Disturbi dispeptici senza lavoro o partner

Divorzio, disoccupazione e fumo rappresentano i fattori di rischio maggiormente associati alla dispepsia funzionale. Si tratta dei risultati di una ricerca, condotta da studiosi italiani e pubblicata su Gastroenterology, che ha consentito di collegare specifici disagi psicologici ai sempre pi? diffusi disturbi digestivi. Maurizio Zagari e Franco Bazzoli del Dipartimento di Medicina Clinica del Policlinico Sant’Orsola di Bologna prendendo in esame circa mille abitanti di due comuni in provincia di Bologna hanno stimato epidemiologia e caratteristiche della dispepsia nella popolazione generale. Secondo gli autori, la patologia colpirebbe circa l’11% degli italiani e sarebbe caratterizzata, nel 67,5% dei casi, da senso di pienezza postprandiale e precoce saziet? e, nel 48,2%, da dolore epigastrico. Soltanto il 15,8% dei pazienti lamenterebbe i due tipi di sintomi. Disoccupazione, divorzio, abitudine al fumo e sindrome dell’intestino irritabile. Queste le quattro condizioni significativamente associate a dispepsia funzionale (or= 5,80; 2,76; 1,74 e 3,38; rispettivamente). Infine, mentre divorziati, disoccupati e individui con intestino irritabile presentano sia sensazioni sgradevoli postprandiali sia dolore epigastrico, nei fumatori i sintomi compaiono solo dopo l’assunzione di cibo. (L.A.)

Gastroenterology. 2010 Jan 11. [Epub ahead of print]

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Marcatore sierologico di pancreatite autoimmune

? frutto della collaborazione tra ricercatori dell’Universit? di Verona, quella di Genova e l’Istituto Gaslini della citt? ligure l’identificazione di un anticorpo presente nella maggior parte dei pazienti con pancreatite autoimmune e assente in quasi tutti quelli con cancro del pancreas. Tale anticorpo ? diretto contro una particolare porzione della proteina Pbp (Plasminogen binding protein) dell’Helicobacter pylori che presenta una similitudine con una proteina umana, la Ubr2 (Ubiquitin-protein ligase E3 component recognin 2) presente nelle cellule acinari del pancreas. ? un esempio del cosiddetto “mimetismo molecolare”, uno dei possibili meccanismi attraverso cui un agente infettivo pu? indurre una malattia autoimmune. Analizzando una raccolta di campioni sierici dai pazienti, gli autori hanno notato gli anticorpi anti-Pbp che, nel complesso, sono risultati positivi in 33 su 35 soggetti con pancreatite autoimmune (94%) e in 5 su 100 con cancro pancreatico (5%). “Dal punto di vista clinico, questo test ? importante perch? aiuta a discriminare le due patologie” sottolineano i ricercatori. “Alcuni soggetti, infatti, si sottopongono a intervento chirurgico nel sospetto di neoplasia, invece sono affetti da una pancreatite autoimmune che risponde molto bene ai cortisonici”. (A.Z.)

New England Journal of Medicine, 2009; 361:2135-2142

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Marcatore sierologico di pancreatite autoimmune

? frutto della collaborazione tra ricercatori dell’Universit? di Verona, quella di Genova e l’Istituto Gaslini della citt? ligure l’identificazione di un anticorpo presente nella maggior parte dei pazienti con pancreatite autoimmune e assente in quasi tutti quelli con cancro del pancreas. Tale anticorpo ? diretto contro una particolare porzione della proteina Pbp (Plasminogen binding protein) dell’Helicobacter pylori che presenta una similitudine con una proteina umana, la Ubr2 (Ubiquitin-protein ligase E3 component recognin 2) presente nelle cellule acinari del pancreas. ? un esempio del cosiddetto “mimetismo molecolare”, uno dei possibili meccanismi attraverso cui un agente infettivo pu? indurre una malattia autoimmune. Analizzando una raccolta di campioni sierici dai pazienti, gli autori hanno notato gli anticorpi anti-Pbp che, nel complesso, sono risultati positivi in 33 su 35 soggetti con pancreatite autoimmune (94%) e in 5 su 100 con cancro pancreatico (5%). “Dal punto di vista clinico, questo test ? importante perch? aiuta a discriminare le due patologie” sottolineano i ricercatori. “Alcuni soggetti, infatti, si sottopongono a intervento chirurgico nel sospetto di neoplasia, invece sono affetti da una pancreatite autoimmune che risponde molto bene ai cortisonici”. (A.Z.)

New England Journal of Medicine, 2009; 361:2135-2142

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Pazienti che assumono Aspirina a basso dosaggio: la Famotidina previene il danno gastrointestinale

La Famotidina ( Gastridin ) ? in grado di prevenire le ulcere gastriche e le ulcere del tratto intestinale superiore nei pazienti che assumono Acido Acetilsalicilico ( Aspirina ) a basso dosaggio.

Lo studio FAMOUS ( Famotidine for Prevention of Peptic Ulcers in Users of Low-Dose Aspirin ) ha esaminato i benefici prodotti dalla somministrazione di un antagonista del recettore H2 dell?istamina in 404 pazienti in un singolo Centro ospedaliero, che stavano assumendo 75-325 mg/die di Acido Acetilsalicilico con o senza farmaci cardioprotettivi.

I pazienti che al basale non presentavano ulcere o esofagite erosiva, sono stati assegnati in modo casuale a ricevere Famotidina 20 mg, 2 volte die, oppure placebo.

L?endpoint primario era rappresentato da nuove ulcerazioni nello stomaco o nel duodeno, o esofagite erosiva a 3 mesi.

Per 82 pazienti ( 33 nel gruppo Famotidina e 49 nel gruppo placebo ) non era disponibile l?esame endoscopico finale, ed ? stato assunto che i risultati fossero normali.

All?analisi intention-to-treat, le ulcere gastriche si sono sviluppate nel 3.4% dei soggetti trattati con Famotidina e nel 15% di coloro che hanno ricevuto placebo ( odds ratio, OR=0.20; p=0.0002 ).

Le ulcere duodenali si sono sviluppate nello 0.5% dei pazienti nel gruppo Famotidina e nell?8.5% nel gruppo placebo, mentre l?incidenza di esofagite erosiva ? stata del 4.4% e del 19%, rispettivamente ( OR=0.05 e OR=0.20; p=0.0045 e p<0.0001 ). Nel gruppo Famotidina sono stati osservati 9 eventi avversi contro i 15 nel gruppo placebo, con 4 di quest?ultimo gruppo ricoverati in ospedale con emorragia gastrointestinale del tratto superiore. Fonte: The Lancet, 2009

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Nuovi test ematici per tumori gastrointestinali

Due nuovi test ematici hanno fornito risultati promettenti ai fini dell?identificazione precoce dei tumori gastrointestinali. Le innovative procedure, pi? semplici, meno costose e pi? accettabili per i pazienti rispetto alle procedure attuali, quali la colonscopia o la ricerca di sangue occulto nelle feci, sono state presentate a Berlino, in occasione del pi? grande congresso oncologico europeo: l?Ecco 15 ? Esmo 34 (European cancer of organization – European society for medical oncology).

La prima metodica ? stata messa a punto da un?azienda di Liegi (Belgio). Sono stati prelevati campioni ematici da pazienti con cancro colorettale prima di essere sottoposti a chirurgia e da controlli sottoposti a colonscopia; si ? quindi estratto il Dna e si ? verificata la metilazione di due geni, Syne1 e Foxe1, correlata all?avvio e alla progressione del tumore. Studiando 124 soggetti con cancro colorettale e 444 controlli, e utilizzando volumi di plasma compresi tra 0,8 e 4,3 ml, la sensibilit? e la specificit? della combinazione dei due marker ? stata rispettivamente del 58 e del 90%. Valori analoghi si sono avuti in un altro studio che ha coinvolto 69 casi e 242 controlli. ?Questo metodo? afferma Joost Louwagie, della OncoMethylome Sciences di Liegi ?pu? essere usato per uno screening non invasivo con prelievi effettuabili da infermieri o medici di Mg senza necessit? di specifici equipaggiamenti o training?.

? stato sviluppato invece a Berlino un secondo metodo che aiuta a diagnosticare tumori a carico del colon, del retto e dello stomaco e a predire la loro capacit? metastatica. Si sono effettuati prelievi ematici da pazienti con cancro del colon (185), del retto (190), dello stomaco (91) e volontari sani (51). ? emerso che la presenza di Rna messaggero del gene S100A4 (promotore della capacit? metastatica delle cellule cancerose) ? significativamente maggiore nei soggetti con tumore gastrointestinale rispetto ai sani e ancora superiore nei pazienti con metastasi o che le avrebbero sviluppate pi? avanti rispetto a chi non aveva metastasi. ?Attraverso l?identificazione dei casi in cui la malattia progredisce pi? velocemente, speriamo di poter fornire una terapia personalizzata in base alle esigenze del singolo? conclude Ulrike Stein, della Ecrc Charit? Univeristy of medicine di Berlino.

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Eradicare H. pylori rallenta metaplasia intestinale

L’eradicazione dell’H. pylori previene la progressione dell’esofago di Barrett nei pazienti con reflusso gastrointestinale che fanno uso di inibitori della pompa protonica. L’uso a lungo termine di questi farmaci ? piuttosto comune nei pazienti che soffrono di reflusso, ma una volta raggiunta la negativit? per l’H. pylori la probabilit? che il paziente rimanga libero dalla progressione delle lesioni precancerose ? piuttosto alta. Lo screening dell’eradicazione dell’infezione ? dunque necessaria per prevenire sia la nuova comparsa che per limitare la progressione e promuovere la regressione di fenomeni come l’atrofia gastrica e la metaplasia intestinale. Il trattamento dell’infezione da H. pylori previene le recidive delle ulcere ed i nuovi casi di ulcera, ed oltre a prevenire la comparsa e la progressione delle nuove lesioni, ? in grado anche di far regredire quelle gi? esistenti: potrebbe dunque essere possibile diminuire in questo modo la frequenza dei tumori gastrici. (Am J Gastroenterol 2009; 104: 1642-9)

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Steatosi epatica non alcolica: utile attivit? fisica

L’attivit? fisica pu? essere utile nei pazienti con steatosi epatica non alcolica indipendentemente dalle variazioni del peso. La steatosi epatica non alcolica, caratterizzata da elevati livelli di enzimi epatici, obesit? centrale ed insulinoresistenza, sta divenendo sempre pi? diffusa, ma finora l’effetto delle variazioni dell’attivit? fisica sul profilo metabolico di questo gruppo di pazienti non era stato ancora riportato. E’ stato ora dimostrato che l’aumento dell’attivit? fisica pu? avere effetti positivi su enzimi epatici, insulinoresistenza e parametri metabolici in questi pazienti: si tratta di un esito particolarmente importante, in quanto ? stato dimostrato anche che il grasso epatico ? indipendentemente correlato a tutti i fattori di rischio della sindrome metabolica, e che le consulenze sullo stile di vita sono efficaci nel migliorare il comportamento individuale nei confronti dell’attivit? fisica. (Hepatology. 2009; 50: 68-76)

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Steatoepatite non alcolica: anti recettori endotensina

I bloccanti dei recettori dell’angiotensina risultano efficaci nel trattamento della steatoepatite non alcolica associata all’ipertensione (NASH). Attualmente la steatosi epatica non alcolica (NAFLD) e la NASH rappresentano cause ben riconosciute di epatopatia cronica progressiva che porta a cirrosi e carcinoma epatocellulare. La NAFLD/NASH ? vista come la componente epatica della sindrome metabolica, mediata dall’insulinoresistenza. I bloccanti dei recettori dell’angiotensina rappresentano agenti terapeutici multivalenti per la NASH, in quanto trattano non soltanto l’ipertensione ma anche il meccanismo dell’insulinoresistenza e del danno epatico tramite il sistema renina-angiotensina come vie di derivazione preminenti del danno epatico. Gli effetti di alcuni di questi farmaci inoltre non si devono solo al blocco recettoriale dell’angiotensina-1, ma anche ad azioni specifiche di modulazione del PPAR-gamma. (World J Gastroenterol 2009; 15: 942-54)

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Steatosi, insulinoresistenza e differenze etniche

Sono state riscontrate differenze etniche in campo di steatosi epatica non alcolica ed insulinoresistenza. La steatosi epatica non alcolica ? costituita da uno spettro di patologie definite dall’accumulo anomalo di trigliceridi nel fegato, ed era gi? stato precedentemente dimostrato che i soggetti ispanici ne sono meno a rischio rispetto agli afroamericani, nonostante il fatto che in questi due gruppi etnici la prevalenza dei fattori di rischio sia simile. Il grasso intraperitoneale ? connesso al contenuto epatico in trigliceridi, a prescindere dall’etnia: la diversa prevalenza della steatosi epatica fra i vari gruppi ? associata a differenze simili nell’adiposit? viscerale. La risposta metabolica all’obesit? ed all’insulinoresistenza negli afroamericani differisce da quella negli ispanici e nei caucasici: gli afroamericani risultano pi? resistenti sia all’accumulo di trigliceridi nel compartimento viscerale addominale che all’ipertrigliceridemia associata all’insulinoresistenza. Molti degli sconvolgimenti nel metabolismo lipidico tipicamente associati all’insulinoresistenza non sono presenti negli afroamericani: una possibile spiegazione potrebbe consistere nel fatto che il fenotipo insulinoresistente sia una funzione dell’organo che contribuisce primariamente alla riduzione della sensibilit? all’insulina, oppure una funzione dell’abilit? di espandere il tessuto adiposo sottocutaneo in risposta alla sovranutrizione. Sono necessari comunque ulteriori studi per stabilire quali siano le basi del paradosso dell’insulinoresistenza. (Hepatology. 2009; 49: 791-801)

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Morbo di Crohn: nuovi fattori genici

E’ stata dimostrata la presenza di una significativa associazione fra il morbo di Crohn e la cascata IL-12/IL-23, che implica pi? di 20 geni. Molti geni associati alla suscettibilit? alla malattia sono contenuti in questo novero, ma non dimostrano una significativit? a livello genomico nei singoli studi associativi. Il vantaggio di identificare ampi pool genici di questo genere risiede nelle applicazioni pratiche: non sempre i geni pi? strettamente associati alle malattie costituiscono dei buoni target terapeutici, ma a volte altri geni meno strettamente associati sono pi? adatti, e non vengono individuati negli studi genomici. Quanto riscontrato ha significative implicazioni per la biologia del morbo di Crohn, e potrebbe ampliarne le opzioni terapeutiche. (Am J Hum Genet online 2009, pubblicato il 26/2)

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