I metalli pesanti sono inquinanti ambientali dalle note proprietà tossiche. L’esposizione umana a questi elementi può avvenire per motivazioni occupazionali e ambientali o attraverso l’assunzione di cibo. Molti studi epidemiologici hanno collegato l’esposizione precoce ad arsenico, cadmio, cromo e mercurio a problemi di salute nei bambini di natura neurologica, evolutiva ed endocrina tra gli altri. In questo studio sono state condotte delle analisi sulle placente per verificare la presenza di determinati metalli mediante assorbimento atomico.
137 placente su 680 sono state selezionate casualmente e analizzate per verificare la presenza di arsenico, cadmio, cromo, mercurio, manganese e piombo. Nessuna delle madri aveva avuto un’esposizione occupazionale ai metalli pesanti.
Il cadmio e il manganese sono stati individuati in tutte le placente. Il cromo, il piombo e il mercurio sono stati individuati rispettivamente nel 98,5%, 35,0% e 30,7% dei campioni di placenta.
L’arsenico non è stato analizzato nell’intera popolazione di studio poiché in 50 di queste placente non sono state individuate concentrazioni rilevabili.
Le concentrazioni placentari dei metalli pesanti analizzati rientravano dell’intervallo medio-basso dei report europei.
Conclusione
“È possibile utilizzare la placenta per valutare l’esposizione intrauterina ai metalli pesanti. Sono necessarie ricerche ulteriori volte ad analizzare i fattori che contribuiscono all’esposizione intrauterina ai metalli pesanti e l’impatto del trasferimento placentare di questi composti tossici sullo sviluppo del bambino”.
Amaya E, Gil F, Freire C, et al. Placental concentrations of heavy metals in a mother-child cohort. Environ Res. 2013;120:63-70.
Raccomandazioni per la diagnosi precoce e terapie efficaci
La cefalea rappresenta la malattia neurologica a più elevata prevalenza al mondo. L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha inserito la cefalea tra le 20 patologie più invalidanti per le donne di età compresa tra i 15 e 45 anni. La cefalea rappresenta il motivo del 5% delle visite dal medico di medicina generale (MMG) e il 30% delle visite specialistiche neurologiche. In Italia circa 7 milioni di persone soffrono di emicrania e i suoi costi sanitari diretti e indiretti sono stimabili in circa 6 miliardi di euro all’anno. Questo scenario impone una corretta e precoce individuazione dei soggetti e un trattamento appropriato. L’aggiornamento dello specialista che si confronta con questa patologia, e la formazione del MMG nel riconoscere e trattare precocemente l’emicrania sono tra gli obiettivi principali delle linee guida AGE.NA.S. per la prevenzione e terapia della cefalea nell’adulto1 .
Una corretta diagnosi di cefalea si basa su un’anamnesi accurata che deve considerare: frequenza e durata degli attacchi, tipo di dolore, Intensità della cefalea, presenza e tipologia dei sintomi associati al dolore o che possono precederlo, descrizione del comportamento nel corso dell’attacco, disabilità durante gli attacchi, impatto sulla qualità vita. Le raccomandazioni in fase diagnostica orientano il medico a:
promuovere l’uso dei diari e questionari di valutazione per supportare la diagnosi e la gestione della cefalea
non ricorrere alle neuro‐immagini nei pazienti con una chiara storia di emicrania, senza sintomi di allarme che orientano verso una cefalea secondaria e con un esame neurologico normale
eseguire una TC cerebrale immediatamente e comunque entro 12 ore dall’esordio dei sintomi in pazienti con cefalea a rombo di tuono
eseguire una rachicentesi nei pazienti con cefalea a rombo di tuono con TC cerebrale normale
escludere la cefalea associata ad uso eccessivo di analgesici, in particolare in tutti i pazienti con cefalea cronica quotidiana (cefalea da più di 15 gg /mese da più di 3 mesi)
considerare il potenziale rischio di cefalea da uso eccessivo di analgesici in particolare in pazienti con emicrania, cefalea ad alta frequenza e nei soggetti che utilizzano associazioni analgesiche, ergot, combinazioni analgesiche contenenti oppioidi e triptani.
L’obiettivo primario di una terapia sintomatica dell’attacco acuto è ridurre l’intensità del dolore e dei sintomi associati e, se possibile, bloccare completamente l’attacco in tempi brevi in modo di permettere al paziente la ripresa delle attività quotidiane. Esistono varie classi di farmaci da utilizzare: FANS/ analgesici e prodotti di combinazione (farmaci aspecifici); ergotaminici e triptani (farmaci specifici per l’emicrania).
Ancora oggi i FANS sono tra i farmaci più utilizzati nell’attacco acuto. Acido acetilsalicilico, ibuprofene e paracetamolo sono farmaci economici, molto diffusi come prodotti da banco, e rappresentano una buona opzione per un trattamento di prima linea. Però non va dimenticato che i FANS hanno effetti collaterali anche seri e controindicazioni che ne limitano l’uso in particolari sottogruppi di pazienti. L’acido acetilsalicilico e l’ibuprofene devono essere usati con cautela in pazienti con asma e ulcera peptica. Alcuni soggetti rispondono all’indometacina (25‐100 mg per os o per via rettale; 50 mg i.m.) oppure alla nimesulide, ma per l’uso di questi farmaci non esiste una chiara evidenza da studi controllati, così come un’associazione comunemente utilizzata di indometacina con caffeina e proclorperazina. L’efficacia dell’acido acetilsalicilico 1000 mg è simile a sumatriptan 50 mg o 100 mg nel trattamento acuto dell’emicrania, ma con effetti collaterali significativamente più elevati del placebo, la sua associazione con metoclopramide 10 mg ne aumenta l’efficacia su nausea e vomito. Alcuni FANS sono in commercio in associazione con caffeina, butalbital o codeina. Queste associazioni sono sconsigliate per il rischio di maggiori effetti collaterali e per l’alta probabilità di indurre assuefazione e/o cronicizzazione della cefalea.
Gli ergotaminici sono ormai una classe di farmaci in disuso e soppiantata dai triptani. Non sono raccomandati, anche se sono farmaci ad azione antiemicranica specifica, per gli effetti collaterali e i potenziali rischi collegati al loro uso cronico (ergotismo).
Non è raccomandato l’impiego degli analgesici oppioidi di routine per il trattamento dei pazienti con emicrania acuta a causa del potenziale sviluppo di una cefalea da abuso. Il Tramadolo 100 mg ev, è risultato efficace per il sollievo dal dolore ad 1 h, ma non per ottenere l’assenza totale di dolore ad 1 h nel trattamento acuto dell’attacco, e non sono state identificate evidenze sull’efficacia degli oppioidi, così come sono assenti per COX2 inibitori, corticosteroidi e indometacina.
I triptani, agonisti dei recettori per la serotonina di tipo 5‐HT1B/D, rappresentano la principale classe di farmaci specifici per l’emicrania in grado di interferire con i meccanismi fisiopatogenetici dell’attacco. Sono raccomandati per il trattamento acuto di emicrania di tutti gradi di severità, se in precedenza gli attacchi non sono stati controllati con semplici analgesici. Sono caratterizzati dal più favorevole profilo rischio/beneficio tra i farmaci sintomatici disponibili. Nella classe dei triptani orali sono preferibili per il trattamento acuto dell’emicrania: Almotriptan 12.5 mg, Eletriptan 40‐80 mg, Frovatriptan 2,5 mg e Rizatriptan 10 mg e Sumatriptan 100 mg. In caso di mancata risposta ad un triptano si dovrebbe passare ad un triptano alternativo. Evidenze scientifiche recenti dimostrano che la somministrazione precoce dei triptani può incrementare la loro efficacia, in particolare rizatriptan 10 mg migliora gli esiti dell’assenza di dolore a 2 h e l’assenza di dolore sostenuta nel tempo, nelle 24 h e almotriptan 12,5 mg, in trattamento precoce, migliora gli esiti primari e secondari rispetto al trattamento tradizionale.
La terapia di profilassi, o preventiva, va riservata ai pazienti con forme emicraniche più importanti, ossia con più di 4 attacchi di emicrania/mese. In questi pazienti è necessario un follow up continuo e regolare con l’utilizzo del diario delle cefalee per una valutazione appropriata di efficacia. I farmaci per la profilassi con evidenze disponibili appartengono a diverse classi faramcologiche (beta bloccanti, antiepilettici, calcio antagonisti e antidepressivi). Tra i betabloccanti il propranololo 40‐120 mg al giorno è indicato in terapia di prima linea per la profilassi dell’emicrania. In alternativa possono esser utilizzati timololo, atenolo, nadololo e metoprololo. Il nebivololo 5 mg è da considerare come alternativa al metoprololo. Tra gli antiepilettici il topiramato è raccomandato a dosi di 75‐200mg/die per la riduzione della frequenza e della severità dell’emicrania in pazienti con emicrania episodica e cronica, così come il valproato di sodio alla dose di 800‐1500 mg al giorno. Per l’impiego degli antiepilettici in donne in età riproduttiva occorre fornire alla paziente un’informazione dettagliata sugli effetti potenzialmente teratogenici di questi farmaci. Tra gli antidepressivi è raccomandata l’amitriptilina alla dose di 25‐150 mg/die.
L’impiego clinico di uno strumento di valutazione chiamato MIDAS (Migraine Disability Assessment) orienta sull’efficacia delle strategie di trattamento. Nella terapia sintomatica dell’emicrania spesso viene impiegato un approccio di “terapia a gradini” (stepped care ) per arrivare, per tentativi successivi, ma con ritardo alla terapia più efficace. In queste linee guida viene proposta una strategia di “terapia stratificata” (stratified care ) che si basa sulla scelta del trattamento più adatto per ogni singolo paziente fin dalla prima visita, e che considera il livello di gravità della cefalea. I pazienti con sintomi più lievi e con grado di disabilità basso ricevono terapie meno potenti, mentre a quelli con attacchi gravi e importanti disabilità vengono prescritti i triptani. Il principale vantaggio della stratified care rispetto alla stepped care è quello di poter trattare in modo adeguato i pazienti con forme emicraniche più gravi, evitando “ritardi” dovuti alla necessità di visite ripetute che aumentano il rischio di perdere il paziente in follow up, alimentando la delusione e un atteggiamento di rinuncia, che porterà il paziente a non ritornare dal medico e indurlo a ”catastrofici” atteggiamenti autoprescrittivi.
Context Increased concentrations of inflammatory biomarkers predict antidepressant nonresponse, and inflammatory cytokines can sabotage and circumvent the mechanisms of action of conventional antidepressants.
Objectives To determine whether inhibition of the inflammatory cytokine tumor necrosis factor (TNF) reduces depressive symptoms in patients with treatment‑resistant depression and whether an increase in baseline plasma inflammatory biomarkers, including high‑sensitivity C‑reactive protein (hs‑CRP), TNF, and its soluble receptors, predicts treatment response.
Setting Outpatient infusion center at Emory University in Atlanta, Georgia.
Participants A total of 60 medically stable outpatients with major depression who were either on a consistent antidepressant regimen (n = 37) or medication‑free (n = 23) for 4 weeks or more and who were moderately resistant to treatment as determined by the Massachusetts General Hospital Staging method.
Interventions Three infusions of the TNF antagonist infliximab (5 mg/kg) (n = 30) or placebo (n = 30) at baseline and weeks 2 and 6 of a 12‑week trial.
Main Outcome Measures The 17‑item Hamilton Scale for Depression (HAM‑D) scores.
Results No overall difference in change of HAM‑D scores between treatment groups across time was found. However, there was a significant interaction between treatment, time, and log baseline hs‑CRP concentration (P = .01), with change in HAM‑D scores (baseline to week 12) favoring infliximab‑treated patients at a baseline hs‑CRP concentration greater than 5 mg/L and favoring placebo‑treated patients at a baseline hs‑CRP concentration of 5 mg/L or less. Exploratory analyses focusing on patients with a baseline hs‑CRP concentration greater than 5 mg/L revealed a treatment response (≥50% reduction in HAM‑D score at any point during treatment) of 62% (8 of 13 patients) in infliximab‑treated patients vs 33% (3 of 9 patients) in placebo‑treated patients (P = .19). Baseline concentrations of TNF and its soluble receptors were significantly higher in infliximab‑treated responders vs nonresponders (P < .05), and infliximab‑treated responders exhibited significantly greater decreases in hs‑CRP from baseline to week 12 compared with placebo‑treated responders (P < .01). Dropouts and adverse events were limited and did not differ between groups.
Conclusions This proof‑of‑concept study suggests that TNF antagonism does not have generalized efficacy in treatment‑resistant depression but may improve depressive symptoms in patients with high baseline inflammatory biomarkers.
Scoperto nel cervello un nuovo centro della paura, diverso rispetto all’amigdala, l’area cerebrale a forma di mandorla nota per registrare i timori legati a pericoli esterni. Secondo gli studiosi dell’University of Iowa, dunque, altre regioni – come la corteccia insulare – possono percepire i segnali di un pericolo interno, che minaccia la stessa vita, scatenando il panico. Lo studio, pubblicato su ‘Nature Neuroscience’ dal team di John Wemmie, è stato condotto attraverso alcuni test condotti su tre donne con danni significativi all’amigdala, fra cui anche la celebre ‘SM’, una paziente di 40 anni ‘ribattezzata’ dagli scienziati la donna senza paura perchè, a causa della malattia di Urbach-Wiethe che le ha lesionato quest’area cerebrale, non prova questa sensazione fin da quando era adolescente.
Quando i ricercatori hanno fatto respirare alle tre pazienti aria ricca di Co2, tutte hanno sperimentato una sensazione di panico e hanno chiesto aiuto, perchè temevano di soffocare. “Questa ricerca ci dice che il panico, o la paura intensa, viene indotto da qualche parte al di fuori dell’amigdala”, dice Wemmie, secondo il quale la ricerca potrebbe far luce sul perchè alcune persone soffrono di attacchi di panico. Ebbene, quando i ricercatori hanno ripetuto il test su 12 soggetti sani, solo tre di loro hanno provato sensazioni di panico analoghe a quelle delle ‘donne senza paura’. Questo ha suggerito ai neurologi che, se l’amigdala funziona bene, normalmente può inibire il panico dovuto a stimoli interni.
La Francia ha deciso di mettere al bando la Diane 35, nata come anti-acne ma usata anche come contraccettivo, perché aumenta il rischio di trombosi e embolie polmonari. Secondo le autorità sanitarie transalpine i rischi per le donne che la prendono sono troppo elevati, quindi ne saranno vietate la vendita e la prescrizione, e tutti gli stock verranno ritirati dalle farmacie. Il divieto sarà effettivo tra tre mesi e riguarderà anche i generici equivalenti.
Il farmaco è in vendita anche in Italia ma può essere prescritta solo come pillola anti-acne. Ma per il momento nel nostro Paese non dovrebbero essere prese decisioni riguardo la pillola. La questione sara’ infatti trattata nella prossima riunione del Comitato Prac (l’organismo dell’Agenzia Europea che si occupa di valutare i rischi e di raccogliere dati sulla farmacovigilanza) a Londra dal 4 al 7 febbraio e solo dopo eventualmente l’Agenzia Europea sui farmaci esprimera’ una posizione attesa dalle Agenzie nazionali del farmaco come l’Aifa in Italia. Nel nostro paese il farmaco puo’ essere dispensato con una ricetta medica non ripetibile per curare forme di acne, in particolare quelle accompagnate da stati infiammatori. Il rischio di trombosi venosa con il medicinale e’ descritto anche nel foglio illustrativo e nel riassunto delle caratteristiche del prodotto destinato al medico. Nelle indicazioni sul foglietto viene anche precisato che la pillola non puo’ essere utilizzata a soli fini contraccettivi, come impropriamente avvenuto in alcuni paesi.
Decessi misteriori. E’ la morte sospetta di quattro pazienti ad aver spinto l’Agenzia di Sicurezza del Farmaco (ANSM) a prendere la decisione categorica di bloccare il farmco in Francia. Il quotidiano Le Figaro, che ha avuto accesso a documenti medici, ha citato sette casi mortali, ma almeno altre 125 trombosi non mortali sono di sicuro legate all’uso della pillola incriminata dal 1987 ad oggi, da quando cioè è entrata in commercio. La pillola messa oggi all’indice era nata come farmaco per combattere l’acne severa, ma la presenza di ormoni (un mix di estrogeni e un progestativo, il ciproterone) ne ha esteso l’uso a contraccettivo. Sono ancora 315 mila (dati del 2012) le donne in Francia che la prendono dunque anche per evitare gravidanze indesiderate. Il direttore generale dell’ANSM, Dominique Maraninchi, ha consigliato loro di non interrompere il trattamento in modo brusco, ma di consultare il medico al più presto. Hanno tre mesi di tempo, dopo di che tutte le confezioni di Diane 35 e dei suoi generici spariranno dalle farmacie. Di fronte alla polemica il colosso tedesco Bayer, che produce la Diane, si è detto ”sorpreso”, e ha sottolineato in una nota che la medicina in questione ”non è mai stata oggetto di ritiro di autorizzazione di messa in vendita per motivi di sicurezza” nei Paesi in cui è commercializzato. Ma sulla responsabilità di Bayer resta ancora un punto interrogativo. E’ da notare infatti che una legge, votata in Francia nel 2011 (la legge Bertrand), obbliga i laboratori a ricordare ai medici le indicazioni per cui il farmaco prodotto deve essere prescritto. E sono tenuti a farlo ogni qualvolta vengono registrate irregolarità. La Diane non è però l’unica pillola sotto i riflettori in questi giorni: sono tutte i contraccettivi orali di 3/a e 4/a generazione ad essere messe sotto accusa per via di un rischio elevato di formazione di trombi, pericolosi grumi di sangue che ostruiscono le vene, anche se l’Ema ci va cauta. L’Europa ha aperto un’indagine, e in l’ansia Francia comincia a diventare palpabile. Ogni giorno consultori familiari e studi specialistici sono sommersi da chiamate allarmate. Non c’è tregua al numero verde attivato poche settimane fa. Angoscia e sospetti hanno già spinto molte donne ad interrompere il trattamento, secondo la Federazione farmaceutica francese.
Il parere di Garattini. Sara’ l’Ema, agenzia europea dei farmaci, a dovere ora dire la sua sulla pillola anti-acne bloccata in Francia. Il farmaco, presente anche in Italia e’ utilizzabile solo come anti acne e non come anticoncezionale, conferma l’azienda Bayer che la produce. L’uso improprio ha riguardato altri paesi come la Francia. Silvio Garattini ricorda che il rischio era noto, l’Ema aveva gia’ aperto un’indagine in proposito. ”Le pillole di terza e quarta generazione sono sotto accusa per i problemi di trombosi per i progestinici che fanno parte integrante della capacita’ di bloccare l’ovulazione. Il rischio comunque, che la si usi per uno scopo o per un altro, e’ sempre quello”. La decisione della Francia sara’ quindi ora sottoposta ad arbitrato da parte dell’agenzia europea ma gli stati membri potranno comunque eventualmente decidere di prendere una misura di cautela. ”Anche se la questione era sul tappeto da diverso tempo – ha concluso Garattini – purtroppo non si fanno studi comparativi che per capire meglio i rischi”
Il tribunale di Palermo ha condannato il ministero della Salute a risarcire il danno di 1.438.365 euro nei confronti degli eredi di una donna agrigentina che in seguito a trasfusione, praticatale nel 1988 in un ospedale di Firenze, contrasse il virus dell’epatite C, successivamente evolutosi in tumore al fegato che ne ha determinato la morte a soli 50 anni. Le due figlie della donna, rappresentate dai legali Angelo Farruggia ed Annalisa Russello del foro di Agrigento, hanno intrapreso una causa civile contro il ministero della Salute, ritenuto responsabile di non avere adeguatamente assolto il compito di vigilare sulla raccolta e sulla distribuzione del sangue e degli emoderivati da destinare alle trasfusioni.
Il ministero, assistito dall’Avvocatura dello Stato, si e’ difeso – secondo quanto viene reso noto dagli avvocati Farruggia e Russello – sostenendo che in capo al ministero non poteva riconoscersi alcuna colpa, visto che all’epoca della trasfusione il virus dell’Epatite C non era stato ancora classificato. Il tribunale di Palermo, accogliendo la diversa tesi sostenuta dai legali dei danneggiati, ha, invece, condannato il ministero della Salute. Farruggia, nel commentare la sentenza ed esprimere la sua soddisfazione per il risultato conseguito, evidenzia che ”in Italia si contano almeno 1.600.000 contagiati da HCV e il costo in termini di vite umane per le cirrosi da HBV o HCV e le sue complicanze, e’ di circa 12 mila persone all’anno, con un incidenza della infezione molto piu’ elevata al Sud. Si tratta, dunque, – conclude – di un’epidemia silenziosa che spesso, dopo avere inflitto gravi afflizioni in vita, conduce alla morte”.
La radicolopatia, condizione clinica caratterizzata da compressione dei nervi nella spina dorsale, si manifesta con dolore, intorpidimento, formicoli, debolezza lungo il decorso del nervo. L’attuale scelta terapeutica deve basarsi su una meditata valutazione interdisciplinare (ortopedica, neurochirurgica, neurofisiologica, fisiatrica) dei dati clinici e strumentali, non tralasciando considerazioni sullo stato generale del paziente e la sua età.
Uno studio multicentrico ha valutato l’efficacia dell’iniezione epidurale caudale di steroidi o soluzione salina nella forma cronica della patologia a breve ( 6 settimane ), intermedio ( 12 settimane ) e lungo termine ( 52 settimane ). Sono stati esclusi dallo studio i soggetti con sindrome della cauda equina, grave paresi, dolore grave, precedente iniezione o chirurgia vertebrale, deformità, gravidanza, allattamento terapia con Warfarin, o con farmaci anti-infiammatori non steroidei, indice di massa corporea maggiore di 30, condizioni psichiatriche non ben controllate. I risultati hanno mostrato un miglioramento non significativo, in tutti i gruppi di trattamento per cui le iniezioni epidurali caudali di steroidi o di soluzione salina non sono raccomandate nella radicolopatia cronica.
Bibliografia: Iversen T, Solberg TK, Romner B, Wilsgaard T, Twisk J, Anke A, Nygaard O, Hasvold T, Ingebrigtsen T. Effect of caudal epidural steroid or saline injection in chronic lumbar radiculopathy: multicentre, blinded, randomised controlled trial. BMJ. 2011 Sep 13;343:d5278. doi: 10.1136/bmj.d5278
Agisce con un’azione di ‘bersaglio’ sul virus dell’epatite C (hcv), raddoppiando e addirittura triplicando la percentuale di guarigione dei pazienti: un passo avanti di grandissima importanza poiché, rilevano gli esperti, in questo modo si apre la strada all’eradicazione definitiva del virus. Il nuovo farmaco antivirale di ultima generazione (boceprevir) arriverà presto in Italia, dopo aver ottenuto il via libera da parte dell’Agenzia italiano del farmaco (Aifa). L’annuncio arriva dal 63/mo Congresso mondiale dell’Associazione americana per lo studio delle malattie del fegato (Aasld) in corso a Boston.
Si attende ora l’istituzione dei registri di monitoraggio per l’utilizzo del farmaco da parte dell’Aifa, prevista a breve. Una nuova ‘arma’, con un vantaggio ulteriore: la potenza antivirale di boceprevir riesce a negativizzare il virus anche nelle donne in menopausa, nelle quali è maggiore l’accelerazione della patologia e più rapida l’insorgenza di una resistenza irreversibile alla terapia standard. L’epatite C è la più insidiosa malattia del fegato, che nel mondo colpisce due persone ogni ora, circa 2 mln in Italia, e rappresenta la prima causa di decesso per malattie infettive trasmissibili. Con questo farmaco, l’obiettivo di eradicare completamente un virus temibile, commentano gli esperti, appare oggi più vicino. Analogamente a quello dell’epatite b, il virus dell’epatite c può cronicizzare nel 60-70% dei casi e chi diventa portatore cronico è esposto a gravi danni epatici, come sottolinea Antonio Gasbarrini, gastroenterologo dell’università Cattolica di Roma e presidente della Fondazione italiana ricerca in epatologia (Fire): ”Solo il 15-20% dei pazienti che vengono in contatto col virus – spiega – riescono a guarire dall’infezione spontaneamente, mentre la maggioranza evolve in un’infezione cronica. In questo caso l’organismo può convivere per molti anni col virus, che però in maniera subdola nel 20-30% dei casi può arrivare a causare una malattia del fegato severa, come la cirrosi e il cancro”. Risultato efficace contro l’hcv di genotipo 1, il più temibile, perché rappresenta il 60% delle infezioni globali ed è più refrattario ai trattamenti, boceprevir, aggiunto alla terapia standard con interferone e ribavirina, riesce a raddoppiare e addirittura triplicare la percentuale di guarigione dei pazienti, arrivando al 67% nei soggetti che avevano ricevuto il farmaco per 44 settimane. ”Questo farmaco agisce diversamente dalle terapie standard che potenziano il sistema immunitario e ad esso delegano la risposta antivirale – chiarisce Savino Bruno, direttore della struttura complessa di medicina interna a indirizzo epatologico presso l’ospedale Fatebenefratelli di Milano -. Boceprevir, infatti, aggredisce il virus hcv con un’azione diretta, inattivando le proteasi, gli enzimi che consentono all’hcv, una volta entrato nell’organismo, di replicarsi all’interno delle cellule epatiche. il blocco enzimatico inibisce la replicazione virale e l’eradicazione, una volta raggiunta, è definitiva”. Grande, dati i risultati di efficacia, l’attesa dei pazienti italiani: ”Ci auguriamo – sottolinea Ivan Gardini, presidente dell’associazione di pazienti Epac onlus – che l’Aifa comprenda l’urgenza della situazione: è in gioco la vita di molti malati alle prese con una malattia in stadio avanzato. Auspichiamo inoltre che in futuro si prenda in considerazione la possibilità di rendere più flessibile il processo autorizzativo dei farmaci istituendo corsie di rapida approvazione per i pazienti a rischio più elevato come i trapiantati e i cirrotici”.
– I NUMERI DELLA MALATTIA: circa il 3% della popolazione italiana è entrata in contatto con l’HCV. Nel nostro Paese i portatori cronici del virus sono circa 1,6-2 milioni, di cui 330.000 con cirrosi epatica: oltre 20.000 persone muoiono ogni anno per malattie croniche del fegato (due persone ogni ora) e, nel 65% dei casi, l’Epatite C risulta causa unica o concausa dei danni epatici. A livello regionale il Sud è il più colpito: in Campania, Puglia e Calabria, per esempio, nella popolazione ultra settantenne la prevalenza dell’HCV supera il 20%. Nel mondo si stima che siano circa 180 milioni le persone che soffrono di Epatite C cronica, di cui intorno ai 4 milioni in Europa e altrettanti negli Stati Uniti: più del 3% della popolazione globale. I decessi causati nel mondo da complicanze epatiche correlate all’HCV sono più di 350.000 ogni anno.
– PASSI AVANTI: negli ultimi 20 anni l’incidenza è notevolmente diminuita nei Paesi occidentali, per una maggior sicurezza nelle trasfusioni di sangue e per il miglioramento delle condizioni sanitarie. Tuttavia, in Europa l’uso di droghe per via endovenosa è diventato il principale fattore di rischio per la trasmissione di HCV.
– COME SI MANIFESTA: la fase acuta dell’infezione del virus dell’Epatite C decorre quasi sempre in modo asintomatico, tanto che la patologia è definita un silent killer. La cronicizzazione dell’Epatite, che accade in più del 70% dei pazienti, si manifesta con transaminasi elevate o fluttuanti e con l’insorgenza della fibrosi. La gran parte degli infetti ha un’età superiore a cinquant’anni e ciò testimonia un’endemia di tale infezione tra la popolazione del nostro Paese negli anni 50-70. Purtroppo, tra i pazienti portatori dell’infezione il 20-30% è evoluto in una grave epatopatia e si stima che in Italia i cirrotici da virus C siano oltre 150.000 e siano circa 4-5.000 i casi di tumore del fegato conseguenti all’infezione cronica da tale virus. Oltre il 60% dei 1.100 trapianti di fegato che si effettuano in Italia ogni anno sono causati dal virus C.
Piano antiepatiti. Sara’ pronto entro dicembre il Piano nazionale per la lotta alle epatiti, infezioni che in Italia fanno registrare complessivamente oltre due milioni di casi. Il Piano, al quale ha lavorato una commissione nominata dal ministero della Salute, verra’ presentato con tutta probabilita’ il 29 novembre, in occasione della celebrazione italiana della Giornata mondiale delle epatiti. Nel 2010, l’Organizzazione mondiale della sanita’(Oms) ha dichiarato le epatiti da virus A e B un ”problema sanitario mondiale”, richiedendo a tutti gli Stati di dotarsi di Piani specifici per il contrasto di tali patologie
Un panel internazionale di 52 esperti rappresentanti quattro prestigiose Società scientifiche (American College of Cardiology – ACC, American Heart Association – AHA, European Society of Cardiology – ESC e World Heart Federation – WHF), la Third Global MI Task Force, ha realizzato la terza definizione universale di infarto del miocardio, che – tra le altre cose – stabilisce i livelli di troponina cardiaca necessari per diagnosticare un MI in diversi scenari. Il documento di consenso è stato presentato al Congresso ESC di agosto 2012 e successivamente pubblicato in contemporanea da cinque riviste: Circulation, Journal of the American College of Cardiology, European Heart Journal, Global Heart e Nature Reviews Cardiology.
Era il 2000 quando la First Global MI Task Force presentò una nuova definizione di MI, che affermava che qualsiasi necrosi in un quadro di ischemia del miocardio doveva essere definita un infarto del miocardio. Un approccio che la Second Global MI Task Force elaborando la definizione universale di infarto del miocardio nel 2007 (documento adottato anche dall’Organizzazione Mondiale della Sanità) ha cercato di raffinare enfatizzando le differenti condizioni che possono condurre a un MI.
Lo sviluppo di procedure di laboratorio sempre più avanzate per l’individuazione di biomarker della necrosi miocardiaca ha reso però necessaria un’ulteriore revisione del documento, soprattutto per quanto riguarda i pazienti in condizioni critiche e/o dopo interventi cardiochirurgici o procedure di rivascolarizzazione percutanea coronarica. L’ECG rimane uno strumento essenziale del lavoro di diagnosi, ma è insufficiente. Le tecniche di imaging possono essere preziose perché capaci di individuare anormalità delle pareti o perdita di vitalità miocardica. Ma la parte del leone è riservata ai biomarker: “La Third Global MI Task Force enfatizza il ruolo della troponina (cTn) come il marker di riferimento per la diagnosi di MI”, spiega Gregg C Fonarow dell’Ahmanson-UCLA Cardiomyopathy Center di Los Angeles. “Il criterio-chiave per diagnosticare un infarto acuto del miocardio rimane l’evidenza di necrosi miocardica in un quadro clinico coerente con una ischemia miocardia acuta. Deve esserci come minimo un valore di troponina cardiaca oltre il 99esimo percentile rispetto al normale”.
Un MI è definito quindi secondo il panel di esperti da valori specifici di cTn e almeno 1 dei seguenti 5 criteri diagnostici:
sintomi di ischemia
recenti o presumibilmente recenti cambiamenti in segmento ST e onda T o blocco di branca sinistro (LBBB)
sviluppo di onde Q patologiche
evidenze di anormalità delle pareti o perdita di vitalità miocardica
identificazione di trombi intracoronarici.
▼ Thygesen K, Alpert JS, Jaffe AS et al on behalf of the Joint ESC/ACCF/AHA/WHF Task Force for the Universal Definition of Myocardial Infarction. Third universal definition of myocardial infarction. Eur Heart J 2012; doi:10.1093/eurheartj/ehs184
La vaccinazione effettuata a scopo profilattico o terapeutico al fine di prevenire l’insorgenza di una malattia infettiva è realmente efficace e ben tollerata. In epoca pre-vaccinale si registravano milioni di vittime soprattutto tra i bambini, mentre oggi questi numeri sono ormai scomparsi dallo scenario terapeutico, nonostante nessun vaccino eserciti una protezione del 100% e permanga la necessità di una stretta osservanza delle norme di profilassi. I viaggi internazionali possono costituire rischi seri per la salute dei viaggiatori che, pertanto, necessitano di opportuna informazione circa le modalità per la riduzione di tali rischi che in gran parte riguardano la possibilità di contrarre malattie infettive. Il medico ha il compito e la responsabilità di valutare la vaccinazione da praticare e il dovere professionale di conoscere le precauzioni da adottare per prevenire i rischi. La prevenzione e la scelta di un vaccino poi, devono essere considerate sulla base dello stato immunitario del paziente, del rischio o della predisposizione a contrarre malattie, fattore che può essere correlato all’età, sesso, a situazioni fisiologiche come una concomitante gravidanza o altre patologie in atto.
Vaccinazioni routinarie e vaccinazioni multiple
La vaccinazione è un presidio preventivo fondamentale per la salute del bambino e un indispensabile intervento di Sanità Pubblica, su questa consapevolezza e in questo scenario alcune vaccinazioni sono state rese obbligatorie per legge, mentre altre sono assiduamente consigliate dai medici territoriali. Le vaccinazioni di routine, sono quelle inserite nel programma vaccinale del Paese di origine, tra queste quella anti-difterite, pertosse, epatite B, papilloma virus umano (attualmente in via di progressiva introduzione nel nostro Paese), tetano, morbillo, parotite e rosolia, rappresentano solo i più comuni esempi. Le vaccinazioni consigliate, sono invece quelle raccomandate da parte dei medici con l’obiettivo di creare uno stato immunitario nei confronti di una o più malattie, tra queste rientrano quelle comunemente consigliate prima di intraprendere un viaggio. Il Medico basa la sua eventuale raccomandazione non solo sulla tappa di destinazione, ma anche considerando la stagione dell’anno, l’età, lo stato di salute e le precedenti vaccinazioni. Tra queste sono incluse l’anti-Colera, Epatite A, Encefalite giapponese, meningococcica, rabbia, Tick-borne encephalitis. In alcuni casi è invece previsto un protocollo vaccinale specifico e definito per ottenere il permesso di ingresso nel Paese da visitare, in questo caso si parla di vaccinazioni obbligatorie. Tra queste la vaccinazione anti-febbre gialla o quella anti-meningococcica sono richieste in caso di viaggio che abbia come destinazione l’Arabia Saudita. Altri Paesi inoltre possono richiedere un certificato di vaccinazione anti-Poliomielite per i viaggiatori provenienti da zone dove sono ancora segnalati casi di tale patologia. Non di rado potrebbe esserci la necessità di praticare più vaccini contemporaneamente ciò è possibile perché in molti casi non si presentano problemi di interferenza o interazione con la co-somministrazione; si parla in questi casi di vaccinazioni multiple.
Le vaccinazioni in soggetti affetti da patologie acute
In alcune situazioni o condizioni particolari è opportuno che la somministrazione delle vaccinazioni venga posticipata o del tutto sospesa. L’eventuale decisione dipende dalla severità della patologia acuta in atto, tali accortezze rientrano tra le norme di buona prassi terapeutica da tenere in considerazione quando si procede alla somministrazione di un vaccino. Patologie minori come diarrea, infezioni respiratorie con o senza febbre non rappresentano vere e proprie controindicazioni, tuttavia talvolta possono rappresentare situazioni che compromettono l’efficacia del vaccino e alle quali si può optare provvedendo ad aspettare la scomparsa della patologia concomitante oppure optando per l’inoculazione di un vaccino inattivato. In casi di patologie severe con o senza febbre è necessario invece consigliare un rinvio della vaccinazione in momenti successivi alla avvenuta guarigione. Una co-somministrazione con terapia antimicrobica non rappresenta una controindicazione, tuttavia bisogna tenere in considerazione che: gli antibiotici possono interferire con il vaccino orale anti-tifoideo; gli agenti antivirali (ad es. aciclovir) possono interferire con il vaccino anti-varicella e agenti antivirali anti-influenza (oseltamivir, zanamivir) possono interferire con il vaccino anti-influenza vivo (non in commercio in Italia).
Le vaccinazioni in soggetti affetti da patologie croniche
Malattie ritenute gravi (es. ipo e agammaglobulinemia, infezione da HIV, leucemie e linfomi), patologie croniche (tumori, diabete mellito, infezione da HIV, trattamento con farmaci immunosoppressivi) ed alcune terapie (corticosteoridi ad alte dosi e per periodi superiori ad una settimana o terapia contro i tumori) determinano una importante riduzione del funzionamento del sistema immunitario. Tali condizioni rappresentano una potenziale controindicazione all’uso dei vaccini vivi. L’utilizzo terapeutico di corticosteroidi a basse dosi (< 20 mg/die di prednisone o equivalenti) o per breve durata (< 2 settimane) o per via cutanea, oculare, auricolare, inalatoria o intra-articolare non rappresenta una condizione che determina immunodeficienza così come l’utilizzo di chemioterapici antiblastici nei 3 mesi precedenti (con remissione della neoplasia maligna) o trattati con farmaci bloccanti il TNF da almeno un mese (per indicazioni diverse dalle neoplasie maligne). I pazienti con infezione da HIV e linfociti CD4>500/mmc o con patologie autoimmuni ma non in terapia immunosoppressiva, sottoposti a trapianto di midollo osseo da almeno 2 anni o pazienti con sclerosi multipla senza attuale esacerbazione possono essere ponderati non a rischio. Per i pazienti nei quali esiste una conclamata immunodeficienza severa, in caso di destinazione verso paesi che richiedono la vaccinazione anti-febbre gialla può essere richiesta una specifica esenzione della vaccinazione dovuta alla concomitante patologia in atto. In tali pazienti la prassi terapeutica prevede una vaccinazione annuale anti-influenza. Pazienti con splenectomia anche funzionale dovrebbero anche eseguire vaccinazione contro Haemophilus influenzae tipo b, meningococco e pneumococco. Negli emodializzati va inoltre considerata la necessità di effettuare richiami di vaccinazione contro l’epatite B.
Vaccinazioni e gravidanza: potenziali rischi e benefici
Se è noto che alcune vaccinazioni possono potenzialmente causare danni al feto e alla mamma, di altre non è stata accertata l’eventuale pericolosità. Per tale motivo è meglio riservarle a casi eccezionali, considerandone il rapporto rischio-beneficio. Vaccini uccisi o inattivati, come anti-polio orale possono essere utilizzati in donne gravide, mentre vaccini contro morbillo, rosolia, parotite e varicella, papillomavirus e BCG vanno evitati. Le donne sottoposte a vaccinazione con virus vivi (Morbillo, parotite, rosolia o febbre gialla) devono evitare il concepimento almeno per 1 mese. Vaccini come quello contro l’encefalite giapponese, rabbia, febbre tifoide (vivo), febbre gialla (dopo il sesto mese di gravidanza) possono essere utilizzati solo se realmente necessarie. In linea generale vanno sempre valutati i potenziali rischi ed i benefici derivanti dalla vaccinazione o dalla sua mancata esecuzione caso per caso.
Le vaccinazioni in bambini, adulti e pazienti in età geriatrica
I calendari vaccinali che individuano le età di somministrazione delle diverse vaccinazioni, sono stati studiati affinché l’intervento preventivo risulti semplice ed efficace nell’assicurare la tutela della salute dei bambini. Lievi differenze nei tempi di somministrazione non influenzano la validità e l’efficacia della vaccinazione. In Italia sono obbligatorie per tutti i nuovi nati le vaccinazioni contro difterite, tetano, poliomielite, epatite virale B. Sebbene il ricorso all’obbligo di legge possa apparire anacronistico, va ricordato che lo strumento legale ha garantito il diritto alla salute e alla prevenzione di ogni bambino sul territorio nazionale e ha fornito la copertura finanziaria delle spese di vaccinazione, permettendo un ottimo controllo delle malattie così prevenibili. In caso di viaggio effettuato prima di aver completato le vaccinazioni routinarie in un bambino, i genitori vanno avvertiti del potenziale rischio di contrarre patologie infettive potenzialmente prevenibili con il vaccino. Gli infanti di età inferiore a 6 mesi non possono vaccinarsi contro la encefalite giapponese, mentre in soggetti di età inferiore a 9 mesi dovrebbe essere evitato il vaccino contro la febbre gialla. Nel caso di viaggiatori adolescenti o adulti va invece considerata la maggiore probabilità di acquisire infezioni per via sessuale a causa di comportamenti a rischio ed anche la possibile tendenza ad utilizzare bevande alcoliche o droghe. In tale gruppo va incoraggiata l’educazione alla prevenzione e alla pratica vaccinale richiesta dalla specifica situazione con l’obiettivo di prevenire l’acquisizione di patologie. Il potenziale problema nella vaccinazione del soggetto anziano è invece rappresentato dalla probabile scarsa copertura riguardo i richiami per le vaccinazioni routinarie dell’infanzia, per cui in caso di rischio nei paesi di destinazione vanno ricordate e rivalutate vaccinazioni come difterite, tetano, poliomielite, epatite B. Gli anziani non immuni dovrebbero anche essere vaccinati contro l’epatite A se la destinazione è a rischio. E in linea generale è altamente consigliata una prevenzione vaccinale nei confronti dell’influenza stagionale e va tenuta in considerazione un’eventuale vaccinazione anti-pneumococcica.
Le vaccinazioni in soggetti HIV-positivi
Il virus HIV (Human Immunodeficiency Virus) determina un indebolimento del sistema immunitario dei soggetti interessati, che per tale motivo possono andare incontro ad un riduzione di risposta immunologica ad una vaccinazione e avere per conseguenza una protezione insufficiente. In tali soggetti infatti va valutato, oltre allo specifico rischio di contrarre patologie infettive nella meta del viaggio, anche lo stato immunologico. I potenziali rischi riguardano i vaccini vivi ed in particolare quello anti-morbillo che può essere utilizzato in caso di immunodeficienza moderata se vi è rischio di contrarre la malattia (Linfociti CD4>200/mmc). Il vaccino anti-varicella può essere invece utilizzato in caso di conta di CD4 >200/mmc. Se l’immunodeficienza è severa (Linfociti CD4<200/mmc) non va utilizzato alcun vaccino vivo. Il vaccino contro la febbre gialla costituisce un potenziale rischio in tali soggetti; tuttavia in considerazione di un reale rischio di contrarre l’infezione e se la conta dei linfociti CD4 è >200/mmc il vaccino può essere somministrato. Il vaccino BCG è sempre controindicato nei soggetti HIV positivi indipendentemente dalla presenza di sintomi e dalla conta dei CD4. Ovviamente data la possibilità di immunoricostituzione con terapia antiretrovirale il soggetto va invitato, se possibile, a procrastinare il viaggio quando la situazione immunologica è migliorata.
Le principali reazioni avverse ai vaccini
Nessun vaccino è totalmente scevro da eventi avversi. E’ importante, per gli operatori sanitari conoscere tale possibilità, procedere all’informazione del paziente circa gli eventuali rischi ai quali può essere esposto e essere educati all’importanza di segnalare le eventuali reazioni avverse incorse in modo da scoraggiare l’utilizzo futuro degli stessi vaccini o di vaccini contenenti eccipienti comuni. Le reazioni avverse nella maggior parte dei casi sono di grado lieve-moderato. Esse consistono in reazioni locali (gonfiore, dolore nella sede dell’inoculazione), febbricola, etc. che compaiono in genere uno o due giorni dopo la somministrazione del vaccino. Per il vaccino anti-Morbillo, Parotite e Rosolia, reazioni sistemiche (febbre con o senza rash cutaneo) possono comparire 5-12 giorni dopo la somministrazione del vaccino. Le reazioni severe vanno riportate immediatamente alle autorità nazionali e riferite al paziente o eventualmente ai suoi familiari.
Le vaccinazioni: quando sono controindicate
Nel corso degli anni, sulla base dell’esperienza derivata da milioni di dosi di vaccini di vario tipo, si sono andate delineando delle Linee Guida circa le reali controindicazioni alle vaccinazioni. Alcune di esse sono permanenti, altre temporanee e per questo relative a particolari condizioni che si modificano nel tempo. Situazioni che non costituiscono motivo di impedimento vengono definite false controindicazioni. Le forme più comuni per tutti i vaccini sono rappresentate da una reazione anafilattica (orticaria generalizzata, difficoltà respiratoria, edema della labbra e della gola, ipotensione, shock) con lo stesso vaccino e patologie acute in atto. Per quanto concerne i virus vivi anti-morbillo, parotite, rosolia e varicella, il BCG, l’encefalite giapponese e la febbre gialla la gravidanza e le situazioni di immunodeficienza severa sono potenziali controindicazioni. In caso di allergia severa alle proteine dell’uovo sono controindicati i vaccini anti-febbre gialla e influenza. Il vaccino BCG è controindicato invece, in tutti i soggetti anti-HIV positivi. I vaccini contenenti antigeni della pertosse vanno rinviati in caso di patologie neurologiche come epilessia non controllata o encefalopatia progressiva.
Durata della protezione vaccinale per singolo vaccino e rivaccinazioni
Studi epidemiologici accurati sull’incidenza di una determinata malattia nella popolazione vaccinata possono darci informazioni non equivoche sulla durata dell’immunità conferita dalla vaccinazione; e gli stessi titoli anticorpali indotti dalla vaccinazione offrono soltanto qualche indicazione indiretta, utile nella misura in cui ne siano ben presenti significato e limiti. La durata della protezione nei confronti di malattie come Encefalite Giapponese è tuttora sconosciuta. Gli anticorpi neutralizzanti possono persistere per almeno due anni dopo la vaccinazione. L’Epatite A conferisce un titolo anticorpale che tende a diminuire a distanza di uno o più anni dal termine del ciclo di immunizzazione primari. Non sono raccomandate rivaccinazioni nei soggetti che hanno completato il ciclo con 2 dosi. Una situazione simile si verifica per l’Epatite B non raccomandata nei soggetti che hanno completato il ciclo con 3 somministrazioni. Negli emodializzati invece, possono essere necessarie rivaccinazioni. Per la vaccinazione contro il virus influenzale, la protezione comincia due settimane dopo l’inoculazione e perdura per un periodo di sei-otto mesi, poi tende a declinare. Per questo, e perché possono cambiare i ceppi in circolazione, è necessario ripetere la inoculazione all’inizio di ogni stagione influenzale. La prima somministrazione ai bambini dovrebbe essere seguita da un booster dopo almeno 1 mese dalla prima somministrazione. Per Morbillo, Parotite, Rosolia, Varicella, non è invece richiesta nessuna ulteriore rivaccinazione nel corso della vita. La protezione immunologica contro il Meningococco quadrivalente è raccomandata dopo 3 anni per i bambini che hanno ricevuto vaccino coniugato all’età di 2–6 anni. E’ richiesta ogni 5 anni per i soggetti vaccinati all’età di 7–55 anni se vi è rischio di infezione. L’efficacia protettiva del vaccino contro lo Pneumococco dura 5 anni dopo la prima dose per persone a rischio (ad es. splenectomia) o per persone vaccinate prima dei 65 anni di età. Un booster di tetano e difterite è raccomandato ogni 10 anni. Una singola dose di Vaccino anti-Tetano Difterite che include una formulazione di pertosse acellulare è raccomandato per sostituire un booster anti-Tetano Difterite per i soggetti di 11-64 anni. La protezione anti-pertosse è generalmente di durata breve (1-6 anni). Il vaccino contro la Febbre tifoide va ripetuto ogni 5 anni, quello contro la febbre gialla ogni 10 anni.
Revisione e adattamento : Maria De Chiaro Laureata in Chimica e Tecnologie Farmaceutiche– Medical Information Merqurio Editore