Un integratore utile nel trattamento del morbo di Crohn?

Nel trattamento del morbo di Crohn in forma lieve e moderata l’assunzione di integratori alimentari a base di acido linoleico coniugato (CLA) contribuisce a migliorare il decorso della malattia e impatta favorevolmente sulla qualità di vita. Lo afferma uno studio pubblicato dalla rivista Clinical Nutrition.

Numerosi studi hanno dimostrato che l’acido linoleico coniugato è efficace come immuno-modulatore e nei modelli animali ha mostrato proprietà antinfiammatorie significative. I ricercatori del Nutritional Immunology and Molecular Medicine Laboratory (NIMML) della Virginia Tech University coordinati da Josep Bassaganya-Riera hanno preso in esame 13 pazienti affetti da Crohn in forma lieve o moderata e hanno somministrato loro 6 g/die di CLA per 12 settimane e procedendo a prelievi di sangue periferico all’inizio dello studio, a 6 e a 12 settimane per l’analisi funzionale della linfoproliferazione e della produzione di citochine. L’attività del morbo di Crohn nei pazienti arruolati nello studio è stata monitorata utilizzando il CD activity index (CDAI), mentre la qualità di vita è stata misurata mediante l’Inflammatory Bowel Disease Questionnaire (IBDQ).

La somministrazione di CLA si è rivelata in grado di sopprimere significativamente la capacità delle cellule CD4+ e CD8+ T del sangue periferico di sintetizzare IFN-γ, TNF-α e IL-17 e di inibire significativamente la linfoproliferazione a 12 settimane. Lo score CDAI è sceso da 245 a 187 (P = 0,013) nello stesso arco di tempo, mentre lo score IBDQ è salito da 141 a 165 (P = 0,017) nello stesso arco di tempo.

“Si tratta di risultati molto incoraggianti, ma che vanno verificati in un trial randomizzato e controllato”, commenta Kim L. Isaacs dell’University of Carolina di Chapel Hill. “In realtà sapevamo già che esistono probiotici che sintetizzano CLA localmente e che alleviano i sintomi della colite”, spiega Raquel Hontecillas del NIMML. “Quindi gli effetti si hanno sia con la somministrazione diretta di integratori alimentari a base di acido linoleico coniugato sia con l’assunzione dei ceppi probiotici adatti”.

▼ Bassaganya-Riera J, Hontecillas R, Horne WT et al. Conjugated linoleic acid modulates immune responses in patients with mild to moderately active Crohn’s disease. Clinical Nutrition 2012; In Press.

GAST-1044789-0000-UNV-W-06/2014 

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Infezione da H.pylori: nuove indicazioni da Maastricht

Dalla consensus conference di Maastricht , giunta alla sua quarta edizione, arrivano gli aggiornamenti per il Management dell’infezione di Helicobacter pylori. Tra gli autori del documento di consenso ci sono anche diversi clinici italiani

Il management dell’infezione da Helicobacter pylori è stato sottoposto a revisione nell’ambito della quarta edizione della consensus conference di Maastricht/Firenze con la partecipazione di 44 esperti, tra cui italiani, aderenti all’European helicobacter study group. Ne sono scaturite raccomandazioni per la pratica clinica frutto delle analisi effettuate in 3 workshop separati le cui conclusioni sono state infine sottoposte a votazione in assemblea plenaria. Il primo workshop si è occupato di indicazioni e controindicazioni per la diagnosi e il trattamento focalizzandosi su dispepsia, impiego di aspirina o Fans, malattia da reflusso gastroesofageo (GORD) e manifestazioni extra-intestinali dell’infezione. Gli statements precisano che l’eradicazione di H pylori determina un miglioramento a lungo termine della dispepsia in un paziente su 12 con dispepsia funzionale mentre, in media, lo status di H pylori non ha effetto sulla severità e ricorrenza dei sintomi e sull’efficacia della terapia per la GORD. L’infezione si associa ad un aumento del rischio di ulcere gastroduodenali nei pazienti in trattamento con Fans e aspirina a basse dosi ed emerge evidenza a sostegno del link con anemia da deficienza di ferro non altrimenti spiegata, porpora trombocitopenica idiopatica e deficienza da vitamina B12: in presenza di tali disordini H pylori dovrebbe essere ricercato ed eradicato. 

Raccomandazioni per il trattamento
Il secondo workshop ha delineato i cardini del trattamento per l’infezione. La tripla terapia contenente PPI e claritromicina dovrebbe essere abbandonata laddove i tassi di resistenza a claritromicina siano superiori al 10-15%: si raccomanda invece il ricorso alla terapia quadrupla con bismuto in prima linea empirica, e se questo regime non è disponibile si invita ad usare una terapia quadrupla senza bismuto o un trattamento sequenziale. Nelle aree in cui la resistenza a claritromicina è bassa, i regimi su base empirica contenenti claritromicina sono raccomandati in prima linea con l’alternativa della terapia quadrupla contenente bismuto. L’impiego di PPI ad alte dosi due volte al giorno aumenta l’efficacia della tripla terapia mentre l’estensione del regime triplo con claritromicina e PPI da 7 a 10-14 giorni migliora i tassi di eradicazione di circa il 5%: i regimi contenenti metronidazolo o amoxicillina sono equivalenti. Dopo fallimento della terapia contenente PPI e claritromicina, si raccomanda una terapia quadrupla contenente bismuto o tripla con levofloxacina. Dopo fallimento della terapia di seconda linea il documento consiglia di basare le successive scelte terapeutiche sul test di suscettibilità antimicrobica. Infine il terzo workshop ha preso in considerazione il tema della prevenzione del cancro gastrico, di cui H pylori è il più consistente fattore di rischio, e di altre complicazioni. Si ricorda che estensione e severità della gastrite insieme ad atrofia si associa in modo positivo al cancro gastrico: l’eradicazione di H pylori può arrestare la progressione dell’atrofia e ridurre il rischio di sviluppo di cancro. 

Gut 2012; 61: 646-664

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Fumo fattore di rischio per esofago di Barrett

Un’analisi del Barrett’s and Esophageal Adenocarcinoma Consortium di Bethesda, Maryland – condotta da Michael B. Cook in collaborazione con altri ricercatori americani, irlandesi e australiani – porta ad affermare che il fumo di sigaretta è un fattore di rischio per l’esofago di Barrett. Gli studiosi hanno analizzato cinque studi caso-controllo in cui i dati di 1.059 soggetti con esofago di Barrett, 1.332 con reflusso gastroesofageo e 1.143 persone sane sono stati analizzati con un modello statistico per evidenziare l’associazione delle due condizioni patologiche con il fumo da sigaretta. Sono stati i pazienti con esofago di Barrett a mostrare una maggiore abitudine al fumo, più del 60% superiore sia rispetto alla popolazione sana che ai partecipanti che soffrivano di reflusso gastroesofageo. Inoltre, la correlazione tra fumo ed esofago di Barrett si è accentuata all’aumentare dell’esposizione al fumo. L’analisi ha anche fornito l’evidenza di una sinergia tra fumo e altri sintomi come bruciori di stomaco o rigurgito, «il che indica» affermano gli autori «che esistono diversi meccanismi attraverso i quali il fumo di tabacco può contribuire allo sviluppo dell’esofago di Barrett». Uno dei punti di forza dello studio è l’ampiezza del campione: il più numeroso mai considerato in studi di questo tipo, il che consente di assegnare un valore statistico ai risultati ottenuti.

Gastroenterology, 2012; 142(4):744-53

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Maggiore probabilità di colangiocarcinoma nei pazienti diabetici

Esiste una forte correlazione tra diabete mellito e rischio aumentato di colangiocarcinoma (Cc), sia intraepatico (Icc) sia extraepatico (Ecc). Il dato, già segnalato ma rimasto finora non chiarito, sembra ora confermato dai risultati di una metanalisi condotta al dipartimento di Chirurgia generale della Seconda università medica militare di Shangai (Cina) da un’équipe di ricercatori guidata da Wei Jing. Dopo una ricerca della letteratura presente su Medline (dal 1966) ed Embase (dal 1974) fino al 2010, sono stati inclusi nell’analisi 15 articoli: 10 caso-controllo e 5 studi di coorte. In particolare, il numero di rapporti sul rapporto tra diabete mellito e rischio specifico di cancro sono stati 5 nel caso del colangiocarcinoma (Cc), 9 nel caso di Ecc, e 9 in quello di Icc. Messi a confronto dei soggetti non diabetici, gli individui con diabete mellito hanno evidenziato un rischio maggiore di Cc (rischio relativo, Rr: 1,60), di Ecc (Rr: 1,63) e di Icc (Rr: 1,97). Si è accertato mediante funnel plot l’assenza di bias di pubblicazione relativi al rapporto tra diabete e il rischio di Cc (inclusi Ecc e Icc).

Eur J Cancer Prev, 2012; 21(1):24-31

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H. pylori fattore di rischio per ulcere duodenali e gastriche

Da uno studio trasversale tedesco, risulta che la percentuale di ulcere peptiche attribuibili a infezione da Helicobacter pylori potrebbe essere superiore a quanto si riteneva finora. Una coorte di 9.953 persone, dai 50 ai 74 anni di età, ha costituito la base per una sperimentazione che, oltre ai controlli sierologici iniziali, ha previsto questionari inviati ai partecipanti e ai loro medici di base per la rilevazione dell’incidenza delle ulcere a due e cinque anni di distanza. Nel corso della loro vita, 1.030 dei partecipanti erano stati affetti da ulcera peptica e, durante il periodo di follow-up, 48 hanno avuto per la prima volta un’ulcera duodenale e 22 un’ulcera gastrica. L’infezione da ceppi cagA-positivi di Helicobacter pylori si è associata a un rischio aumentato di 1,75 volte di ulcera peptica; le analisi longitudinali hanno rivelato un aumento di rischio rispettivamente di 18,4 e di 2,9 volte di ulcera duodenale e ulcera gastrica. Gli autori, del Centro di ricerca contro il cancro di Heidelberg, ammettono i limiti dell’analisi trasversale dovuti alla possibile confusione che i partecipanti possono aver fatto tra ulcere gastriche e duodenali. «Tuttavia il nostro studio» sostengono «fornisce forti evidenze che l’infezione da Helicobacter pylori costituisca un fattore chiave di rischio sia per le ulcere duodenali che gastriche. Le analisi longitudinali hanno rivelato una associazione particolarmente forte con le prime».

Clin Gastroenterol Hepatol, 2012; 10(5):487-493.e1

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Preparazione inadeguata a colonscopia: modello per prevenirla

Uno studio condotto all’Istituto clinico Humanitas di Milano ha permesso di identificare i fattori associati a una preparazione intestinale inadeguata per la colonscopia e ha portato alla costruzione di un accurato modello predittivo per identificare i soggetti che richiedono maggiori attenzioni. I ricercatori hanno analizzato 2.811 pazienti che erano stati sottoposti a colonscopia in 18 diversi centri medici, hanno raccolto dati clinici e demografici prima dell’esame e li hanno seguiti in uno studio prospettico. Un’analisi multivariata è servita per identificare i fattori associati a una preparazione inadeguata, che è stata riscontrata in un paziente su tre, ed è servita per mettere a punto il modello. I fattori associati a inadeguata preparazione intestinale sono stati: il sovrappeso (odds ratio 1,5), il genere maschile (1,2), un elevato indice di massa corporea (1,1), l’età avanzata (1,01), un precedente intervento chirurgico colorettale (1,6), cirrosi (5), malattia di Parkinson (3,2), diabete (1,8) e risultati positivi nel test di sangue occulto fecale (0,6). Considerando questi fattori, è stato possibile prevedere quali pazienti presentavano una pulizia intestinale inadeguata con una sensibilità del 60%, una specificità del 59%, un valore predittivo positivo del 49% e un valore predittivo negativo del 76%. Il modello ricavato potrebbe dunque essere utile per seguire con maggiore attenzione la preparazione alla colonscopia di alcuni soggetti, infatti, spiegano gli autori, «assumendo un’efficacia del 100% di un ipotetico regime indirizzato ai pazienti a rischio, la percentuale di preparazione inadeguata scenderebbe dal 33% al 13%».

Clin Gastroenterol Hepatol, 2012; 10(5):501-6

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Alti valori di vitamina D diminuiscono il rischio di Crohn

Elevati livelli plasmatici di 25-idrossivitamina D hanno dimostrato – in un’ampia coorte costituita solo da donne – di ridurre in modo significativo il rischio di morbo di Crohn e, seppure in modo statisticamente non significativo, di colite ulcerosa. È l’esito di una ricerca iniziata nel 1986, quando un team di ricercatori afferenti a diverse strutture ospedaliere di Boston chiese a 72.719 donne, di età compresa tra i 40 e i 73 anni, di compilare un questionario relativo alla loro alimentazione e allo stile di vita; basandosi su questi dati vennero elaborati valori predetti di 25(OH)D rispetto ai livelli misurati direttamente nel plasma. Lungo un follow-up di 1.492.811 anni-persona, durato complessivamente fino al 2008, gli autori  – coordinati da Ashwin N. Ananthakrishnan, del Massachusetts general hospital di Boston (Usa) – hanno documentato 122 casi di morbo di Crohn e 123 di colite ulcerosa. Il livello medio predetto di 25(OH)D è stato di 22,3 ng/mL nel quartile inferiore e di 32,2 ng/mL in quello superiore. Rispetto al quartile con valori più bassi di vitamina D, il quartile superiore si è associato a un hazard ratio per il morbo di Crohn di 0,54 e per la colite ulcerosa di 0,65. La correlazione inversa che intercorre tra i livelli di vitamina D e queste due patologie si conferma in modo ancora più evidente se si prende in considerazione il rischio delle donne con livelli predetti di 25(OH)D superiori ai 30 ng/mL rispetto a quello delle donne con valori inferiori ai 20 ng/mL: l’hazard ratio è stato rispettivamente di 0,38 e di 0,57 per la malattia di Crohn e per la colite ulcerosa. 

Gastroenterology, 2012; 142(3):482-9

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Crohn moderatamente attivo, remissione da rifaximina-Eir

In uno studio multicentrico coordinato da Cosimo Prantera, dell’ospedale San Camillo-Forlanini di Roma, la somministrazione di due dosi giornaliere di 800 mg di rifaximina-Eir per dodici settimane ha indotto la remissione dei sintomi in 402 pazienti con morbo di Crohn moderatamente attivo e si è accompagnata a pochi effetti avversi. La rifaximina-Eir (Extended intestinal release) è una nuova formulazione farmaceutica che contiene microgranuli di rifaximina ricoperti di polimero resistente agli acidi gastrici, in modo che il principio attivo venga rilasciato nel tratto intestinale. Gli autori hanno effettuato uno studio in doppio cieco confrontando efficacia e sicurezza del farmaco somministrato due volte al giorno ai dosaggi di 400, 800 e 1.200 mg rispetto a un gruppo di pazienti che ha ricevuto una sostanza placebo. Alla fine delle dodici settimane di trattamento, 61 dei 98 pazienti trattati con 800 mg di rifaximina-Eir risultavano in remissione: una percentuale del 63% rispetto al 43% riscontrato nel gruppo placebo. La differenza si è mantenuta lungo le 12 settimane (45% vs 29%, rispettivamente). Nei gruppi trattati con dosaggi di 400 mg e 1.200 mg le percentuali di remissione sono state rispettivamente del 54% e del 47%, un risultato non molto superiore rispetto al placebo. Gli effetti avversi della rifaximina-Eir sono stati modesti a basso dosaggio (400 mg e 800 mg), ma si sono verificati nel 16% dei soggetti trattati con 1.200 mg giornalieri. Gastroenterology, 2012; 142(3):473-481.e4

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Udca ad alte dosi per colite ulcerosa e rischio ca colorettale

Nei pazienti con colite ulcerosa e colangite sclerosante primaria, l’impiego a lungo termine di acido ursodesossicolico (Udca) ad alti dosaggi è associato a un aumento del rischio di cancro del colon retto. Lo dimostrano i risultati di una ricerca multicentrica coordinata da John E. Eaton della Mayo clinic di Rochester, che sembrano dunque smentire le evidenze di precedenti studi circa un effetto chemiopreventivo dell’Udca. Il team ha arruolato 56 soggetti, colpiti da colite ulcerosa e colangite sclerosante primaria, randomizzandoli a ricevere Udca ad alte dosi (28-30 mg/kg/die) oppure un placebo, e seguendoli per un totale di 235 anni-persona, verificando i referti colonscopici relativi allo sviluppo di displasia di basso o alto grado o cancro colorettale. Le caratteristiche al basale (tra cui la durata di colite ulcerosa e colangite sclerosante primaria, le medicazioni, l’età del paziente, la storia familiare di cancro colorettale e lo stato di fumatore) erano simili in entrambi i gruppi. I pazienti che poi avevano ricevuto l’Udca ad alte dosi, però, mostravano un rischio significativamente superiore di sviluppare una neoplasia colorettale (displasia e cancro) rispetto al gruppo placebo (hazard ratio, Hr: 4,44).

Am J Gastroenterol, 2011; 106(9):1638-45

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Epatite C acuta: due indicatori per la prognosi

La presenza di mutazioni del gene IL28B associate ai livelli sierici di IP-10 (Interferon-gamma-inducible protein-10/proteina-10 inducibile dall’Interferone gamma) sono in grado di identificare quei pazienti affetti da epatite C acuta in cui l’infezione si risolve spontaneamente e quelli che necessitano di un trattamento antivirale precoce. È quanto emerge da uno studio condotto da ricercatori dell’università di Vienna guidati da Sandra Beinhardt che ha confrontato 120 pazienti con epatite C acuta e 96 individui sani. Le mutazioni prese in considerazione dai ricercatori austriaci sono due polimorfismi a singolo nucleotide (rs12979860 e rs8099917) rilevati tramite Pcr (Polymerase chain reaction), mentre i livelli sierici di IP-10 sono stati misurati con test Elisa. La combinazione ottimale per identificare i pazienti che presentano le maggiori probabilità di clearence spontenea è rappresentata dalla presenza del genotipo rs12979860 C/C e livelli di IP-10 inferiori a 540 pg/ml: queste caratteristiche sono infatti riscontrabili nell’83% dei pazienti in cui l’infezione si risolve spontaneamente.

Gastroenterology, 2011 Sep 28. [Epub ahead of print]

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