Cistite interstiziale e disordini da panico

Alcuni studi di linkage genetico hanno suggerito che in alcune famiglie affette da disturbi da panico si pu? riscontrare la presenza di una particolare sindrome che include problemi della vescica ( forse cistite interstiziale urinaria ), disordini della tiroide, cefalea/emicrania cronica e/o prolasso della valvola mitrale.

L’obiettivo dello studio ? stato quello di determinare se i pazienti con cistite interstiziale ed i loro parenti di primo grado presentassero un aumento dell’incidenza della sindrome, osservata negli studi precedenti.

Hanno preso parte allo studio 146 probandi ( 67 con cistite interstiziale e 79 con altri disordini urologici ), ed 815 parenti di primo grado.

Rispetto ai pazienti senza cistite interstiziale, i soggetti affetti da cistite interstiziale hanno presentato, nel corso della vita, una pi? alta incidenza di disordini da panico ( odds ratio OR = 4.05, con p = 0.02 ) e di alcuni altri disordini della sindrome ( OR = 2.22, con p = 0.09 ).

I parenti di primo grado dei probandi con cistite interstiziale hanno mostrato una maggiore probabilit? di disordini da panico, di disordini della tiroide, di problemi urologici e di alcuni dei disordini della sindrome ( OR aggiustato = 1.95 ; p = 0.02 ).

Non ? emersa nessuna interazione tra stato della cistite interstiziale del probando ed il sesso del parente.

L’aumento della frequenza dei disordini apparentemente disparati nei pazienti affetti da cistite interstiziale e nei loro parenti di primo grado ? consistente con le scoperte degli studi di linkage genetico nelle famiglie con disordini da panico.

L’ipotesi dell’esistenza di una sindrome familiare, probabilmente pleiotropica, che comprende la cistite interstiziale, i disordini da panico, i disordini della tiroide ed altri disordini del controllo autonomico o neuromuscolare merita, secondo gli Autori, ulteriori approfondimenti.

Weissman MM et al, Arch Gen Psychiatry 2004; 61: 273-279

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Remicade nel trattamento della colite ulcerosa attiva moderato-grave

Il CHMP ( Committee for Medicinal Products for Human Use ) dell?EMEA ha raccomandato l?approvazione di una nuova indicazione per Remicade ( Infliximab ): trattamento della colite ulcerosa da moderatamente a gravemente attiva nei pazienti che hanno avuto una risposta inadeguata alla terapia convenzionale ( corticosteroidi, Mercaptopurina ( 6-MP ) o Azatioprina ), o ne sono intolleranti, o presentano una controindicazione medica per queste terapie.

Il CHMP ha analizzato i dati degli studi clinici di fase III, ACT1 ed ATC2.

Un totale di 728 pazienti con colite ulcerosa attiva che erano non-responder ad almeno un trattamento standard ( compresi i corticosteroidi, altri immunosoppressori, oppure 5-Asa [ Mesalazina ] ) sono stati arruolati nello studio ACT1 ( n = 364 ) e ACT2 ( n = 364 ).

I pazienti in ACT1 e ACT2 presentavano evidenza endoscopica di colite ulcerosa da moderatamente a gravemente attiva ( punteggio Mayo totale di 6-12 ) ed un sotto-punteggio all?endoscopia maggiore o uguale a 2.

Nello studio ACT1 i pazienti sono stati trattati con placebo, oppure con Remicade 5mg/kg o Remicade 10mg/kg alle settimane 0, 2 e 6, e poi, ogni 8 settimane fino alla 46.a settimana, con ultima valutazione alla 54.a settimana.

Nello studio ACT2 i pazienti hanno ricevuto il trattamento con placebo oppure con Remicade 5mg/kg o Remicade 10mg/kg alle settimane 0, 2 e 6, e poi ogni 8 settimane fino alla 22.a settimana , con un?ultima valutazione alla 30.a settimana.

In questi studi, le valutazioni primarie di efficacia erano basate sulla risposta clinica, definita come una riduzione dal basale del punteggio Mayo del 30% o pi?, oppure maggiore o uguale a 3 punti, accompagnata da una riduzione nel sotto-punteggio di sanguinamento rettale maggiore o uguale a 1, oppure un sotto-punteggio di sanguinamento rettale compreso tra 0 e 1, e remissione clinica, definita come un punteggio Mayo inferiore o uguale a 2 punti, con nessun sotto-punteggio singolo inferiore a 1.

Nello studio ACT1, all? 8.a settimana il 69% dei pazienti trattati con Remicade 5mg/kg ed il 62% dei pazienti trattati con Remicade 10mg/kg hanno presentato una risposta clinica rispetto al 37% dei pazienti nel gruppo placebo ( p < 0.001 per entrambi i confronti ). Nello studio ACT2, all? 8.a settimana una risposta clinica ? stata osservata nel 65% dei pazienti nel gruppo Remicade 5mg/kg e nel 69% dei pazienti nel gruppo Remicade 10mg/kg contro il 29% nel gruppo placebo ( p < 0.001 per entrambi i confronti ). La proporzione dei pazienti che ha raggiunto una risposta clinica o remissione clinica alla 8.a settimana e alla 30.a settimana negli studi ACT1 e ACT2, e alla 54.a settimana nello studio ACT1 era significativamente maggiore tra i pazienti trattati con Remicade 5mg/kg e Remicade 10mg/kg rispetto ai pazienti trattati con placebo ( p < 0.01 per tutti i confronti con placebo ). La percentuale di risposta clinica era similare tra i sottogruppi non-responsivi e responsivi ai corticosteroidi.
Per entrambi gli studi, la proporzione dei pazienti con risposta clinica sostenuta o remissione clinica sostenuta era significativamente pi? alta in ciascun gruppo Remicade che nel gruppo placebo ( p < 0.01 per tutti i confronti con il placebo.) La proporzione dei pazienti trattati con Remicade 5mg/kg e Remicade 10mg/kg che hanno raggiunto la guarigione mucosale alla 8.a settimana e alla 30.a settimana ( negli studi ACT1 e ACT2 ), e alla 54.a settimana ( studio ACT1 ) era significativamente maggiore rispetto a quella dei pazienti del gruppo placebo ( p < 0.01 per tutti i confronti con il placebo ). Inoltre, il 61% dei pazienti nello studio ACT1 ed il 51% dei pazienti nello studio ACT2 stavano ricevendo corticosteroidi al basale. Il dosaggio giornaliero medio dei corticosteroidi, al basale, era di 20mg/die in entrambi gli studi.
Tra i pazienti che al basale stavano ricevendo corticosteroidi, la proporzione di pazienti in remissione clinica, e che ha interrotto l?assunzione di corticosteroidi alla 30.a settimana, era significativamente maggiore nel gruppo Remicade 5mg/kg ( 24% per ACT1 e 18% per ACT2 ) rispetto al gruppo placebo ( 10% e 3%, rispettivamente ) ( p = 0.030 per ACT1 e p = 0.010 per ACT2 ).
Alla 54.a settimana nello studio ACT1, il 26% dei pazienti che stava ricevendo Remicade 5mg/kg era in remissione clinica ed aveva interrotto l?assunzione di corticosteroidi contro il 9% dei pazienti che ha ricevuto placebo ( p = 0.006 ).

Fonte: Schering-Plough, 2006

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La resistenza all?insulina ? associata a steatosi nei pazienti non diabetici con

Ricercatori dell?Universit? di Palermo hanno valutato i fattori associati alla steatosi epatica nell?epatite C cronica, genotipo 1, e l?impatto del grasso epatico sullo sviluppo di fibrosi e sulla risposta all?Interferone.

Un totale di 291 pazienti non diabetici con epatite C cronica, genotipo 1, sono stati sottoposti ad esame per la presenza di steatosi.
E? stata anche ricercata una correlazione con i dati clinici, virologici e biochimici, tra cui la resistenza all?insulina.

La resistenza all?insulina ? stata valutata mediante il punteggio HOMA ( homeostatis model assessment ).

La steatosi era classificata come, lieve ( 1-20% di epatociti coinvolti ), moderata ( 21-40% di epatociti coinvolti ) e grave ( > 40% di epatociti coinvolti ).

La steatosi ? risultata lieve nel 37.8% dei soggetti e moderata-grave nel 18.9%.

All?analisi di regressione logistica, la steatosi moderata-grave era indipendentemente associata al sesso femminile ( odds ratio, OR = 2.74 ), agli alti livelli di gamma-glutamiltransferasi ( gamma-GT; OR = 1.52 ) e punteggio HOMA ( OR = 1.076 ).

Sempre all?analisi di regressione logistica, la steatosi moderata-grave ( OR = 2.78 ) e la conta piastrinica ( OR = 0.97 ) erano predittori indipendenti di fibrosi in fase avanzata.

I pazienti con steatosi moderata-grave presentavano un odds ratio di 0.52 per la risposta virologica sostenuta rispetto ai pazienti con steatosi lieve/assente.

I dati dello studio hanno mostrato che nei pazienti europei non diabetici con epatite C, genotipo 1, a basso rischio per la sindrome metabolica, la prevalenza di steatosi era approssimativamente del 60%.

La resistenza all?insulina ? un fattore di rischio per la steatosi moderata-grave, specialmente negli uomini.

La steatosi moderata-grave ha rilevanza clinica essendo associata a fibrosi in fase avanzata e ad iporesponsivit? alla terapia antivirale.

Camma C et al, Hepatology 2006; 46: 64-71

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L?obesit? aumenta il rischio di malattia da reflusso gastroesofageo e le sue com

Le persone obese presentano un aumentato rischio di sviluppare malattia da reflusso gastroesofageo ( GERD ).

Ricercatori del Baylor College of Medicine di Houston hanno compiuto una revisione di 9 studi clinici , che avevano esaminato l?associazione tra indice di massa corporea ( BMI ) ed i sintomi della malattia da reflusso gastroesofageo.

Sei di questi studi hanno trovato associazioni statisticamente significative.

L?odds ratio dei sintomi di reflusso gastro-esofageo ? stato 1.49 per BMI compresa tra 25 e 30 kg/m2 ( persone in sovrappeso ) e 1,94 per BMI superiore a 30 kg/m2 ( persone obese ).

L?odds ratio di adenocarcinoma esofageo per BMI 25-30 kg/m2 e per BMI superiore a 30 kg/m2 ? stato 1,52 e 2,78, rispettivamente.

Da questi dati l?obesit? sembra associata ad un aumento significativo del rischio di sintomi da reflusso gastroesofageo, esofagite erosiva ed adenocarcinoma esofageo.

Il rischio per questi disordini sembra aumentare progressivamente con l?aumentare del peso.

Fonte: Annals of Internal Medicine, 2005

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Pi? elevata prevalenza di diabete mellito tra i pazienti con epatite C

E? stato riscontrato un legame epidemiologico tra epatite C cronica e diabete mellito di tipo II.

L?obiettivo dei ricercatori della Mayo Clinic and Foundation di Rochester ? stato quello di determinare in modo prospettico la prevalenza di diabete mellito in pazienti naive per l?Interferone, affetti da epatite C, rispetto alla popolazione generale.
Inoltre, ? stata determinata l?associazione tra diabete mellito ed alterazione del glucosio a digiuno con lo stadio istologico nei pazienti infettati dal virus dell?epatite C ( HCV ).

Sono stati inclusi nello studio prospettico 179 pazienti, arruolati in modo consecutivo.

La percentuale grezza di diabete mellito nella coorte ? stata del 14.5%, a differenza della percentuale grezza del 7.8% nella popolazione generale ( p = 0.0008 ) e della percentuale di 7.3% osservata in un gruppo di controllo con malattia epatica differente dall?epatite C .

La prevalenza di diabete mellito e di alterazione del metabolismo del glucosio a digiuno ? risultata pi? elevata tra i pazienti con infezione da HCV con malattia istologicamente avanzata, rispetto a quelli con malattia istologicamente precoce ( p = 0.0004 ).

La malattia istologicamente avanzata era in grado di preannunciare la prevalenza di diabete mellito e di alterazione del metabolismo del glucosio a digiuno, dopo controlli per altri fattori di rischio identificati per il diabete mellito.

La storia familiare ? risultata essere il solo altro fattore indipendente di predizione di diabete mellito e di alterazione del metabolismo del glucosio a digiuno nei pazienti con infezione da HCV.

In conclusione, i pazienti con epatite C hanno una pi? alta prevalenza di diabete mellito rispetto alla popolazione generale.
La presenza di una malattia diagnosticata come avanzata all?esame istologico nei pazienti con HCV geneticamente predisposti ? correlata con una pi? alta prevalenza di diabete mellito e alterazione del metabolismo del glucosio a digiuno.
Il diabete mellito e l?alterazione del metabolismo del glucosio a digiuno non sono associati a marcatori antropomorfici di obesit? nei pazienti affetti da epatite C, indicando un?unica patogenesi multifattoriale del diabete mellito nei pazienti con infezione da HCV.

Zein CO et al, Am J Gastroenterol 2005;100:48?55

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Malattie infiammatorie intestinali: utile l’integrazione con folati

I livelli di omocisteina risultano elevati sia nelle mucose che nel sangue dei soggetti con morbo di Crohn e rettocolite ulcerosa, il che suggerisce che queste molecole potrebbero svolgere un ruolo patogeno nelle infiammazioni intestinali, e pertanto questo effetto potrebbe essere abolito dall’integrazione con folati.
Elevati livelli di omocisteina contribuiscono alla fisiopatologia di diverse malattie infiammatorie croniche, ma finora il ruolo di questa molecola nelle malattie infiammatorie intestinali non era stato ancora esplorato.
Sarebbe dunque ragionevole ipotizzare un effetto benefico per l’integrazione dei folati nei pazienti con queste malattie, onde eliminare gli eventi infiammatori mediati dall’omocisteina, soprattutto l’adesione delle cellule mononucleate.
(Am l Gastroentero/2005; 100: 895-6)

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