L’esposizione in utero agli antidepressivi Ssri (inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina) può aumentare moderatamente il rischio di disordini dello spettro autistico, in particolare se l’assunzione del farmaco da parte della madre avviene durante il primo trimestre di gravidanza. Così sostengono gli autori di una ricerca condotta in California e coordinata da Lisa A. Croen, della Divisione di ricerca della Kaiser permanente northern California di Oakland. Lo studio di popolazione, caso-controllo, ha coinvolto 298 bambini con disordini dello spettro autistico (e le loro madri) e 1.507 bambini sani (con relative madri) scelti a caso come gruppo di controllo. L’esposizione prenatale agli inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina è stata rilevata in 20 bambini “casi” (6,7%) e in 50 bambini “controlli” (3,3%). Nei modelli aggiustati di regressione logistica, si è scoperto che il rischio di disordini dello spettro artistico raddoppiava nel caso in cui la madre avesse assunto Ssri durante l’anno precedente il parto (odds ratio aggiustata: 2,2), in particolare durante il primo trimestre della gravidanza (odds ratio: 3,8). Nessun aumento del rischio è stato riscontrato in donne che, nonostante una storia di trattamento di malattie mentale, non avevano assunto Ssri nel corso della gravidanza. Il potenziale di rischio di tale esposizione va bilanciato con il rischio per la madre e il feto derivante da un mancato trattamento di un disordine mentale nella gestante. Arch Gen Psychiatry, 2011 July 4. [Epub ahead of print]
Mancano dati per spendere una parola definitiva sull’uso di antibiotici per prevenire il parto prematuro o altri esiti avversi di gravidanza nelle donne con pesante colonizzazione vaginale con ureaplasma, batterio sospettato di avere un ruolo anche nella rottura prematura delle membrane. In ogni caso, il ricorso agli antibiotici potrebbe essere utile in una fase precoce di gravidanza per eradicare agenti potenzialmente in causa. Lo sostiene una revisione Cochrane realizzata da Camille H. Raynes-Greenow, dell’Università di Sydney, e collaboratori. Dopo ricerca sul Cochrane pregnancy and childbirth group’s trials register di trial randomizzati controllati di confronto tra qualsiasi regime antibiotico contro placebo o nessun trattamento in donne gravide con presenza di ureaplasma rilevata in vagina, si è passati al giudizio di tre autori indipendenti sull’eleggibiltà e la qualità degli studi. Alla fine è stato incluso nella revisione un solo trial, relativo a 1.071 donne. Di queste, 644, tra la 22a e la 32a settimana di gestazione, erano state assegnate in modo randomizzato a uno fra tre gruppi di trattamento antibiotico: eritromicina estolato (n=174), eritromicina stearato (n=224), clindamicina idrocloride (n=246) o placebo (n=427). In questo studio non erano riportati dati relativi alle nascite pretermine. È stata calcolata soltanto l’incidenza del basso peso alla nascita (inferiore ai 2.500 grammi) nel caso dell’eritromicina (dato combinato, n=398) rispetto al placebo, senza rilevare differenze statisticamente significative tra i due gruppi (risk ratio, Rr: 0,70). D’altra parte, non si sono riscontrate differenze statisticamente significative in qualsiasi gruppo sotto il profilo degli effetti collaterali, tali da indurre alla sospensione del trattamento (Rr: 1,25). Insomma, la questione è ancora da chiarire. Cochrane Database Syst Rev, 2011; 9:CD003767
iversi studi pilota italiani sono stati avviati per definire la fattibilit? di programmi di prevenzione delle lesioni provocate dal Papilloma virus umano e del tumore della cervice uterina, basati su un test di rischio, Hpv test al posto del tradizionale Pap test, che viene quindi utilizzato come triage citologico. In occasione di Eurogin 2011 sono stati presentati i primi dati raccolti in Italia
Il test Hpv che rileva la presenza di Dna virale, indipendentemente dalle lesioni della cervice uterina, pu? rappresentare un’opportunit? per la prevenzione delle lesioni provocate dal Papilloma virus umano (Hpv). Ma l’ipotesi di introdurre il test in uno screening organizzato necessita di una valutazione dell’impatto organizzativo sulla logistica, le procedure, il software gestionale e i sistemi informativi. L’edizione 2011 del congresso Eurogin, che si ? tenuto recentemente a Lisbona, interamente dedicato alle patologie e neoplasie associate all’Hpv, ? stata l’occasione per fare il punto sugli studi di fattibilit? in corso in alcune regioni italiane. Infatti, la disponibilit? del test, in quanto strumento di valutazione del rischio, ha spinto il Ministero della Salute e alcune Regioni ad avviare, negli anni, diversi programmi pilota di screening primario con test Hpv.
Questo approccio ? attualmente in atto in varie regioni e province italiane con progetti che hanno la finalit? di valutare l’introduzione nel territorio del test Hpv, come esame di screening primario al posto del tradizionale Pap test, che viene quindi utilizzato come triage citologico per la definizione della categoria diagnostica della lesione. I dati raccolti sul campo in questi progetti saranno determinanti per informare e guidare una revisione e integrazione delle linee guida ministeriali in materia di screening del carcinoma della cervice uterina. Nel corso dell’Eurogin, sono stati presentati quelli raccolti da uno studio di fattibilit? in corso da gennaio 2010, in Abruzzo, che sta coinvolgendo circa 50.000 donne l’anno. ?Le valutazioni in corso riguardano tutti gli aspetti del processo di screening e prevedono anche la comparazione dei costi legati all’utilizzo del test Hpv rispetto alla metodologia impiegata precedentemente? spiega Vincenzo Maccallini, dirigente medico responsabile dell’Unit? organizzativa aziendale di screening, Dipartimento di Prevenzione, della Asl n. 1 Abruzzo. Secondo l’esperto, da una prima analisi di confronto dei dati rilevati dal precedente progetto regionale (Progetto Arint 2006-2009) che usava sistemi di lettura computer-assistita del Pap test, ? emerso ?un dato molto significativo di miglioramento della qualit? diagnostica con il nuovo modello di screening che utilizza l’Hpv test come primo livello?. E ha aggiunto: ?Nel triennio 2006-2009 sono state diagnosticate con positivit? citologica il 4,7% delle donne che avevano eseguito il Pap test, la stessa identica percentuale di positivit? citologica riscontrata anche con il nuovo metodo di screening. La differenza fra le categorie diagnostiche ha evidenziato un netto miglioramento nell’inquadramento della patologia riscontrata, eliminando quasi completamente le categorie diagnostiche dubbie a favore di quelle o negative o positive, sia di basso sia di alto grado, con enorme vantaggio per le donne che con il nuovo sistema non sono state pi? sottoposte a indagini ripetute, che comportavano stress emotivo ed ansiet? per patologie magari inesistenti o di basso grado che non necessitavano di trattamento terapeutico?. E, per quanto riguarda gli aspetti economici, secondo l’esperto, ?l’esecuzione del Test Hpv con Pap test di triage incide sicuramente sui costi, riducendoli del 30% per donna screenata. Si deve sottolineare che il costo medio delle donne che effettuano ulteriori accertamenti si abbatte notevolmente, essendo solo del 37,2% di quanto si ha con il Pap test?. E conclude: ? I risultati della letteratura pi? recente ci permettono di ritenere che le strategie di screening che includono un test Hpv Dna Hr ogni 6 anni siano sicure ed efficaci, determinando un’ulteriore e rilevante riduzione dei costi e un modello costo/beneficio decisamente pi? favorevole?.
Nelle prime fasi della gravidanza e in presenza di flora vaginale anomala, il trattamento con clindamicina riduce il rischio di parto pretermine spontaneo prima della 37ma settimana e di aborto tardivo. ? questo il risultato di una revisione sistematica e metanalisi coordinata da Ronald F. Lamont, del dipartimento di Ostetricia e ginecologia presso la Wayne State University di Detroit, negli Stati Uniti. La ricerca ha esaminato la letteratura scientifica alla ricerca di trial controllati e randomizzati che avessero come oggetto l’impiego precoce di clindamicina, in donne con flora vaginale anomala prima della ventiduesima settimana di gravidanza. I cinque trial rispondenti alle caratteristiche richieste avevano coinvolto 2.346 donne, nelle quali si era notato che la somministrazione del farmaco entro la ventiduesima settimana si associa a una riduzione significativa di parto spontaneo pretermine prima della trentasettesima settimana e di aborto tardivo. Non si erano invece registrate differenze di rilievo in relazione al rischio di parto pretermine prima della trentatreesima settimana, peso alla nascita basso o molto basso, ricovero presso unit? di cura neonatale intensiva, nascita di feto morto, infezione peri-partum ed eventi avversi.
Con alcune semplici regole si potrebbe migliorare il management delle donne sottoposte a ecografia per la presenza di masse a livello degli annessi; solo nei casi in cui, grazie a queste regole, non si dovesse arrivare a risultati conclusivi, l’esame diagnostico pi? accurato resta la valutazione soggettiva dell’imaging ecografico da parte di un esperto. Queste le conclusioni dello studio prospettico di validazione dello Iota group, con la firma come primo autore di Dirk Timmerman, degli Ospedali universitari di Lovanio (Belgio), e la partecipazione di cinque ginecologi italiani. L’indagine, condotta in 19 centri di otto Paesi, ha coinvolto 1.938 donne con masse pelviche, sottoposte a ecografia in base a un protocollo standardizzato di ricerca. Sono stati identificati tumori benigni (72%), primari invasivi (19,2%), maligni borderline (5,7%) e metastatici nell’ovaio (3%). Le regole utilizzate per la valutazione comprendevano cinque segni ecografici (tra cui forma, dimensione, solidit?, e risultati dell’esame color-Doppler) per predire i tumori maligni (caratteristiche M) e cinque segni per predire i tumori benigni (caratteristiche B). La massa era classificata come maligna in presenza di una o pi? caratteristiche M in assenza di quelle B. Al contrario se erano presenti una o pi? caratteristiche B in assenza di quelle M la massa era classificata come benigna. In assenza di caratteristiche M e B i risultati erano considerati non conclusivi. Il protocollo ha portato a risultati conclusivi nel 77% delle masse con una sensibilit? del 92% e una specificit? del 96%. La corrispondente valutazione soggettiva ? apparsa caratterizzata da una sensibilit? del 91% e da una specificit? del 96%. Riservare la valutazione soggettiva solo alle masse per cui le regole non fornivano risultati conclusivi garantiva una sensibilit? del 91% e una specificit? del 93% rispetto al 90% e al 93% registrato quando la valutazione soggettiva era praticata in tutte le masse.
Nelle gestanti con sospetto ritardo di crescita intrauterina a termine, l’induzione al parto o l’attesa con monitoraggio non presentano differenze significative per quanto riguarda eventuali eventi avversi. Le pazienti pi? propense a un decorso naturale possono optare per l’attesa con un monitoraggio intenso materno-fetale. Tuttavia ? pi? indicato ricorrere all’induzione per prevenire morbilit? neonatali e mortalit? perinatale. Sono questi i risultati dello studio Digitat (Disproportionate intrauterine growth intervention trial at term), coordinato da Kim E. Boers del Centro universitario medico di Leida (Olanda). Alla ricerca, condotta in 52 strutture ospedaliere dei Paesi bassi tra il 2004 e il 2008, hanno partecipato donne portatrici di una singola gravidanza con oltre 36 settimane di gestazione e sospetto ritardo di crescita intrauterino. In totale, 321 donne sono state indirizzate all’induzione e 329 all’attesa. Nel primo gruppo, la gravidanza si ? conclusa dieci giorni prima e i neonati pesavano 130 grammi meno rispetto a quelli nati da donne destinate all’attesa. In 17 neonati (5,3%) del gruppo “induzione” e in 20 (6,1%) del gruppo “attesa” si sono registrati alcuni outcome avversi neonatali (morte prima della dimissione ospedaliera, punteggio di Apgar dopo 5 minuti inferiore a 7, pH dell’arteria ombelicale inferiore a 7,05, trasferimento presso un’unit? di cura intensiva). Il parto cesareo si ? reso necessario in 45 gestanti (14%) del gruppo “induzione” e in 45 (13,7%) di quello “attesa”.
Il rischio di sviluppare endometriosi sembra ridursi durante l’impiego dei contraccettivi orali (Oc). Non si pu? escludere che il dato – emerso al termine di una metanalisi e una revisione sistematica eseguite da Luigi Fedele, Paolo Vercellini e collaboratori della Clinica ostetrica e ginecologica I, istituto Luigi Mangiagalli, universit? Statale di Milano – sia espressione della decisione di ritardare la valutazione chirurgica per la temporanea soppressione della sintomatologia dolorosa. Ostacoli di natura metodologica possono spiegare il riscontro di un trend suggestivo di un aumento del rischio di endometriosi dopo l’interruzione di Oc, un dato che richiede per? ulteriori chiarimenti. Allo stato attuale, concludono gli autori, l’ipotesi di raccomandare gli Oc per la prevenzione primaria dell’endometriosi non appare sufficientemente provata dai dati scientifici. I ricercatori milanesi hanno selezionato 18 studi (sei trasversali, sette caso-controllo e cinque di coorte) su un totale di 708 lavori potenzialmente rilevanti. La combinazione dei risultati derivati da tutti i report inclusi nelle analisi, indipendentemente dal disegno dello studio, ha evidenziato un rischio relativo comune pari a 0,63 per le utilizzatrici correnti di Oc, a 1,21 per le donne che avevano fatto uso di Oc in passato e a 1,19 per le donne che non hanno mai assunto Oc. Inconvenienti di carattere metodologico, come le incertezze sulla relazione temporale tra l’esposizione e l’outcome negli studi trasversali e la selezione subottimale dei controlli negli studi caso-controllo, pongono limiti alla qualit? delle evidenze attualmente disponibili.
Mantiene una tendenza in crescita in Italia il ricorso alla procreazione medicalmente assistita (Pma). I nuovi dati relativi al 2008, presentati in Parlamento nell’ambito della Relazione annuale sulla legge 40, mostrano un progressivo aumento dei parametri relativi alla fecondazione assistita, a cominciare dal numero di bambini nati vivi che per la prima volta supera la soglia dei diecimila (10.212 contro 9.137 del 2007). I cicli iniziati, riguardanti le tecniche a fresco di II e III livello (Fivet 18,9%, Icsi 81,1%), sono ulteriormente aumentati rispetto all’anno precedente (44.065 vs 40.026) con 8.847 gravidanze ottenute contro 7.854 del 2007. Si sono contati nel 2008 315 cicli iniziati per 100mila donne in et? feconda (15-41 anni) rispetto a 287 e 265 rispettivamente nel 2006 e 2007. ? in aumento anche l’et? media delle donne che si sottopongono a Pma (36,1 anni), un dato superiore alla media europea: 33,8 anni nel 2005. Nel nostro paese ben il 26,9% dei cicli ? stato effettuato nel 2008 su donne con et? superiore a 40 anni (25,3% nel 2007). Le complicanze associate a iperstimolazione ovarica sono contenute (0,45% dei cicli) e risultano pi? basse rispetto al dato medio europeo. Pi? vicini alla performance media europea i dati relativi ai parti gemellari (21%) mentre i parti trigemini si attestano sul 2,6%, un valore superiore alla media europea. Si nota tuttavia una notevole variabilit? tra i vari centri: il 67,3% dei centri presenta percentuali di parti trigemini variabili dallo 0 al 2,5%, mentre nel 23,9% dei centri italiani i valori variano dal 2,6% al 10%. La percentuale di nati vivi con malformazione si attesta sull’1,1% con le tecniche di II e III livello rispetto allo 0,4% osservato con le tecniche di I livello e allo 0,6% della popolazione generale. La tecnica Icsi ? gravata da un maggior rischio di malformazioni fetali (1,2%). Sempre nel 2008 la percentuale di aborti spontanei ha raggiunto il 20,8%, con lo 0,3% di morti intrauterine e l’1,9% di gravidanze ectopiche. Notevole la migrazione sanitaria delle pazienti che si sono sottoposte alle tecniche a fresco (23%). Emilia Romagna, Lombardia e Toscana attraggono circa il 50% delle pazienti che decidono di scegliere una regione diversa da quella di residenza per sottoporsi a PMA.
Le donne che concepiscono entro sei mesi dopo un primo aborto mostrano, durante la seconda gravidanza, i migliori outcome riproduttivi e i pi? bassi tassi di complicazioni. Sohinee Bhattacharya del Dugald Baird centre for research on women’s health, Aberdeen maternity hospital, e collaboratori, giungono a questa conclusione dopo aver analizzato retrospettivamente i dati relativi a 30.937 donne incorse in un aborto durante la loro prima gravidanza e che successivamente hanno intrapreso una seconda gravidanza. Rispetto alle donne con un intervallo intergravidico di 6-12 mesi, quelle che hanno nuovamente concepito entro sei mesi sono risultate meno esposte al rischio di un altro aborto (odds ratio aggiustata 0,66), interruzione della gravidanza (0,43) o gravidanza ectopica (0,48). Le donne con un intervallo intergravidico superiore a 24 mesi avevano invece maggiori probabilit? di incorrere in una gravidanza ectopica (1,97) o interruzione della gravidanza (2,40). Rispetto alle donne con un intervallo di 6-12 mesi, le pazienti che hanno nuovamente concepito entro sei mesi con nascita di nato vivo avevano meno probabilit? di incorrere in parto cesareo (0,90), parto pretermine (0,89) o di avere un figlio con basso peso alla nascita (0,84); risultava per? pi? probabile in questi casi il ricorso all’induzione del travaglio (1,08).
Emerge una correlazione tra indice di massa corporea, comportamento sessuale ed eventi avversi nell’ambito della sessualit?: le donne obese sono meno propense a rivolgersi ai servizi sanitari per la contraccezione e incorrono in un maggior numero di gravidanze non pianificate. In generale, in queste donne la prevenzione della gravidanza non desiderata costituisce un problema importante per la salute riproduttiva. Gli operatori sanitari, pertanto, devono essere consapevoli delle diverse sensibilit? legate al peso corporeo e al genere quando erogano i servizi per la tutela della salute sessuale. Non ha dubbi il team guidato da Nathalie Bajos, del Centro per la ricerca in epidemiologia e salute della popolazione (Cesp) e dell’Istituto nazionale di sanit? e ricerca medica (Inserm) di Kremlin Bicetre (Francia), nel trarre le conclusioni della propria indagine: gli autori hanno seguito 5.535 donne e 4.635 uomini, appartenenti a diverse categorie (Bmi normale, sovrappeso, obesit?). Le probabilit? che le donne obese riferissero la presenza di un partner sessuale nei 12 mesi precedenti lo studio sono risultate inferiori a quelle registrate nelle normopeso. Gli uomini obesi, invece, hanno asserito con minore frequenza di aver avuto pi? di un partner sessuale rispetto ai normopeso ed era pi? probabile che lamentassero disfunzioni erettili. Una disfunzione sessuale non sembra invece associarsi al Bmi tra le donne ma quelle obese di et? inferiore a 30 anni sono apparse meno propense a rivolgersi ai servizi sanitari per la contraccezione o a usare contraccettivi orali: il risultato ? che avevano maggiori probabilit? di riferire una gravidanza non desiderata.