Iperglicemia: una crisi globale

Il diabete mellito insieme a fumo, ipertensione arteriosa e dislipidemia rappresenta uno dei fattori di rischio pi? importante per malattie cardiovascolari e cerebrovascolari. Ha un peso significativo nel determinismo di queste patologie al punto che, ad esempio, ? noto che il soggetto diabetico ha un rischio quasi doppio rispetto al soggetto sano di sviluppare infarto miocardico e si ritiene che per questi pazienti il rischio ? sovrapponibile a quello di individui che hanno gi? avuto un primo infarto. Per tale motivo le misure di prevenzione della cardiopatia ischemica sono pi? rigide in questa popolazione e si ritiene che siano assimilabili ad una cosiddetta prevenzione secondaria anche in coloro che non hanno gi? avuto eventi cardiovascolari o cerebro vascolari.

Una recente ampia analisi di popolazione pubblicata sulla rivista Lancet ha evidenziato come, non soltanto una condizione di diabete conclamato, bens? anche una glicemia superiore a quella definita ottimale costituisce universalmente un importante elemento predisponente per mortalit? cardiovascolare e per ictus.

Sono stati innanzitutto determinati i valori definiti ottimali di glicemia nelle popolazioni sparse nei principali continenti in ben 52 nazioni differenti (vedi tabella 2, pag 1654, Media standardizzata per et? di glicemia plasmatica a digiuno in mmol/L per sesso e regione). E’ stato possibile calcolare che nel corso dell’anno 2001 a fronte di 960.000 morti totali nel mondo attribuibili a diabete mellito, oltre due milioni di morti sono state causate da livelli di glicemia superiori alla norma, ovvero che non raggiungono i valori di riferimento per essere considerati caratteristici del diabete.

Viene riportato sulla pubblicazione del Lancet che il 21% di tutte le morti per causa cardiovascolare ed il 13% di tutte le morti per ictus sono attribuibili ad una glicemia superiore a quella ottimale, la maggior parte delle prime ha interessato soggetti di et? superiore a 70 anni, con una maggiore frequenza in Asia meridionale, seguita da Europa ed Asia centrale. La maggior parte di decessi ascrivibili a diabete ? stata rilevata in Asia orientale e nella regione del Pacifico, invece, la gran parte di morti dovute a ictus correlato a glicemia superiore all’ottimale ? stata registrata in Asia meridionale, Medio oriente e Africa settentrionale.

L’evidenza che una su cinque morti per cardiopatia ischemica (21%) e una su otto (13%) per ictus nel mondo siano attribuibili a condizioni di glicemia superiori a quelle ottimali ha portato a considerare che tale situazione abbia un peso superiore a quello del fumo (12%), ma inferiore a ipercolesterolemia (45%) ed ipertensione arteriosa (47%) per le coronaropatie e superiore al fumo (8%), uguale ad ipercolesterolemia (13%) ed inferiore ad ipertensione arteriosa (54%) per l’ictus.

In considerazione del fatto che i livelli di glicemia nella popolazione mondiale, condizionati da fattori genetici, ma anche ambientali come soprattutto dieta ed aumento del peso corporeo, mostrano un costante trend in crescita, si pu? giustamente definire questa come una ?crisi globale?, come riportato nel commento sullo stesso numero della rivista a firma di Avendano e Mackenbach di Rotterdam. Essi sottolineano l’importanza di intensificare strategie di prevenzione nella popolazione generale rivolte al controllo e alla riduzione della glicemia, basate non soltanto su interventi di terapia farmacologica, ma soprattutto su programmi di correzion dello stile di vita. Questi interventi sul ?lifestyle? devono essere pi? precoci, in quanto risultano spesso molto efficaci, come ? anche riportato in alcuni studi citati, ove viene segnalato che tali misure prevengono la progressione verso il diabete conclamato almeno del 58% e ne ritardano di quasi 11 anni la comparsa in soggetti ad elevato rischio, come quelli con segni di alterata tolleranza glucidica.

Fonti

– Goodarz Danaei, Carlene M M Lawes, Stephen Vander Hoorn, Christopher J L Murray, Majid Ezzati.Global and regional mortality from ischaemic heart disease and stroke attributable to higher-than-optimum blood glucose concentration: comparative risk assessment. Lancet 2006; 368: 1651?59

– Mauricio Avendano, J P Mackenbach. Blood glucose levels: facing a global crisis. Lancet 2006;368: 1631,1632

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Capelli salvi, cade il PSA

La finasteride, inibitore della 5-alfa-reduttasi, alla dose di 5 milligrammi al giorno viene utilizzata per il trattamento dell?iperplasia prostatica benigna, mentre a quella di 1 milligrammo promette di risolvere un problema che assilla moltissimi uomini: ? infatti approvata come cura per la calvizie.

Alte dosi dimezzano il PSA
Il farmaco agisce inibendo la conversione del testosterone e riducendo le dimensioni della ghiandola prostatica. Numerosi studi indicano inoltre che, dopo 12 mesi, il farmaco assunto alla dose pi? alta – 5 mg – causa una diminuzione del PSA, il principale indicatore di patologie maligne della prostata, di quasi il 50%.
L?abbassamento sembra per? essere un effetto farmacologico non collegato ad alcuna efficacia terapeutica o preventiva, quindi rischia di rendere meno valido l?esame proprio nella categoria di pazienti maggiormente soggetti a cancro.

Per ovviare all?inconveniente i ricercatori hanno suggerito di modificare i valori di riferimento dell?antigene, o di raddoppiarli negli uomini che stanno assumendo il farmaco da pi? di un anno. Inoltre, se normalmente i valori di PSA ritenuti preoccupanti, oltre i quali si consiglia di eseguire una biopsia, sono quelli di 4 ng/mL, nei pazienti trattati con finasteride si consiglia di eseguire una titolazione del PSA prima di iniziare la cura e di eseguire la biopsia non appena il valore sale di 0,3 ng/mL.

Il trattamento anticalvizie
Ancora non si sa se la stessa cosa succeda anche quando il farmaco viene assunto in maniera continuativa alla dose anti-calvizie (1 mg). Il problema ? di vaste dimensioni, basti pensare che pi? di 4 milioni di uomini negli Stati Uniti prendono la finasteride a basso dosaggio: quali sono i valori di riferimento per il PSA che devono essere utilizzati per loro?

Al momento non ci sono risposte sicure, ma un gruppo di ricercatori statunitensi ha pubblicato di recente sulla rivista Lancet Oncology i risultati di uno studio randomizzato, condotto su 355 pazienti di et? compresa tra i 40 ed i 60 anni che assumevano in maniera continuativa 1 mg di finesteride al giorno per prevenire la caduta dei capelli.

I valori di PSA negli uomini sotto trattamento farmacologico sono stati confrontati con quelli di un gruppo placebo dopo 48 settimane: nei pazienti di et? compresa tra i 40 ed i 49 anni il livello dell?antigene si riduceva del 40% e la diminuzione raggiungeva il 50% in quelli pi? anziani (50-60 anni).

Anche se lo studio ? durato meno di un anno, i risultati sembrerebbero indicare che l?effetto della finasteride sia il medesimo per la dose alta e per quella bassa, e che tutti gli uomini che la assumono, a prescindere dalla dose, dovrebbero informare il proprio medico per evitare che il test del PSA venga invalidato dall?uso del farmaco.

Desiderare un maggior numero di capelli in testa ? comprensibile, purch? a questo non corrisponda un maggiore rischio di ammalarsi.

Raffaella Bergottini

(D?Amico A et al. Effect of 1mg/day finasteride on concentrations of serum prostate-specific antigen in men with androgenic alopecia: a randomised controlled trial. The Lancet Oncology, published online December 5, 2006)

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Duchenne: nuovi risultati

Sono stati pubblicati su PNAS (Proceedings of the National Academy of Sciences) i risultati di una sperimentazione condotta presso i laboratori dell?Istituto Scientifico Universitario San Raffaele, dell?Universit? degli Studi di Milano, dell?Universit? di Milano-Bicocca, dell?Universit? di Pavia, dell?Istituto Medea e del Centro Ricerche Nicox.
La ricerca ha indagato gli effetti di una nuova molecola – HCT 1026 (nitroflurbiprofene) – su due modelli animali di distrofia muscolare.

I dettagli dello studio italiano
Il nitroflurbiprofene, oggetto anche di altri studi per il trattamento della demenza di Alzheimer, chimicamente ? un antinfiammatorio non steroideo cui ? stata aggiunta la capacit? di fungere da donatore di gruppi NO. Il nitrossido, deficitario nei pazienti distrofici, ? fondamentale per il metabolismo e la rigenerazione dei muscoli.
I ricercatori hanno somministrato l?HCT 1026 (per os) oppure prednisolone a topi con distrofia della cintura pelvica e distrofia di Duchenne, per un anno.

La nuova molecola riduce l?infiammazione, previene il danno muscolare e preserva numero e funzionalit? delle cellule satelliti, come evidenziato dal miglioramento morfologico, biochimico e funzionale del fenotipo e dal rallentamento della progressione della malattia negli animali. A questi effetti, gi? incoraggianti, se n?? aggiunto uno inatteso: quando ai topi sono state iniettate cellule staminali (mesoangioblasti), la presenza di HCT 1026 ne ha quadruplicato la capacit? di migrare e colonizzare le fibre muscolari.

L?azione sinergica del trattamento farmacologico con quello cellulare, osservata in questo studio, suggerisce una possibile strategia d?azione nei confronti non solo delle distrofie ma anche di altre patologie, caratterizzate da mutazioni genetiche diverse.

Le cellule staminali rappresentano una grande speranza per il trattamento di molte malattie ancora incurabili e, infatti, sono oggetto di numerosi studi in tutto il mondo.

Questa sperimentazione ha ricevuto il finanziamento di Parent Project (Associazione di genitori contro la Distrofia di Duchenne/Becker), Telethon, dell?AFM (Association Francaise contre les Myopathies), dell?Airc (Associazione Italiana per la Ricerca sul Cancro), dell?Unione Europea e del Ministero della Salute. I successi nell?utilizzo di mesoangioblasti sono stati messi in luce, solo pochi mesi fa, da un altro studio italiano, anch?esso finanziato da Telethon e Parent Project.

Elisabetta Lucchesini
(Brunelli S et al. Nitric oxide release combined with nonsteroidal antiinflammatory activity prevents muscular dystrophy pathology and enhances stem cell therapy. Proc Natl Acad Sci USA 2007; 104: 264-9)

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La sindrome di Parsonage-Turner

La sindrome di Parsonage-Turner ? una malattia clinicamente definita, che spesso viene confusa con altre anomalie del collo e delle estremit? superiori. I pazienti manifestano un dolore caratteristico, improvviso e acuto, lungo la parte superiore della spalla, che dura da poche ore a due settimane, ed ? seguito da paralisi flaccida di alcuni muscoli del cingolo scapolare. I segni clinici caratteristici sono la discrepanza tra il deperimento muscolare e la denervazione dei muscoli innervati dallo stesso nervo; la distribuzione “a mosaico” della denervazione muscolare, per i muscoli che sono innervati da molti nervi o da un tronco nervoso che origina dal plesso brachiale; la dissociazione tra il risparmio del potenziale di azione del nervo sensoriale e la denervazione dei muscoli che dipendono da questi nervi misti. L’incidenza ? stata stimata in circa 1,64/100.000, con un picco di frequenza tra la terza e la quinta decade e una lieve predominanza maschile. L’eziologia non ? nota, anche se sono stati sospettati e incriminati vari fattori precipitanti, come le infezioni, i traumatismi, gli interventi chirurgici, i fenomeni di immunizzazione e i meccanismi autoimmuni. La prognosi ? generalmente favorevole, con guarigione completa in circa il 75% dei casi entro i due anni. Il trattamento ? sintomatico e si basa sul ricorso a farmaci analgesici e alla chinesiterapia. *Autore: Dott. I. Kolev (Luglio 2004)*.

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Influenza, Vitamina D e variazioni climatiche: un percorso parallelo

L?inverno pi? caldo degli ultimi 100 anni ha disorientato tutti con inusuali condizioni climatiche che sembra abbiano inciso anche sulle caratteristiche epidemiologiche del virus dell?influenza ?Wisconsin?. Attualmente i pi? colpiti sono pazienti in et? pediatrica, mentre negli adulti e negli anziani ? rilevabile un?incidenza bassa, sotto la soglia critica del 2?. EISS e InfluNet, reti di sorveglianza epidemiologica in Europa e in Italia, hanno documentato finora solo una timida tendenza all?intensificazione dell?epidemia. Probabilmente fra le diverse ipotesi ? probabile che le insolite condizioni climatiche possano aver rallentato la diffusione del virus pur mantenendo la caratteristica stagionalit? del suo andamento.

A questo proposito le variazioni del clima e i problemi correlati riportano all?attenzione R. Edgar Hope-Simpson, un medico generico ed epidemiologo inglese, che a partire dal 19811 ha condotto numerosi studi sulla ciclicit? delle epidemie influenzali. Egli ha osservato come il picco massimo di virulenza dell?influenza, negli emisferi temperati, coincide con i primi giorni successivi al solstizio invernale (22/23 Dicembre), e come invece la diffusione del virus tende a decrescere, fin quasi a scomparire, nei mesi estivi. E questo nonostante a livello immunologico sia possibile individuare nella popolazione una continua formazioni di anticorpi specifici contro il virus anche nella stagione estiva e in assenza di sintomatologia conclamata dell?infezione.

Hope-Simpson ha dedotto l?esistenza di uno ?stimolo stagionale? responsabile di questo caratteristico andamento ciclico dell?epidemia influenzale. Nella sua teoria il ?seasonal stimulus? correla con l?irradiazione solare:

? il picco di massima diffusione virale, nelle zone temperate, viene a coincidere con il picco pi? basso della forza dell?irradiazione solare, cio? intorno al solstizio invernale (quando i raggi del sole raggiungono il massimo della loro obliquit?);

? nelle zone equatoriali, dove l?andamento dell?irradiazione solare ? meno stagionale, anche il procedere dell?influenza ? meno legato alle stagioni e manifesta comunque il suo picco massimo nel momento in cui i raggi solari appaiono pi? deboli.

Un?interessante revisione pubblicata su Epidemiology Infection2 fa il punto della situazione sottolineando che la vitamina D, [25(OH)D], pu? essere lo ?stimolo stagionale? di cui parlava Hope-Simpson e che i suoi livelli plasmatici, dipendenti dall?esposizione al sole e dall?intensit? dell?irradiazione solare, possono essere un fattore determinante della stagionalit? dell?influenza. La vitamina D ? un preormone che viene normalmente prodotto nella cute durante i mesi estivi, quando i raggi UVB attivano la conversione del 7-deidrocolesterolo in vitamina D. In seguito la vitamina D va incontro ad una serie di ulteriori modificazioni ad opera del fegato [25(OH)D] e di tutte le cellule del corpo, fino a presentarsi come potente ormone steroideo [1,25(OH)2D] che agisce sul sistema immunitario. La Vitamina D ha infatti un ruolo importante nel modulare la risposta infiammatoria all?aggressione virale, evitando l?eccessivo rilascio di citochine proinfiammatorie e di chemochine3. Inoltre incrementa sensibilmente la produzione di macrofagi specifici e stimola fortemente il processo genetico di potenti peptidi antibatterici che sono presenti in neutrofili, monociti, cellule del sistema immunitario innato e nelle cellule epiteliali che ricoprono l?apparato respiratorio svolgendo un attivo ruolo di difesa dei polmoni4. La carenza/presenza di vitamina D potrebbe quindi essere correlata alla stagionalit? dell?influenza quanto al ricorrere di diverse patologie batteriche e virali dell?apparato respiratorio.

Sebbene l?importanza della vitamina D nella prevenzione delle patologie respiratorie sia ormai sufficientemente documentata resta da valutare mediante studi clinici quale sia il dosaggio pi? appropriato. Finch? questo non sar? stabilito sarebbe buona norma attenersi in inverno al mantenimento di una concentrazione plasmatica di vitamina D pari a quella che viene riscontrata fisiologicamente in estate (50 ng/ml). La quantit? da assumere come integrazione varier? quindi da persona a persona, in base all?et?, alla latitudine, alla stagione, alla razza, al peso, all?esposizione al sole e ai precedenti livelli di [25(OH)D] nel sangue.

Gli autori ipotizzano una dose generale di 1000-2000 IU/Kg che pu? essere aumentata fino a 5000 IU/al giorno per gli obesi, le persone di colore che hanno molta melanina nella pelle, per gli anziani e per chi non si espone al sole. Si tratta di dosaggi la cui definizione resta tuttavia da testare clinicamente.

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La responsabilit? del medico di pronto soccorso

E’ da escludersi la configurabilit? della colpa professionale medica, allorquando la carenza di notizie in sede di anamnesi sia cos? radicale e generale da non offrire al sanitario di turno in una struttura di pronto soccorso alcun elemento su cui formulare una sostenibile ipotesi diagnostica e, d’altra parte, elementi di tale valenza non siano rilevabili ad un esame obiettivo del paziente, n? emergano durante il periodo di osservazione del medesimo.

I fatti

Il signor GC di 58 anni, in seguito ad un episodio di epistassi insorto alle 5 del mattino, si recava al PS di un ospedale milanese. All?accettazione gli veniva misurata la pressione arteriosa che risultava elevata, pari a 195/95 con frequenza cardiaca di 110 battiti al minuto.
Il dottor A, medico di guardia, annotava nel verbale: “epistassi a risoluzione spontanea – tosse – esame clinico del torace senza specificit?”; ed inoltre: “non precedenti anamnestici – non fa alcuna terapia”. Si procedeva quindi ad una seconda misurazione pressoria, che forniva valori di 150/75. Alle ore 6.36 il C veniva dimesso con la prescrizione di una visita otorinolaringoiatrica, fissata per le ore 10.00 dello stesso giorno. Durante il viaggio di ritorno alla propria abitazione il C accusava un improvviso malore; sceso dall’automezzo, si accasciava improvvisamente al suolo, decedendo sul posto. In relazione a tale fatto il dottor A veniva accusato di omicidio colposo; gli si imputava di aver omesso di: effettuare gli esami necessari per verificare l’entit? della perdita ematica e, altres?, indagare le cause dell’emorragia nasale, anche mediante osservazione del paziente.

Il processo di primo grado

Il dottor C, consulente del Pubblico Ministero, rilevava dai risultati autoptici che il defunto GC era portatore silente di epatomegalia steatosica su base etilica e di cardiopatia ipertensiva. Inoltre, il giorno stesso del decesso, il paziente aveva avuto un?emorragia gastrica di discreta entit?, correlabile a flogosi diffusa della mucosa gastrica. Tale situazione, in parte condizionata da verosimili deficit coagulativi (ridotta sintesi di fattori procoagulanti da parte di fegato abnormemente steatosico) aveva comportato, secondo il consulente, l’attivazione di fisiologici meccanismi di compenso dell’ipovolemia. In particolare, il sistema simpatico-adrenergico determinava un aumento della frequenza cardiaca e della pressione arteriosa, dando luogo all’epistassi profusa, che il C aveva patito nella notte. Di qui, determinandosi ulteriore perdita ematica, si era instaurato un circolo vizioso con un ulteriore aumento dei valori pressori e della tachicardia, una condizione di stress a cui non pu? far fronte un muscolo cardiaco con ridotta capacit? di risposta, come quello del GC, che aveva evidenziato in sede di esame autoptico una ipertrofia del ventricolo sinistro da cardiopatia ipertensiva. Il Tribunale di Lecco accoglieva le conclusioni del PM e condannava il medico di guardia a 6 mesi di reclusione con la sospensione condizionale (sentenza del 29-9-2005).

Il ricorso in Appello

Contro la sentenza proponevano appello, con distinti atti, entrambi i difensori di fiducia, contestando la possibilit? di riconoscere la colpa professionale, nonch? la sussistenza di un nesso causale tra condotta ed evento, chiedendo l’assoluzione dell’imputato perch? il fatto non sussiste.
Preliminare ad ogni discussione era, tuttavia, la doglianza circa la mancata considerazione, da parte del Giudice di primo grado, delle conclusioni del perito d’ufficio. Mancata considerazione che costituiva ragione di nullit? della sentenza per violazione della norma di cui all’art. 546, comma 1, lett. e) c.p.p. Il dottor FB, consulente d?ufficio, aveva concluso nel senso che, dall’analisi dei soli elementi di giudizio disponibili all’atto della dimissione, non vi era prova della necessit? di un diverso atteggiamento terapeutico del medico di guardia, il quale si era trovato di fronte ad una vicenda clinica di estrema difficolt? tecnica, evolutasi in modo sfavorevole per il carattere di imprevedibilit? e perniciosit? delle patologie da cui era affetto il GC.
La Corte d?appello riforma totalmente la sentenza di primo grado, ritenendo che l’imputato debba essere assolto dal reato ascrittogli perch? il fatto non sussiste.

Motivi della decisione

Nel “verbale di triage e pronto soccorso” risulta che Il GC era entrato nella struttura sanitaria alle ore 5.46, “sveglio” e con un respiro “normale”; i valori di pressione arteriosa erano andati diminuendo fino ad assestarsi su 150/75; veniva dimesso alle ore 6.36.
La figlia DC ha dichiarato che il padre “non ha mai avuto problemi di salute”, tanto che “durante il lavoro non ? mai stato a casa in malattia”; ha inoltre escluso che il padre bevesse “in modo particolare”, riferendo, in proposito, di un normale consumo di vino durante i pasti.
E’ conseguentemente da escludere che al medico e al personale del PS siano stati forniti, anche dal paziente, dati e informazioni diversi. L’infermiera CS, di turno all’accettazione il giorno del fatto (compil? il “verbale di triage”), ha riferito che: “il sanguinamento dal naso in pronto soccorso non era in atto”; che GC “stava in piedi” davanti a lei, “perfettamente collaborante e cosciente”, tanto da poter rispondere con prontezza e lucidit? alle domande che gli venivano rivolte.
La situazione cos? ricostruita appare quindi caratterizzata da:

a) totale carenza di informazioni utili a fini diagnostici e, in particolare, di informazioni (su malattie e terapie pregresse e in atto, su un qualunque quadro di possibile rilievo sintomatologico, su abitudini di vita comunque significative) in grado di orientare il sanitario nella variet? e complessit? delle patologie che possono determinare l’epistassi, o essere direttamente o indirettamente collegate al verificarsi di tale fenomeno;

b) rapida e stabile risoluzione dell’episodio di sanguinamento e da un altrettanto rapido e stabile assestarsi dei valori pressori, senza alcun supporto farmacologico, su parametri di normalit?: e ci? in un contesto in cui il GC, oltre a non rivelare alcuna particolarit? all’esame del torace, ebbe ad entrare e uscire autonomamente dai locali della struttura sanitaria e a dimostrarsi sempre ed in ogni momento lucido e collaborante, cos? presente ai fatti da manifestare la normalissima preoccupazione che la figlia avesse a far tardi sul posto di lavoro.

Fonte

Corte d?Appello di Milano – Sezione II – 06-11-2006

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Sinusite in chiaro

La sinusite, o meglio rinosinusite, ? un disturbo di riscontro comune, che viene a volte confuso con un forte raffreddore o un?allergia di stagione. E? invece un? infiammazione dei seni paranasali, che pu? essere acuta o cronica, con ostruzione, ritenzione di muco e infezione, scatenata nella maggior parte dei casi da un?infezione virale e, meno di frequente, batterica. Altri fattori scatenanti sono riniti allergiche e non allergiche, alterazioni anatomiche quali deviazione del setto nasale e ipertrofia dei turbinati, fumo, e poi anche diabete, infezioni dentali, altre condizioni patologiche e situazioni come nuoto e immersioni. Un certo incremento delle rinosinusiti sarebbe in gran parte collegato a quello delle riniti allergiche.
Se nella forma acuta spesso si risolve senza trattamento, la rinosinusite ha comunque una sintomatologia molto fastidiosa che si protrae, arriva a essere causa di assenteismo scolastico o lavorativo; inoltre pu? evolvere verso la cronicizzazione, e ci sono anche possibili complicanze. Perci? ? importante inquadrarla e affrontarla correttamente: ne riassume i criteri di gestione una review pubblicata sul Bmj.

Rapporti con rinite allergica e asma

Poich? l?infiammazione della mucosa a livello dei seni paranasali ? praticamente sempre accompagnata da quella della mucosa nasale adiacente, si parla pi? correttamente di rinosinusite. La sua incidenza ? pi? elevata tra chi soffre di allergie, soprattutto riniti allergiche, molti asmatici presentano rinosinusite (e rinite allergica) cos? come molte rinosinusiti croniche riguardano malati di asma: infatti ci sono evidenze che l?infiammazione allergica coinvolge l?intero tratto respiratorio come un continuum. La forma acuta ? definita dalla presenza per 3-4 settimane (da 4 a 12 ? subacuta) di almeno due sintomi tra ostruzione/congestione, gocciolamento nasale o retronasale, dolore facciale o alta pressione, ridotta capacit? olfattiva, con possibile aggiunta di mal di denti, febbre, malessere, nel bambino anche gonfiore palpebrale, vomito, tosse, irritabilit?. Un peggioramento dopo 5 giorni o la persistenza oltre i 10 (ma entro le 12 settimane) sarebbe indicativo di un?origine non virale; sotto i 10 giorni invece di una virale. Nella forma cronica congestione od ostruzione nasale durano pi? di 12 settimane con almeno un sintomo di accompagnamento. Molto spesso la diagnosi viene posta solo in base ai sintomi, che possono per? portare a errata classificazione tra il coinvolgimento virale e quello batterico, essendo simili nei due casi; si ricorre anche all?esame della transilluminazione dei seni (diafanoscopia), all?indagine endoscopica nasale e paranasale, alla Tac, all?ecografia, alla coltura dell?aspirato, all?esame batteriologico delle secrezioni.

Terapia medica e chirurgica

La rinosinusite pu? andare incontro a complicanze: la maggioranza delle infezioni orbitarie si legherebbe a patologia naso-sinusale, sono possibili poi celluliti orbitarie e ascessi intraorbitari; la sinusite frontale pu? sfociare in osteomielite dell?osso frontale e a deterioramento del seno; si pu? arrivare a meningiti e ascessi intracranici.
Venendo al trattamento, spesso come detto la condizione si risolve senza ricorrere agli antibiotici, che negli USA, per esempio, verrebbero prescritti nel 90% dei casi. Comunque nella forma acuta, specie se i sintomi sono piuttosto pesanti e persistono oltre i 5 giorni, sono efficaci antibatterici come amoxicillina con o senza acido clavulanico, cefalosporine, macrolidi; utili anche cortisonici spray. Nella forma cronica si dovrebbe iniziare con i cortisonici topici nasali e proseguire trattando le cause sottostanti, specie le allergie; si possono prevedere gli antibiotici in casi non responder o con sintomi marcati e persistenti, e cortisonici per os in alcuni casi. Risolti i sintomi, ? importante poi il mantenimento con cortisonici inalatori.
Possono essere utili in fase acuta anche gli spray nasali decongestionanti (per pochi giorni), oltre a mucolitici, Fans, antistaminici se c?? sintomatologia allergica, lavaggi nasali con soluzioni saline, nelle forme croniche trattamenti termali. Un ruolo importante nelle forme croniche l?ha infine la chirurgia per correggere le cause anatomiche o in casi complicati; oggi sono frequenti gli interventi dei seni paranasali per via endoscopica.

Elettra Vecchia

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Effetto del trattamento multifattoriale sulla steatosi epatica non alcolica nei

La steatosi epatica non-alcolica ? una manifestazione della sindrome metabolica.

Non esistono ad oggi trattamenti efficaci per questa malattia epatica.

Ricercatori greci hanno valutato un intervento multifattoriale nel trattamento della steatosi non alcolica.

Lo studio prospettico ha riguardato pazienti non affetti da diabete ( n = 186 ) con sindrome metabolica.

Il periodo osservazionale ? stato di 54 settimane.

I pazienti hanno ricevuto consigli per modificare il proprio stile di vita e sono stati trattati per l?ipertensione ( nella maggioranza dei casi con inibitori del sistema renina-angiotensina ), per l?alterata glicemia a digiuno ( Metformina ), per l?obesit? ( Orlistat ) e per la dislipidemia.

Riguardo alla dislipidemia, i pazienti sono stati trattati in modo random con Atorvastatina 20mg/die ( n = 63 ) o con Fenofibrato micronizzato 200mg/die ( n = 62 ) o con l?associazione Atorvastatina e Fenofibrato ( n = 61 ).

Al termine del trattamento, il 67% dei pazienti che hanno ricevuto Atorvastatina, il 42% di quelli che sono stati trattati con Fenofibrato ed il 70% di coloro che hanno assunto l?associazione Atorvastatina e Fenofibrato non hanno pi? presentato evidenze biochimiche ed ultrasonografiche di steatosi epatica non-alcolica ( p < 0.05 versus il basale, per tutti i confronti ).
La percentuale dei pazienti senza pi? evidenza di steatosi non alcolica ? risultata pi? elevata nel gruppo Atorvastatina e nel gruppo Atorvastatina e Fenofibrato, rispetto al gruppo Fenofibrato.

L?effetto era correlato in modo indipendente al trattamento farmacologico, cos? come alla riduzione della proteina C-reattiva ad alta sensibilit?, alla circonferenza-vita, al peso corporeo, ai trigliceridi, al colesterolo LDL, al colesterolo totale, alla pressione sistolica e alla glicemia.

Quattro pazienti hanno dovuto interrompere il trattamento a causa di eventi avversi.

Lo studio ha mostrato che l?intervento multifattoriale nei pazienti con sindrome metabolica e con evidenza biochimica ed ultrasonografica di steatosi epatica non alcolica ha permesso di ridurre gli elevati livelli di aminotransferasi e l?ecogenicit? del parenchima epatico.

Athyros VG et al, Curr Med Res Opin 2006; 22: 873-883

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La sindrome metabolica e le adipocitochine

L?accumulo di grasso viscerale svolge un ruolo cruciale nello sviluppo della malattia cardiovascolare, cos? come nello sviluppo dei disturbi associati all?obesit? ( diabete mellito, iperlipidemia, ipertensione ).

Gli adipociti agiscono come cellule endocrine che secernono diverse sostanze bioattive.

Il TNF-alfa, PAI-1 ed il fattore di crescita HBEGF-simile possono contribuire allo sviluppo delle malattie vascolari.

La visfatina ? una proteina del grasso viscerale che potrebbe essere coinvolta nello sviluppo delle malattie correlate all?obesit?, come diabete mellito e malattia cardiovascolare.

L?adiponectina, una proteina del tessuto adiposo presenta importanti propriet? antiaterogeniche ed antidiabetiche.

Le funzioni di secrezione dell?adipocitochina possono essere regolate in modo dinamico dallo stato nutrizionale.

L?accumulo di grasso viscerale causa alterazione delle funzioni dell?adipocita, tra cui ipersecrezione del fattore di necrosi tumorale alfa ( TNF-alfa ), dell?inibitore dell?attivatore del plasminogeno ( PAI ) di tipo 1, del fattore di crescita simile al fattore di crescita epidermico legante l?eparina ( HBEGF-simile ) ed iposecrezione di adiponectina, con sviluppo di una variet? di malattie metaboliche e malattie circolatorie.

Matsuzawa Y, FEBS Lett 2006; 580: 2917-2921

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La perdita di peso indotta dalla restrizione calorica ma non quella indotta dall

La perdita ossea si accompagna spesso a perdita di peso indotta da restrizione calorica, ma non ? noto se la perdita di peso indotta dall?esercizio fisico sia associata a perdita ossea.

Ricercatori della Washington University School of Medicine di St.Louis hanno verificato la validit? dell?ipotesi che la perdita di peso indotta dall?esercizio fisico sia associata ad una minore perdita ossea rispetto alla perdita ossea indotta dalla restrizione calorica.

Lo studio ha riguardato 48 adulti ( 30 donne e 18 uomini ) di et? media 57 anni, con indice di peso corporeo ( BMI ) di 27kg/m2 ( valore medio ).

Questi soggetti sono stati assegnati in modo casuale ad 1 di 3 gruppi per 1 anno:

– gruppo restrizione calorica ( n = 19 );

– gruppo esercizio fisico regolare ( n = 19 );

– gruppo stile di vita sano ( gruppo controllo )( n = 10 ).

L?end point primario era rappresentato dal cambiamento della densit? minerale ossea a livello dell?anca e della colonna vertebrale.

Gli outcome secondari comprendevano i marker ossei e gli ormoni.

Il peso corporeo ? diminuito in modo simile nei gruppi sottoposti a restrizione calorica ed a esercizio fisico ( 10.7% versus 8.4%, rispettivamente ), mentre il peso corporeo non si ? modificato nei soggetti del gruppo controllo.

Rispetto al gruppo controllo, il gruppo a restrizione calorica ha presentato una riduzione della densit? minerale ossea dell?anca ( -2.2% versus 1.2%; p = 0.02 ) e dell?intertrocantere ( -2.1% versus 1.7%; p = 0.03 ).

Il gruppo a restrizione calorica ha presentato una riduzione della densit? minerale ossea della colonna vertebrale ( -2.2%; p = 0.009 ).

Nonostante la perdita di peso, il gruppo esercizio fisico non ha mostrato una riduzione della densit? minerale ossea nei siti esaminati.

I cambiamenti del peso corporeo sono risultati correlati a cambiamenti della densit? minerale ossea nel gruppo restrizione calorica ( p = 0.007 ), ma non nel gruppo esercizio fisico.

Il turnover osseo ? aumentato sia nel gruppo restrizione calorica che nel gruppo esercizio fisico.

I dati dello studio hanno mostrato che la perdita di peso indotta dalla restrizione calorica, ma non quella indotta dall?esercizio fisico, ? associata a riduzioni della densit? minerale ossea nei siti di frattura, clinicamente importanti.

Villareal DT et al, Arch Intern Med 2006; 166: 2502-2510

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