Effetti a lungo termine della degenerazione grassa del fegato non-alcoolica

Un nuovo studio ha trovato che i pazienti con degenerazione grassa del fegato non-alcoolica (NAFLD) avevano un rischio significativo di sviluppare una malattia epatica allo stadio finale ed una minore chance di sopravvivenza se avevano una steatosi epatica non-alcoolica (NASH), una forma di NAFLD che pu? portare a cirrosi.

Lo studio ha anche trovato che la maggior parte dei pazienti con NAFLD sviluppavano diabete o ridotta tolleranza al glucosio, che pu? portare a complicanze cardiovascolari.

Pazienti con NAFLD, una delle pi? comuni cause di epatopatia, spesso hanno valori elevati di enzimi epatici senza sintomi della malattia.

L?obesit? ? stata individuata come un rischio maggiore di NAFLD e da quando sta raggiungendo proporzioni epidemiche a livello mondiale, il numero di soggetti a rischio di sviluppare epatopatia cronica probabilmente aumenter? in futuro.

Studi condotti su NAFLD ad oggi hanno riguardato pochi pazienti o periodi di follow up relativamente brevi.

Questo studio ha coinvolto un numero maggiore di pazienti NAFLD con livelli originari elevati di enzimi epatici e li ha seguiti per oltre dieci anni.

Condotto da Stergios Kechagias, della Division of Internal Medicine at University Hospital in Link?ping, Svezia, lo studio ha coinvolto 212 pazienti tra il 1988 ed il 1993 che avevano enzimi epatici cronicamente elevati.

Tutti i pazienti erano sottoposti a biopsia epatica, e solo 129 che avevano conferma di fegato grasso senza eccessivo consumo d?alcool o altra patologia epatica partecipavano allo studio.

Un totale di 88 pazienti accettava il follow-up per una media di quasi 14 anni dalla diagnosi con NAFLD.
Di questi, 68 pazienti hanno ripetuto pi? volte le biopsie epatiche.

I risultati mostravano che la NAFLD era associata ad un rischio significativo di sviluppare epatopatie allo stadio finale e che la morte da cause epatiche e cardiovascolari era significativamente pi? comune nei 71 pazienti con NASH rispetto alla popolazione generale.

Inoltre, 78% dei pazienti con NAFLD avevano una diagnosi di diabete o ridotta tolleranza al glucosio al follow-up.

Affermano gli autori: “considerando la forte associazione tra insulino-resistenza e NAFLD ? ragionevole raccomandare a tutti i pazienti con NAFLD, modifiche dello stile di vita, che riducono realmente il rischio di sviluppare diabete di tipo 2, ed anche un deciso intervento dietetico pu? migliorare l?istologia epatica nei soggetti con NAFLD.”

In un editoriale dello stesso numero della rivista, Vlad Ratziu e Thierry Poynard della Universit? Pierre et Marie Curie and Assistance Publique-H?pitaux de Paris, sottolineano la diffusa falsa credenza per cui la NAFLD nelle sue varie forme ? largamente considerata una malattia lieve con buona prognosi.

Fanno notare che i pazienti con NAFLD di solito non si rivolgono agli epatologi ed il solo modo di diagnosticare accuratamente la malattia , la biopsia epatica, non ? uno strumento pratico di screening per popolazioni estese.

Ci? nonostatnte, NASH ? un?importante causa di epatopatia avanzata ed ? importante prevenirne la progressione a cirrosi perch? una volta che si verifica una insufficienza epatica in questi casi l?esito ? spesso fatale.

Questo studio ? importante non solo per il lungo periodo di follow-up, ma anche perch? gli autori sono stati in grado di identificare l?esito di differenti forme di NAFLD.

E’ da notare che, probabilmente per via del lungo follow-up, gli autori hanno potuto mostrare anche che pazienti non cirrotici sviluppavano ESLD [epatopatia allo stadio finale], confutando cos? l?idea che la NASH non-cirrotica sia benigna.

Lo studio, in linea con i dati precedentemente pubblicati , sottolinea la necessit? di studiare il rischio di un aumento di morte cardiovascolare in soggetti con NASH.

Gli autori concludono che trattare la NASH ? un “bisogno medico maggiore non soddisfatto” e che dovrebbero essere sviluppate le strategie per individuare i pazienti con fattori di rischio di epatopatia, tra cui l?obesit?, il diabete e la malattia cardiaca.

 1,550 total views

UDCA migliora il turnover della bile nei pazienti con calcoli biliari

L?acido Ursodesossicolico (UDCA) previene in vitro il danno del muscolo della colecisti (GB) causato da colecistite acuta e riduce il rischio di dolore biliare e le complicazioni nei pazienti con calcoli biliari (GS).
Questi effetti potrebbero essere parzialmente spiegati in base ad un migliorato turnover della bile nella colecisti.

Short-term ursodeoxycholic acid treatment improves gallbladder bile turnover in gallstone patients: a randomized trial.
Guarino MP, Carotti S, Sarzano M, Alloni R, et al Neurogastroenterol Motil. 2005 Oct;17(5):680-6.
PubMed

L?acido Ursodesossicolico (UDCA) previene in vitro il danno del muscolo della colecisti (GB) causato da colecistite acuta e riduce il rischio di dolore biliare e le complicazioni nei pazienti con calcoli biliari (GS).
Questi effetti potrebbero essere parzialmente spiegati in base ad un migliorato turnover della bile nella colecisti.

L?obiettivo di questo lavoro era di valutare l?effetto di un trattamento a breve termine di UDCA sulla motilit? della GB e sul turnover biliare.

La valutazione ultrasonografica (US) dei volume della GB veniva eseguita in 16 pazienti con calcoli biliari (GS), nella fase postprandiale, per 90 minuti con un tempo di prelievo di 1 min, prima e dopo 30 giorni di UDCA (10 mg kg(-1) al giorno (-1)) o placebo, assegnati a random.

I dati US erano analizzati con strumenti statistici e computer fluido-dinamico (CFD) software Fluent(TM) per simulare il flusso biliare della colecisti.

Dopo la terapia, il volume a digiuno (FV) aumentava da 21.6 +/- 9 a 28.2 +/- 12 mL (p < 0.001) mentre la frazione di eiezione (EF) rimaneva immodificata (44.5 +/- 17% vs 45.1 +/- 20%; p: ns).
I volumi pre e post trattamento erano scarsamente correlati (0.02 < r < 0.35), a differenza che nei pazienti con placebo (r > 0.6). Il volume medio della GB era aumentato in 7 dei 10 pazienti con UDCA (range 7-67%).

L?analisi CFD supporta il dato di un flusso di bile migliore dopo il trattamento. Al di l? dei risultati sui parametri convenzionali US di motilit? della GB, l?analisi CFD mostra che UDCA migliora il turnover della bile nella colecisti in pazienti con calcoli biliari (GS).

 560 total views,  1 views today

Il caff? riduce l?incidenza di cirrosi alcolica

Il caff? pu? aiutare a proteggere il fegato dei forti bevitori di alcol.

Uno studio di coorte di soggetti appartenenti al Kaiser Permanente, un HMO ( Health Maintenance Organization ), ha mostrato che coloro che assumono da 1 a 3 tazze di caff? al giorno presentavano una riduzione del 40% dei rischi di cirrosi alcolica rispetto a coloro che assumevano meno di una tazza ( p < 0.001 ). Questo effetto protettivo sembra essere dose-dipendente.
Le persone che bevono 4 tazze di caff? o pi? hanno una riduzione dell?80% nel rischio relativo di cirrosi alcolica ( p < 0.001 ). Nel sottogruppo dei pazienti con cirrosi non-alcolica, il caff? ha mostrato una debole relazione inversa con la cirrosi. L?assunzione di t? non ?, invece, risultata correlata al rischio di cirrosi alcolica o non-alcolica. Lo studio ha analizzato i dati di 129.580 iscritti al Kaiser Permanente che hanno risposto ad un questionario tra il 1978 ed il 1985. Nel 2001, 330 soggetti hanno sviluppato cirrosi alcolica e a 131 cirrosi non-alcolica. Il 65% dei pazienti con cirrosi alcolica ed il 54% dei pazienti con cirrosi non-alcolica erano uomini, ed in entrambi i gruppi circa la met? dei pazienti avevano 50 anni di et? o meno. Il rischio di cirrosi, sia alcolica che non-alcolica, ? aumentato con l?et?, il sesso maschile e l?obesit?. Fonte: Archives of Internal Medicine, 2006

 330 total views,  2 views today

Ipogonadismo sintomatico: quale il giusto approccio?

La notizia. L?orologio biologico non ticchetta pi? solo per le donne; l?impietoso scorrere del tempo ha effetto anche sulla fertilit? e sulla vita sessuale degli uomini. La riduzione della concentrazione di testosterone nel sangue, che dai trent’anni diminuisce dell?un per cento all?anno, ? responsabile del raddoppio della probabilit? di essere infertili se si superano i 35 anni. Inoltre l?et? paterna, tradizionalmente considerata meno rilevante rispetto a quella materna, ? altrettanto importante: la qualit? genetica dello sperma, la motilit? degli spermatozoi, le disfunzioni erettili sono tutti fattori influenzati negativamente dall?aumento dell?et?. Questi elementi aumentano il rischio di avere progenie affetta da disturbi quali l?autismo, la schizofrenia e la sindrome di Down, come si sostiene sull?ultimo numero della rivista Journal of the American Medical Association, interamente dedicato alla salute maschile.
“Le donne, se over 30, non dovrebbero pi? essere viste come le sole responsabili dell?infertilit?”, ammonisce il commento del JAMA.

Ridefinire l’andropausa. Anche gli uomini sono soggetti all?azione dell?orologio biologico e, dopo i 30 anni, si comincia a parlare di andropausa, per riferirsi alla diminuzione della concentrazione di testosterone nel sangue; tuttavia questo termine non ? corretto. Negli uomini infatti, a differenza delle donne, non vi ? un brusco calo ormonale ma una progressiva diminuzione della produzione di testosterone. Sarebbe pi? corretto parlare di “ipogonadismo sintomatico”. L?ipogonadismo oltre che sulla salute riproduttiva incide anche su altri disturbi: sia il diabete di tipo due che la sindrome metabolica sono correlati con la diminuzione di testosterone. La riduzione dell?ormone sembra correlata anche, negli uomini over 50, con l?insorgenza di malattie cardiovascolari, depressione e iperplasia prostatica.

Un eccesso di prescrizioni? Alla luce di questi dati sono in aumento le terapie che prevedono la somministrazione esogena di testosterone. Nel 2005 nei soli Stati Uniti sono stati prescritti 2,3 milioni di sostanze contenenti testosterone, secondo i dati forniti da un rapporto dell?IMS Health Inc. Questi numeri testimoniano come vi sia stato il 50 per cento di incremento delle vendite dal 2001 e il 210 per cento dal 1999. Questo enorme aumento non ? senza rischi: un uso indiscriminato di prodotti che innalzino i livelli di testosterone porta a dislipidemia, infertilit?, problemi nella coagulazione del sangue. Secondo i firmatari del commento questo aumento ? stato causato, almeno negli Stati Uniti, da un?eccessiva medicalizzazione dei problemi correlati con la diminuzione dei livelli di testosterone a cui ha fatto seguito una prescrizione eccessiva di terapia ormonale integrativa. Per trovare un equilibrio il primo e pi? importante passo ? comprendere a fondo gli effetti fisiologici dell?ipogonadismo sintomatico.

Bibliografia. Lewis B et al. Medical implication of the male biological clock. JAMA 2006;296:2369-71.

 804 total views

La restrizione del sonno ? associata ad un modesto aumento di peso

Studi hanno indicato che la restrizione del sonno ha effetti metabolici che predispongono all?aumento di peso.

Uno studio, coordinato da Ricercatori della Case Western Reserve University a Cleveland, negli Stati Uniti, ha esaminato l?associazione tra la durata del sonno, autoriferita, ed il successivo aumento di peso.

I dati sono stati ottenuti dal Nurses? Health Study.

Un totale di 68.183 donne che avevano fornito informazioni riguardo all?abituale durata del sonno sono state tenute sotto osservazione per 16 anni.

Le donne che dormivano per 5 o meno ore hanno aumentato il proprio peso corporeo di 1.14 kg rispetto alle donne con una durata del sonno di 7 ore; le donne la cui durata del sonno era di 6 ore hanno aumentato il proprio peso corporeo di 0.71 kg.

Il rischio relativo di un aumento di peso di 15 kg ? stato 1.32 e 1.12 per le donne con un sonno della durata di 5 e 6 ore, rispettivamente.
Il rischio relativo per l?obesit? definita come indice di massa corporea ( BMI ) maggiore di 30 kg/m2 ? stato 1.15 e 1.06.

Questi dati hanno indicato che la breve durata del sonno ? associata ad un modesto aumento di peso corporeo.

Patel SR et al, Am J Epidemiol 2006; 164: 947-954

 435 total views,  1 views today

Switch da tamoxifene ad anastrozolo, ancora conferme

La notizia. Le pazienti con tumore della mammella in fase iniziale trattate con tamoxifene che effettuano uno switch ad anastrozolo dopo 2-3 anni di trattamento hanno pi? chance di sopravvivenza. Lo sostiene una meta-analisi effettuata su 3 studi clinici internazionali che hanno confermato come ? nelle pazienti in post-menopausa con tumore della mammella ormono-sensibile in fase iniziale ? passare alla terapia con anastrozolo dopo tamoxifene pu? pressoch? dimezzare l?incidenza di recidiva e ridurre i tassi di mortalit? di quasi un terzo. Questa meta-analisi ? stata pubblicata su una delle pi? autorevoli riviste scientifiche internazionali, Lancet Oncology.

Dati importanti. Nel gruppo di pazienti che hanno iniziato ad assumere anastrozolo piuttosto che rimanere in trattamento con tamoxifene dopo un follow-up di 30 mesi:

? La mortalit? si ? ridotta del 29 per cento (p=0,0377)

? La ricaduta della malattia si ? ridotta del 45 per cento (p<0,0001) ? La diffusione della malattia in altre parti del corpo si ? ridotta del 39 per cento (p=0,0015). Commenti e prospettive. ?Questi studi, insieme ad altri quali lo studio clinico ATAC, confermano che tamoxifene non ? pi? la migliore opzione che possiamo offrire alle nostre pazienti. Le donne che attualmente sono in trattamento con tamoxifene dovrebbero passare ad anastrozolo appena possibile, per offrire loro la migliore opportunit? di sopravvivenza alla malattia?, conferma Walter Jonat dell?Universit? di Kiel (Germania), uno degli autori dell?articolo. ?Si tratta di ottime notizie per le molte migliaia di donne che in questo momento stanno assumendo tamoxifene per prevenire una recidiva del tumore della mammella. Cambiando trattamento, le possibilit? di battere la malattia e vivere pi? a lungo libere dai sintomi possono aumentare molto, donando nuove speranze per il futuro?. Importante sottolineare che questi risultati ? sebbene di grande importanza per le pazienti trattate con tamoxifene ? non riguardano le pazienti appena diagnosticate. In questo caso, occorre sottolineare che i dati dello studio ATAC hanno confermato che le donne con diagnosi di tumore della mammella ormono-sensibile in fase iniziale dovrebbero iniziare la terapia con anastrozolo come primo trattamento ormonale dopo l’intervento chirurgico. Rimaneva tuttavia aperta la domanda di cosa fare per le pazienti gi? in trattamento con tamoxifene. I dati di questi ultimi studi confermano, ora, che le donne che non hanno avuto il vantaggio di iniziare la terapia con anastrozolo possono ancora avere un beneficio significativo se sostituiscono con anastrozolo la terapia con tamoxifene. “Lo Studio ATAC ha confermato che la terapia con anastrozolo avviata subito dopo l?intervento e completata per i 5 anni di trattamento previsti ? pi? efficace nella prevenzione delle ricadute, comprese le ricadute a distanza potenzialmente fatali. Questi nuovi dati dimostrano che le pazienti che non hanno avuto il vantaggio di partire con il trattamento con anastrozolo dovrebbero passare ora a questa terapia. Io personalmente ritengo che alle pazienti idonee, in postmenopausa con tumore della mammella ormono-sensibile in fase iniziale dovrebbe essere offerta la possibilit? di assumere anastrozolo il pi? presto possibile?, conclude Jeffrey Tobias dell?University College London Hospitals (Londra, Regno Unito), uno degli sperimentatori partecipanti agli studi clinici con anastrozolo. In seguito a questi studi anastrozolo ? l?unico inibitore dell?aromatasi che ha ottenuto in Europa l?indicazione sia per la terapia dopo l?intervento chirurgico che dopo 2 anni di terapia con tamoxifene.

 1,122 total views

Pesce: il fritto annulla completamente gli effetti benefici degli omega 3

Si ? parlato anche di alimentazione al XX Convegno Nazionale SISA – Societ? Italiana per lo Studio dell’Aterosclerosi – in programma a Bologna in questi giorni. Nello specifico degli effetti positivi contro il colesterolo dell’assunzione di pesce azzurro e quindi di acidi grassi come gli omega3. Dal punto di vista scientifico gli omega3 sono acidi grassi polinsaturi a lunga catena di carbonio derivanti dall’acido alfa linoleico, pi? concretamente essi sono in grado di entrare nella costituzione delle membrane cellulari diventando protagonisti di diverse azioni molto importanti tra le quali: l’azione antitrombotica, la riduzione dei trigliceridi, e soprattutto migliorano il ritmo cardiaco evitando in concreto l’insorgenza di aritmie cardiache.

“Noi consigliamo sempre di inserire il pesce, ed il pesce azzurro in particolare – ha affermato la prof.ssa Graziana Lupatelli dell’Universit? di Perugia – nella propria dieta alimentare. In generale si pu? affermare che tutte le specie di pesce azzurro sono consigliate: tra le pi? ricche di omega3 segnaliamo gli sgombri, le sardine, le aringhe. In questi anni si ? anche cercato di valutare il rischio/beneficio tra i contaminanti ambientali presenti nel pesce (mercurio e diossina i principali) e l’effetto positivo portato dalla presenza degli omega3.

I risultati della FDA (Food and Drug Administration), hanno portato a consigliare, a scopo cautelativo, ad alcune categorie particolarmente sensibili, quali bambini in et? pediatrica, donne in gravidanza ed in allattamento di evitare elevate assunzioni di alcuni pesci. In particolare: pesce spada, sgombro e spigola. Pesci caratteristici dei mari freddi, portati ad assorbire una quantit? maggiore degli altri di inquinanti. Ma oggi, il nostro consiglio per tutti, come prevenzione cardiovascolare primaria, ? quello di consumare pesce almeno due volte a settimana, e di variare il pi? possibile la tipologia e la provenienza del pesce scelto.”

Altro suggerimento ? quello di non friggere il pesce. Indipendentemente dall’olio usato (oliva o semi) pich? con questa modalit? di cottura vengono annullati i benefici cardiovascolari della molecola omega 3. Le migliori preparazione, secondo gli esperti sono o al forno o bollito.

Per quanto riguarda le dosi di assunzione di omega3 secondo gli esperti:

Per un individuo sano in funzione di prevenzione cardiovascolare, i medici consigliano l’assunzione circa ? grammo al giorno di omega-3, il che significa assumere pesce azzurro due volte a settimana.

Per un individuo che ha gi? avuto eventi cardiovascolari, la quantit? necessaria si alza ad 1 grammo al giorno, il che significa sempre assunzione due volte a settimana ma con l’aggiunta degli integratori farmacologici, sia come terapia che come prevenzione.

 1,018 total views

Perdita di peso migliora tolleranza al glucosio

La perdita di peso derivante dall’esercizio o da restrizioni caloriche migliora la tolleranza al glucosio e l’azione dell’insulina in uomini e donne non obesi e sani. La spesa energetica indotta dall’esercizio, comunque, pu? migliorare ulteriormente la regolazione del metabolismo del glucosio tramite meccanismi indipendenti dalla perdita di peso. Tuttavia, in base al presente studio, non sembra che la perdita di peso indotta dall’esercizio determini miglioramenti maggiori rispetto a quelli ottenuti con la restrizione calorica da sola. Questi due tipi di intervento determinano anche incrementi marginalmente significativi nei livelli di adiponectina e nel rapporto TNF-alfa/adiponectina, cosa che non si ottiene mantenendo soltanto uno stile di vita sano. (Am J Clin Nutr. 2006; 84: 1033-42)

 503 total views

Mezzi di contrasto

Ogni anno in tutto il mondo vengono somministrate circa 60 milioni di dosi di mezzi di contrasto iodati, nella maggioranza dei casi associate ad un trattamento con corticosteroidi o antistaminici, per prevenire eventuali reazioni anafilattiche. Uno studio pubblicato su BMJ ne valuta l?effettiva necessit?.

Una abitudine diffusa

Come ? noto, i mezzi di contrasto iodati si dividono in ionici e non ionici a seconda della loro tendenza a scindersi, una volta entrati in circolo, formando o meno ioni carichi. I composti non ionici sono ormai quelli pi? utilizzati e, anche se a ci? corrisponde una marcata diminuzione nell?incidenza delle reazioni avverse, la premedicazione continua ad essere praticata.

Recentemente linee guida britanniche hanno posto una particolare enfasi su questa diffusa abitudine: l?opinione di molti radiologi ? che si tratti di una pratica del tutto superflua la cui efficacia non ? provata, e che la sicurezza dei mezzi non ionici sia tale da rendere inutile le precauzioni fino ad ora adottate. Per supportare questa ipotesi un gruppo di ricercatori ha analizzato tutti i lavori pubblicati al riguardo, in qualsiasi lingua, dal 1950 al 2005. I criteri a cui ? stata prestata attenzione erano la randomizzazione dei pazienti, l?uso di premedicazione ? corticosteroidi e antistaminici, da soli od in combinazione – la presenza di gruppi controllo o placebo e la segnalazione di presenza o assenza di reazioni allergiche.

Precauzioni inutili

Comparando gli studi in cui erano stati somministrati corticosteroidi con quelli in cui si utilizzava un placebo, ? stato evidenziato che – in una popolazione non selezionata di pazienti come quella considerata- la precauzione era in effetti poco utile. Il numero di soggetti da trattare per prevenire un solo evento avverso era altissimo e le reazioni, talmente gravi da mettere in pericolo di vita il paziente, molto rare.

Anche per quanto riguarda l?uso di antistaminici sembrano esserci poche motivazioni. Quelle causate dai mezzi di contrasto non sono vere e proprie reazioni di tipo anafilattico, ma vengono classificate comunque come anafilattoidi perch? ne condividono molti aspetti, tra cui il broncospasmo, l?ostruzione delle vie aeree, l?edema ed il collasso cardiovascolare. Il loro preciso meccanismo non ? noto; una storia clinica di asma o reazioni allergiche ad altri farmaci aumentano da sei a dieci volte il rischio di tali reazioni, ma mancano completamente dati a favore del trattamento profilattico nei soggetti a rischio e le reazioni si verificano anche in soggetti non allergici.

In conclusione, lo studio sembrerebbe supportare le recenti linee guida del Royal college of radiologists: la premedicazione non ? strettamente necessaria. La somministrazione inutile di qualunque farmaco andrebbe evitata o ridotta al minimo; meglio addestrare il personale a saper riconoscere tempestivamente e ad intervenire in maniera efficace in quei rari casi in cui si verifichi una reazione avversa.

Raffaella Bergottini

 433 total views

Bis di esami invasivi

Le tecniche di diagnosi per immagini del colon sono oggi di grande aiuto nella individuazione precoce di polipi e cancro, ma sono tra quelle che comportano maggiore disagio: a parit? di attendibilit?, la scelta tra clisma opaco, colonscopia e colongrafia tomografica computerizzata (TC) dovrebbe basarsi anche sul benessere del paziente, sia per un fattore etico sia perch?, nel caso in cui fosse necessario dover ripetere l?esame, la probabilit? che il paziente accetti di rifarlo ? tanto maggiore quanto pi? il disagio ? stato contenuto. In quest?ottica, la colonscopia sembra essere meglio tollerata rispetto alle altre metodiche.

I parametri del disagio

Tutte le tecniche menzionate implicano un certo grado di malessere fisico, bisogna per? sottolineare che questo – da solo – non ? sufficiente a caratterizzare la completa esperienza di chi si sottopone all?esame. L?ansia che precede il test, la sedazione, le difficolt? nella preparazione dell?intestino i giorni immediatamente precedenti l?esame, il senso di imbarazzo e di perdita della dignit? che possono accompagnare il paziente durante l?esecuzione, sono tutti fattori ugualmente importanti che determineranno, sommati, il grado di benessere percepito. In uno studio prospettico pubblicato sull?American Journal of Medicine ? stato eseguito un confronto delle tre metodiche, per stabilire quale fosse avvertita come la meno spiacevole. L?indagine ? stata condotta su persone con sangue occulto nelle feci, ematochezia, anemia ferropriva o una storia familiare di cancro al colon: ? stato eseguito un clisma opaco seguito, dopo 7 o 14 giorni, da colonscopia o colongrafia, ed al termine tutti i pazienti hanno compilato un questionario di tipo qualitativo che includeva anche la valutazione di fattori quali dolore, imbarazzo e difficolt? nella preparazione.

In totale, 614 persone si sono sottoposte a tutti e tre gli esami. Il 52% di loro era disposto a ripetere, se necessario, la colonscopia e solo il 10% la considerava come la metodica pi? dolorosa tra le tre; il clisma opaco, al contrario, era percepito come la meno tollerabile nel 54% dei casi e coloro che erano disposti a rifarlo erano solo il 3%.

Discussione

Questi risultati devono essere accompagnati da alcune considerazioni: la pi? importante ? che la colonscopia ? l?unico esame che viene eseguito sotto moderata sedazione, e di qui la percezione di minore sofferenza durante l?esame. Anche se i ricercatori sottolineano che la valutazione ? stata eseguita una volta terminato completamente l?effetto dei tranquillanti, rimane il dubbio che il trattamento possa influire anche sulla memoria delle sensazioni percepite durante l?esame. Lo stesso discorso non vale per il confronto tra clisma opaco e colongrafia, entrambe eseguite senza premedicazione, che dimostra come il clisma sia di gran lunga la metodica meno tollerata.

Inoltre, lo studio ? stato eseguito in siti differenti ed ? possibile che la stessa metodica, eseguita in strutture diverse e da diversi operatori, non venga percepita allo stesso modo: l?alto numero di pazienti inclusi nello studio dovrebbe per? garantire la generalizzabilit? dei risultati. Il fatto che l?esame che i pazienti sono maggiormente disposti a ripetere ? la colonscopia, ? quindi da tenere presente soprattutto nei soggetti a rischio, che verosimilmente dovranno eseguire l?esame pi? volte nella vita.

Raffaella Bergottini

 418 total views,  1 views today

1 129 130 131 132 133 143

Search

+
Rispondi su Whatsapp
Serve aiuto?
Ciao! Possiamo aiutarti?