stata valutata l’efficacia di questi prodotti spesso usati come alternativa all’ormonoterapia sostitutiva. La ricerca – randomizzata, in doppio cieco e placebo-controllo – è stata condotta tra il luglio 2004 e il marzo 2009, coinvolgendo 248 donne di età compresa tra 45 e 60 anni, in menopausa da meno di 5 anni e T-score uguale o maggiore a -2 nella colonna lombare e nel femore totale. Al campione arruolato sono stati somministrati isoflavoni della soia in tavolette da 200 mg (122 donne) oppure placebo (126 donne). L’obiettivo dello studio è stato quello di valutare, dopo un follow up di 2 anni, eventuali cambiamenti della densità minerale ossea nella colonna lombare, nel femore totale e nel collo femorale. Sono state anche valutate modifiche dei sintomi menopausali, caratteristiche citologiche vaginali e funzionalità tiroidea. Al termine del follow up, non sono emerse differenze significative tra le donne che assumevano isoflavoni della soia o placebo in relazione a cambiamenti della densità minerale ossea nella colonna (-2,0% e -2,3%, rispettivamente), nel femore totale (-1,2% e -1,4%) e nel collo femorale (-2,2% e -2,1%). Rispetto al gruppo di controllo, le donne nel gruppo “isoflavoni della soia” hanno registrato un aumento di vampate e costipazione. Anche per gli altri outcome non sono state evidenziate differenze di rilievo. Arch Intern Med, 2011; 171(15):1363-9

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Raddoppiata epidemia mondiale di diabete negli ultimi 30 anni

Dal 1980 l’epidemia di diabete ? in crescita, per via dell’aumento della popolazione e del suo progressivo invecchiamento, e delle crescenti prevalenze et?-specifiche. In particolare, il numero degli adulti affetti da diabete ? pi? che raddoppiato nelle ultime 3 decadi. La massima crescita si ? registrata in Oceania e in Nord America, mentre l’Europa ? la regione in cui si rileva il minore aumento di prevalenza. Aree di crescita elevata sono anche l’Asia centrale e del Sud, i Caraibi, il Nord Africa e il Medio Oriente. Queste le stime pi? rilevanti effettuate dalla sezione “Blood glucose” del Global burden of metabolic risk factors of chronic diseases collaborating group, guidato da Majid Ezzati, dell’Imperial college di Londra. L’analisi ? stata effettuata su 2,7 milioni di persone, in 199 nazioni, in un periodo compreso tra il 1980 e il 2008. Lo studio ha rivelato un aumento all’incirca del 7% della prevalenza mondiale di diabete per ciascuna delle ultime 3 decadi, con livelli di glicemia a digiuno (Fpg) saliti in media di 0,08 mmol/L ogni 10 anni. Globalmente il numero di persone diabetiche ? aumentato da 153 milioni nel 1980 a 347 milioni nel 2008; in particolare, la prevalenza del diabete standardizzata per et? ? passata da 8,3% negli uomini e 7,5% nelle donne nel 1980 a valori, rispettivamente, del 9,8% e 9,2% nel 2008. Il massimo aumento si ? avuto in Oceania, con il pi? alto valore di prevalenza (15,5% per gli uomini, 15,9% per le donne). Tra le subregioni ad alto reddito, l’Europa occidentale e l’America del Nord hanno evidenziato, nell’ordine, la pi? contenuta e la pi? elevata crescita di Fpg (nel primo caso: 0,07 mmol/L per gli uomini, 0,03 mmol/L per le donne; nel secondo: 0,18 mmol/L e 0,14 mmol/L). Questo quadro, secondo gli autori, rende necessari interventi preventivi efficaci e dovrebbe indurre i sistemi sanitari a migliorare gli approcci diagnostici e terapeutici del diabete e delle sue complicanze.

Lancet, 2011; 378(9785):31-40

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Le certezze che crollano: il sale aumenta la pressione (forse), ma non le malattie cardiovascolari. Anzi…

La polemica sul rapporto tra sale e ipertensione, nonostante studi quali l’INTERSALT che ne hanno stabilito la relazione diretta, non si ? mai spenta e un recente articolo comparso su JAMA?? sicuramente destinato a rinfocolarla. Partendo dal fatto che i dati sul danno del sale sono derivati dall’estrapolazione di studi osservazionali e da trials di intervento a breve termine, ? stato progettato uno studio prospettico di popolazione a lungo termine su 3.681 soggetti senza malattie cardiovascolari (CVD) di base. Questi soggetti erano membri di famiglie arruolate in 2 studi di popolazioni europee riguardanti fattori genetici coinvolti nei processi patologici. Dei 3.681 partecipanti 2.096 erano normotesi all’ingresso e su 1.499 sono state misurate la pressione e l’escrezione di sodio all’ingresso e al follow-up. Outcome principale: incidenza della mortalit?/morbilit? e associazione tra le variazioni della pressione arteriosa (PA) e della sodiuria nelle 24 h (che riflette l’assunzione di sodio). Un’analisi multivariata ha espresso il rischio (HR) in terzili di escrezione di sodio in rapporto al rischio medio della popolazione in studio. I risultati dello studio sono inquietanti
1. i tassi di mortalit? dei 3.681 soggetti seguiti per un follow-up mediano di 7,9 anni?erano minori nei terzili con maggiore escrezione di sodio: rispettivamente 4.1%, 1.9%, e 0.8%;
2. nei 2.096 partecipanti (normotesi all’ingresso) seguiti per 6,5 anni, il rischio di ipertensione non aumentava nei terzili con pi? alta escrezione di sodio (p=0.93)
3. nei 1.499 partecipanti seguiti per 6,1 anni la pressione sistolica aumentava di 1,71 mmHg per ogni 100 mmol di aumento dell’escrezione del sodio (p 0.001), ma non la pressione diastolica.
Il punto 1 rimane l’aspetto pi? clamoroso: una relazione inversa tra sodiuria (quindi assunzione di sodio) e rischio di morte da CVD. In ogni modo non viene supportata la raccomandazione di una indiscriminata riduzione del sale nell’intera popolazione per evitare le CVD, anche se non vengono negati effetti sull’abbassamento della PA con la riduzione del sale nei soggetti ipertesi.

Stolarz-Skrzypek K et al. JAMA 2011; 305: 1777-1785

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I rapporti tra tipo di terapia insulinica e incremento di peso

Nei pazienti con diabete di tipo 2 l’incremento del peso corporeo nel corso del primo anno di terapia insulinica si associa all’intensit? del trattamento; inoltre, l’aumento di peso dipende dal regime insulinico adottato. Queste le conclusioni di una review sistematica e metanalisi condotte da Antonio E. Pontiroli e collaboratori del dipartimento di Medicina, chirurgia e odontoiatria, Universit? degli Studi e Ospedale San Paolo di Milano, su 46 studi randomizzati che riportavano gli effetti del trattamento con insulina e analoghi sulle variazioni di peso corporeo. L’intensit? del trattamento (glicemia a digiuno, dose di insulina, HbA1c finale, variazione di HbA1c e frequenza dell’ipoglicemia) ? risultata associata in modo significativo all’incremento del peso corporeo, con una piccola differenza fra il regime basale rispetto a quello prandiale e un terzo che prevedeva due somministrazioni al giorno. Dalla metanalisi ? emerso che l’aumento di peso era inferiore con il regime basale rispetto agli altri due. Considerando tutti i regimi, poi, l’incremento di peso ? risultato inferiore impiegando la detemir rispetto a Nph mentre non sono state osservate differenze tra glargine e Nph. Solo 2 studi hanno posto direttamente a confronto detemir e glargine ed ? stato registrato un minore incremento di peso con detemir. Tra i regimi con somministrazione due volte al giorno e prandiale il confronto ha riguardato gli analoghi di pi? recente introduzione e i farmaci pi? datati: non ? emersa alcuna significativa differenza in termini di aumento di peso corporeo.

Diabetes Obes Metab, 2011 Jun 3. [Epub ahead of print]

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Assunzione di calcio e rischio fratture: rapporto non lineare

Un graduale aumento dell’apporto di calcio in una popolazione femminile, dai livelli meno elevati a quelli pi? alti, non si associa a un’ulteriore riduzione del rischio fratturativo o di osteoporosi. ? quanto emerge da uno studio longitudinale e prospettico condotto su una coorte di 61.433 donne svedesi seguite per 19 anni da Eva Warensj?, della sezione di Ortopedia dell’universit? di Uppsala, e collaboratori. L’outcome primario era costituito dalla comparsa di fratture incidenti di ogni tipo e di fratture d’anca, quello secondario dalla diagnosi di osteoporosi, ottenuta mediante assorbimetria a raggi X a doppia energia effettuata in una sottocoorte di 5.022 persone. Il regime alimentare, invece, era valutato mediante ripetuti questionari sulla frequenza di consumo dei cibi. Durante il follow-up, il 24% delle donne (n=14.738) ha subito una prima frattura di ogni tipo e, tra queste, il 6% (n=3.871) una prima frattura d’anca. All’interno della sottocoorte, il 20% delle donne (n=1.012) ha ricevuto diagnosi di osteoporosi. Il pattern di rischio non ? risultato lineare con l’apporto di calcio. Il tasso crudo di prima frattura di ogni tipo ? stato di 17,2/1.000 anni-persona a rischio nel quintile inferiore di assunzione di calcio, e di 14,0/1.000 anni-persona a rischio nel terzo quintile, corrispondente a un hazard ratio (Hr) aggiustato multivariato di 1,18. L’Hr per una prima frattura d’anca ? risultata di 1,29 e l’odds ratio per osteoporosi di 1,47. Con un basso intake di vitamina D il tasso di frattura nel primo quintile di calcio era pi? pronunciato, mentre il quintile pi? elevato di assunzione di calcio non riduceva ulteriormente il rischio di frattura di ogni tipo, o di osteoporosi, ma era associato a un tasso superiore di frattura d’anca (Hr: 1,19).

BMJ, 2011; 342:d1473

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Attivit? fisica taglia rischio diabete gestazionale

Alti livelli di attivit? fisica prima della gravidanza o durante i primi mesi di gestazione contribuiscono a ridurre il rischio di sviluppare diabete mellito gestazionale. ? quanto emerge da una metanalisi coordinata da Deirdre K. Tobias, del dipartimento di Nutrizione ed Epidemiologia della Harvard School of Public Health, Boston. L’indagine ha preso in considerazione tutti gli studi pubblicati fino al marzo 2010 che avessero come oggetto il rapporto tra attivit? fisica e comparsa successiva di diabete mellito gestazionale. Sono stati quindi inseriti nella metanalisi sette studi condotti in donne in pre-gravidanza e cinque studi in donne nei primi mesi di gravidanza, compresi cinque studi di coorte prospettici, due caso-controllo retrospettivi e due trasversali. L’attivit? fisica prima della gravidanza ? stata valutata in 34.929 donne, tra le quali si sono registrati 2.813 casi di diabete mellito gestazionale; nelle donne con i livelli pi? alti di attivit? fisica si ? evidenziata una diminuzione del 55% del rischio relativo di diabete mellito gestazionale rispetto alle donne con i livelli pi? bassi di attivit? fisica (rapporto crociato combinato, Or combinato: 0,45). Nei cinque studi che si sono concentrati invece sulle donne gi? gravide, sono state prese in esame 4.401 partecipanti, nelle quali il diabete ? comparso in 361 casi; ? emerso cos? che le future mamme che nei primi mesi di gestazione facevano registrare i livelli pi? alti di attivit? fisica presentavano una diminuzione del 24% del rischio relativo di diabete mellito gestazionale rispetto alle donne con i livelli pi? bassi di attivit? fisica (Or combinato: 0,76). Questi dati dimostrano chiaramente come una moderata attivit? fisica sia da consigliare prima e durante la gravidanza per contrastare con efficacia la comparsa di diabete mellito gestazionale.

Diabetes Care, 2011; 34(1):223-9

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