Nei pazienti molto anziani il trattamento antipertensivo produce benefici

Non ? chiaro se il trattamento dei pazienti con ipertensione di et? uguale o superiore agli 80 anni, produca benefici.
E? stato ipotizzato che la terapia antipertensiva possa ridurre il rischio di ictus, nonostante un possibile incremento del rischio di mortalit?

Un totale di 3845 pazienti molto anziani ( 80 anni o pi? ) con pressione sistolica di 160 mmHg o valore superiore, sono stati assegnati in modo casuale a ricevere 1.5 mg del diuretico Indapamide ( Natrilix ) nella formulazione a rilascio prolungato, oppure placebo.
L?Ace inibitore Perindopril ( Coversyl ), 2 o 4 mg, oppure il placebo, ? stato aggiunto se necessario per raggiungere la pressione sanguigna target di 150/80 mmHg.

L?endpoint primario era rappresentato dall?ictus fatale e non-fatale.

Hanno preso parte alla studio 1933 pazienti nel gruppo di trattamento e 1912 pazienti nel gruppo placebo; l?et? media era di 83.6 anni; la pressione media da seduti era di 173/90.8 mmHg, l?11.8% aveva una storia di malattia cardiovascolare.

Il periodo osservazionale mediano ? stato di 1.8 anni.

A 2 anni, la pressione sanguigna media da seduti era pi? bassa di 15/6.1 mmHg nel gruppo trattamento attivo, rispetto al gruppo placebo.

All?analisi intention-to-treat, il trattamento attivo era associato ad una riduzione del 30% nella percentuale di ictus fatale e non-fatale ( p=0.06 ), ad una riduzione del 39% nella percentuale di morte per ictus ( p= 0.05 ), ad una riduzione del 21% nella percentuale di morte per qualsiasi causa ( p= 0.02 ), ad una riduzione del 23% dell?incidenza di mortalit? per cause cardiovascolari ( p=0.06 ), e ad una riduzione del 64% nell?incidenza di insufficienza cardiaca ( p<0.001 ). Nel gruppo di trattamento attivo ? stato riscontrato un numero pi? basso di gravi eventi avversi ( 358 versus 448; p=0.001 ). I risultati hanno fornito evidenza che il trattamento antipertensivo con Indapamide ( rilascio prolungato) con o senza Perindopril, nelle persone di 80 anni, o pi? anziane, produce benefici. Beckett NS et al, N Engl J Med 2008; Published

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Il cerotto fa meno danni

Il ruolo degli estrogeni nell’aumentare il rischio di trombosi ? ipotizzato da tempo. Il primo caso risale al 1961, quando venne ipotizzato in un’infermiera colpita da embolia polmonare dopo aver cominciato una terapia ormonale contenente mestranolo per curare l’endometriosi. Poi prove successive hanno confermato che gli estrogeni aumentano il rischio di trombosi sia nelle donne che usano la pillola anticoncezionale sia in quelle che usano la terapia ormonale sostitutiva (TOS) per allontanare la menopausa. E lo fanno in modo considerevole. Il Committee on Safety of Medicines stima che circa 10 donne di 50-59 anni su 1000 che non usano una terapia ormonale sostitutiva sviluppino una tromboembolia venosa nei cinque anni successivi, una cifra che aumenta di un altro caso nelle donne trattate con TOS solo estrogenica e di circa quattro casi su 1000 in quelle in TOS combinata. Un dato che diventa ancora pi? rilevante nella fascia di et? successiva, tra i 60 e i 69 anni. La trombosi venosa, del resto, diventa pi? probabile con l’avanzare dell’et?. Ora uno studio appena pubblicato dal British Medical Journal conferma il ruolo della TOS, con una novit? legata alla modalit? di somministrazione. La premessa degli autori ? che la TOS sia un prezioso alleato per la qualit? della vita di donne con sintomi di ipoestrogenismo. Ma oltre ai benefici riconosciuti esistono anche dei rischi altrettanto riconosciuti. E secondo molti studi superano i benefici. Due su tutti: tumore al seno e tromboembolismo venoso. Ma anche, dicono studi pi? recenti, malattia cardiaca e ictus. Nonostante le evidenze sul ruolo degli estrogeni orali nel favorire la formazione di coaguli nel sangue, si ? dovuto attendere il 1996 perch? il problema venisse preso sul serio in considerazione. E ormai il rischio per le donne in et? postmenopausale ? innegabile. Poi si pu? sottilizzare sul tipo di TOS utilizzata o, ed ? quello che ha fatto il gruppo di ricerca francese, sulla via di somministrazione. E i risultati sono stati sorprendenti. Gli autori hanno effettuato una review di otto studi osservazionali e di nove trial randomizzati tramite Medline, soffermandosi su quelli in cui venissero riportati episodi di tromboembolismo venoso. Ebbene l’assunzione degli ormoni in forma di pillola dava dalle due alle tre volte di pi? la possibilit? di sviluppare trombi, in particolare nel primo anno di trattamento o in donne in sovrappeso o anche con altri fattori di rischio coesistenti. E questo si sapeva. Il dato nuovo ? stato che la somministrazione via cerotto non comportava un aumento del rischio. Come ? possibile? L’ipotesi sta nelle differenti modalit? di assorbimento. Se, infatti, la pillola deve essere metabolizzata a livello epatico e pu? in questo modo sbilanciare l’equilibrio esistente tra il sistema coagulante e quello anticoagulante, il problema col cerotto si evita. Il risultato, commentano gli autori, ha importanti ricadute cliniche. Ridurre il rischio di tromboembolismo venoso con il ricorso al cerotto migliora il profilo rischio/beneficio della TOS, in particolare per le pazienti pi? a rischio. Ulteriori trial sulla questione permetteranno di definire in modo pi? preciso il profilo di sicurezza.

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Cure su misura per il seno

Test genetici per cure contro il cancro del seno su misura, efficaci e meno tossiche possibili. E’ questa la nuova frontiera per terapie anti-cancro personalizzate, su cui ha posto l’accento Luca Gianni, direttore del Centro di oncologia medica dell’Istituto nazionale tumori di Milano, al congresso della Societ? americana di oncologia clinica (Asco) a Chicago. Negli Stati Uniti sono due i test approvati, che per? non si effettuano in Italia dove non sono rimborsati dal Servizio sanitario nazionale. Analizzando il tessuto prelevato durante l’intervento, ? possibile predire il rischio di metastasi o di un nuovo tumore, risparmiando alle pazienti la chemioterapia quando non serve perch? le probabilit? di riammalarsi sono basse, meno del 5%. “Oncotype” – spiega Gianni – analizza 21 geni e viene ormai prescritto negli Usa a ben 25 mila pazienti l’anno con tumore del seno Her2 positivo, per quantificare il rischio di recidiva nell’arco di 10 anni e identificare i casi che non hanno bisogno della chemio, perch? ? sufficiente la terapia ormonale. I tessuti vengono esaminati in un laboratorio specializzato a San Francisco, dove vengono inviati dopo l’intervento per asportare il tumore”. L’altro test, battezzato “Mammaprint” e sviluppato in Europa, “caratterizza l’espressione di 70 geni, anche in questo caso per misurare il rischio di recidiva”. Se negli States, dopo il via libera della Food and Drug Administration, sono sempre pi? diffusi nella pratica clinica, con i costi coperti dalle assicurazioni sanitarie, “entrambi i test – afferma l’oncologo -non sono stati approvati dalle autorit? europee. Dunque, il nostro sistema sanitario non li rimborsa”. I campioni di tessuto tumorale possono essere inviati nei laboratori d’Oltreoceano per l’analisi, ma i costi sona carico delle pazienti: circa 2.500-3.000 dollari per il test.

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Helicobacter pylori: dannoso o utile per la salute?

La presenza del batterio Helicobacter pylori nel tratto intestinale protegge dallo sviluppo di metaplasia intestinale o esofago di Barrett, dal nome del medico che l’ha identificata. Lo dimostrerebbe uno studio pubblicato sull’ultimo numero della rivista Gut.

Questo studio ? in linea con altre pubblicazioni che hanno dimostrato come la presenza del batterio nello stomaco svolga una funzione importante, in particolare nei primi anni di et?, nella regolazione del sistema immunitario. L?infezione da Helicobacter pylori, infatti, ? una delle infezioni croniche pi? diffuse nell?uomo; ? presente in almeno il 50 per cento della popolazione mondiale e si contrae prevalentemente nell?infanzia.

Tuttavia ? in atto una campagna per l’eradicazione di questo batterio da quando ? stato dimostrato che esso ? causa di alcuni tumori dello stomaco. L?Helicobacter pylori, infatti, ? balzato agli onori della cronaca nel 2005 quando ha fruttato il Nobel per la medicina a Barry Marshall e J. Robin Warren. I due ricercatori hanno dimostrato che le infiammazioni dello stomaco, l?ulcera e nei casi pi? gravi alcuni tumori dello stomaco sono provocati da un?infezione dovuta a questo batterio.
Il ruolo, dunque, di questo colonizzatore del nostro intestino sembrerebbe ambiguo; esistono per? delle linee guida che consigliano l’eradicazione di questo batterio in specifiche classi di pazienti. Probabilmente queste linee guida dovranno essere integrate alla luce delle nuove conoscenze.

Bibliografia. Corley DA et al. Helicobacter pylori infection and the risk of Barrett?s oesophagus: a community-based study. Gut 2008.

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Riduzione del rischio di fratture nei pazienti con tumore: Denosumab sembra pi?

L?ASCO ( American Society of Clinical Oncology ) ha rilasciato i dati di uno studio, in cui Denosumab ? risultato pi? efficace dell?Acido Zoledronico ( Zometa ) nel prevenire le fratture nei pazienti oncologici.

Denosumab ha ridotto il rischio di fratture del 64% dei pazienti, contro il 37% di coloro che avevano assunto Acido Zoledronico.

I pazienti con elevati livelli di N-telopeptide urinario sono ad alto rischio di eventi correlati allo scheletro, progressione della malattia e morte.

Allo studio hanno preso parte 111 pazienti con metastasi ossee o con mieloma, in trattamento per 8 settimane o pi? con bifosfonati per via endovenosa ( Acido Zoledronico ).

I pi? comuni eventi avversi riportati con Denosumab sono stati: dolore osseo, nausea, anemia, costipazione ed astenia.
Nel corso dello studio ? stato riscontrato un grave evento di ipofosfatemia, probabilmente correlato a Denosumab.

Denosumab ? un anticorpo monoclonale umano che ha come bersaglio RANK, una proteina che agisce come segnale primario nella promozione della rimozione ossea.
Sono in corso studi per valutare l?efficacia di Denosumab nell?osteoporosi, nelle metastasi ossee, nell?artrite reumatoide e nel mieloma multiplo.

Fonte: Amgen, 2008

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Le statine riducono la pressione sistolica e diastolica

Alcuni studi hanno mostrato una riduzione della pressione sanguigna con il trattamento a base di statine, particolarmente nelle persone con ipertensione. Tuttavia l?evidenza emersa da studi clinici randomizzati ? limitata.

Ricercatori dell?University of California ? San Diego a La Jolla negli Stati Uniti, hanno eseguito uno studio controllato con placebo, randomizzato, in doppio cieco, con allocazione alla Simvastatina ( Zocor ) 20 mg, Pravastatina ( Selectin ) 40 mg, oppure placebo, per 6 mesi.

Allo studio hanno preso parte 973 uomini e donne senza malattia cardiovascolare nota o diabete mellito, con livelli di colesterolo LDL compresi tra 115 e 190 mg/dl.

All?analisi intenting-to-treat, le statine hanno ridotto in modo modesto, seppur significativo, la pressione sanguigna, rispetto al placebo ( 2.2 mmHg per la pressione sistolica e 2.4 mmHg per la diastolica ) ( p<0.001 ). Le riduzioni della pressione sanguigna variavano da 2.4 a 2.8 mmHg sia per la sistolica che per la distolica con Simvastatina e Pravastatina nei soggetti con follow-up completato; tali riduzioni non sono state influenzate dall?eventuale assunzione di farmaci antipertensivi. Lo studio ha mostrato una riduzione nei valori pressori sistolici e diastolici sia con le statine idrofile che con quelle lipofile.
Questi modesti effetti possono contribuire a ridurre il rischio di ictus e di eventi cardiovascolari.

Golomb BA et al, Arch Intern Med 2008; 168: 721-727

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Significato del colesterolo HDL (C-HDL) in soggetti con colesterolo LDL (C-LDL)

Gli studi di popolazione hanno dimostrato che il C-HDL rappresenta un fattore indipendente inversamente correlato con il rischio cardiovascolare (CV). Gi? i risultati del Framingham Heart Study evidenziavano l’associazione fra aumentato rischio cardiovascolare e i livelli di C-HDL subottimali.
Lo studio ha avuto anche il merito di valutare la relazione fra C-HDL e C-LDL e rischio CV evidenziando che 1) per ogni livello di C-LDL, il rischio relativo di eventi aumenta notevolmente con il ridursi delle concentrazioni di C-HDL e 2) in presenza di concentrazioni elevate di C-LDL il rischio cardiovascolare risulta maggiormente evidente in presenza di C-HDL basso. E’ oggi ? ormai acquisito che un incremento sierico di 1 mg/dl di C-HDL comporta una riduzione del rischio del 2-3% di sviluppare nel tempo una malattia coronarica, dato che va a rinforzare la riduzione del rischio CV pari all’1% per 1 mg di riduzione del C-LDL riportato dalle linee guida.
I grandi trial di intervento con statine hanno dimostrato come l’abbassamento dei livelli di C-LDL fosse correlato, nel gruppo di trattamento, ad una riduzione significativa degli eventi cardiovascolari maggiori che ? stata di circa il 30%. Alcuni aspetti del problema rimangono aperti e sono determinati dal fatto che vi sono scarse informazioni disponibili sul rischio di eventi cardiovascolari in soggetti trattati aggressivamente con statine e che non ? chiaro se, in pazienti con livelli a target di C-LDL, i livelli di C-HDL mantengano lo stesso significato prognostico.
Il New England Journal of Medicine ha pubblicato un’analisi post-hoc dei ricercatori del Treating New Targets (TNT) trial realizzata su 9770 pazienti di et? compresa tra i 35 e 75 anni, con evidenza clinica di malattia coronarica, di cui 2661 soggetti avevano raggiunto un livello di C- LDL =70 mg/dl. La popolazione dopo tre mesi di trattamento con statina ? stata stratificata per quintili di C-HDL che, all’analisi multivariata, hanno mostrato di possedere un forte valore predittivo per eventi CV. I risultati hanno evidenziato nei soggetti del quintile pi? alto (C-HDL >55 mg/dl) un rischio minore di eventi CV rispetto a quelli del quintile pi? basso (C-HDL <38 mg/dl) con una correlazione che era indipendente dai livelli di C-LDL e dalle dosi di statina somministrate.
L’evidenza scientifica che i livelli di C-HDL abbiano un’importanza prognostica anche in soggetti che sono stati trattatati con alte dosi di statina, indipendentemente dal fatto che questo abbiano raggiunto dei valori di C-LDL molto bassi, pone all’attenzione del clinico l’importanza di considerare, nella valutazione del paziente con coronaropatia, tutti i fattori di rischio CV noti. Questi dati confermano l’importanza che avranno in futuro i risultati degli studi sui trattamenti in grado di modificare i livelli di C-HDL e del loro beneficio addizionale nella terapia dei pazienti a rischio di eventi CV.
Bibliografia
Barter P et al. for the Treating to New Targets Investigators. HDL cholesterol, very low levels of LDL cholesterol, and cardiovascular events. N Engl J Med 2007; 357:1301-10.

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Osteoporosi postmenopausale: il Raloxifene meno efficace della terapia ormonale sostitutiva a basso dosaggio

E? stato condotto uno studio con lo scopo di comparare gli effetti del Raloxifene ( Evista ) e della terapia ormonale sostitutiva ( HRT ) a basso dosaggio sulla densit? minerale ossea, ed i marcatori del turnover osseo nel trattamento dell?osteoporosi postmenopausale.

Lo studio ha coinvolto 42 donne con osteoporosi nelle donne in postmenopausa, che sono state assegnate in maniera casuale a ricevere Raloxifene 60 mg o Estradiolo 1mg / Noretisterone 0,5 mg al giorno, per 1 anno.

Tutte le donne hanno assunto Calcio 600 mg/die e Vitamina D 400 UI/die.

La densit? minerale ossea ed il turnover osseo sono stati misurati al basale e a 1 anno.

Dopo 12 mesi di trattamento, sono stati osservati aumenti statisticamente significativi della densit? minerale ossea in entrambi i gruppi in tutti i siti ( tutti p<0.05 ). Per la colonna lombare, l?aumento nella densit? minerale ossea ? stato del 2,3% per il Raloxifene e del 4,6% per la terapia ormonale sostitutiva ( TOS ) a basso dosaggio, con un aumento significativamente maggiore per il gruppo TOS a basso dosaggio ( p<0.001 e p<0.02; rispettivamente ). Bench? l?aumento nella densit? minerale ossea a livello dell?anca sia stato significativo sia per Raloxifene ( 2,1% ) sia per TOS a basso dosaggio ( 3,2% ), rispetto al basale, le differenze tra i due regimi non hanno raggiunto la significativit? statistica. La diminuzione nel siero del frammento del telopeptide C-terminale del collagene di tipo I e dei livelli di osteocalcina nel gruppo TOS a basso dosaggio ( -53% e ?47%, rispettivamente ) ? risultata significativamente superiore rispetto a quella osservata per il gruppo Raloxifene ( -23% e ?27%; rispettivamente; entrambi con p<0.01 ). In conclusione, nelle donne in menopausa con osteoporosi, il trattamento per 1 anno con basse dosi di terapia ormonale sostitutiva produce aumenti significativamente maggiori nella densit? minerale ossea della colonna lombare e di tutto il corpo, ed una pi? marcata diminuzione del turnover osseo rispetto al trattamento con Raloxifene. Dane C et al, Gynecol Endocrinol 2007; 23: 398-403

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Artrite reumatoide: aumentata incidenza di psoriasi tra i pazienti trattati con inibitori del TNF-alfa

Il trattamento con gli inibitori del TNF-alfa migliora l?outcome ( esito ) nell?artrite reumatoide grave, ed ? efficace nella psoriasi e nell?artrite psoriasica.
Tuttavia, recenti case-report hanno descritto l?insorgenza di psoriasi come evento avverso nei pazienti con artrite reumatoide, trattati con gli antagonisti del TNF-alfa.

Ricercatori dell?University of Manchester in Gran Bretagna, hanno esaminato se l?incidenza di psoriasi fosse pi? alta nei pazienti con artrite reumatoide trattati con terapia anti-TNF-alfa, rispetto a quelli trattati con i tradizionali DMARD ( farmaci antireumatici modificanti la malattia ).

Sono stati studiati 9.826 pazienti trattati con gli antagonisti del TNF-alfa e 2.880 pazienti trattati con i DMARD.
Tutti i pazienti avevano riportato insorgenza di psoriasi come evento avverso.

Sono stati individuati 25 casi di psoriasi nei pazienti trattati con gli inibitori del TNF-alfa, e nessuno nella coorte di confronto, nel periodo 2001-2007.

L?incidenza di psoriasi tra i pazienti che avevano ricevuto la terapia anti TNF-alfa ? risultata elevata: 1.04 per 1000 pazienti ?anno, contro una percentuale di 0 per 1000 pazienti-anno nel gruppo DMARD.

I pazienti trattati con Adalimumab ( Humira ) hanno presentato una pi? alta incidenza di psoriasi, rispetto al gruppo Etanercept ( Enbrel ) [ IRR=4.6] e al gruppo Infliximab [ IRR=3.5 ].

In conclusione, l?incidenza di psoriasi ? risultata aumentata nei pazienti trattati con antagonisti del TNF-alfa.

Harrison MJ et al, Ann Rheum Dis 2008; Epub ahead of print

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L’adipe non ferma le vampate

L’adiposit? addominale ? correlata all’insorgenza di vampate di calore nelle donne in menopausa e le ipotesi plausibili per spiegare tale legame sono due e contrastanti tra loro. Una sostiene che l’aromatizzazione degli androgeni a estrogeni nel grasso corporeo sia associata alla diminuzione delle vampate di calore. Per contro, i modelli di termoregolazione suggeriscono che l’adiposit? corporea sia associata a aumento del sintomo menopausale. Lo Study of Women’s Health Across the Nation Heart Study (2001-2003) ha esaminato l’associazione in 461 donne tra i 45 e i 58 anni, sulla base dei sintomi e della misurazione dell’adiposit? corporea. Gli autori hanno riscontrato evidenze che supportano il modello di termoregolazione: l’incremento dell’adiposit? addominale, e soprattutto di quella sottocutanea, ? associato a un aumento del rischio di vampate di calore e non ha quindi un effetto protettivo come precedentemente si credeva. Un aspetto importante nella gestione delle pazienti in menopausa che presentano anche sovrappeso e obesit?. (Menopause. 2008; 15: 429-34)

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