Studio XENDOS: Orlistat riduce l?incidenza di diabete soprattutto nei soggetti c

Lo studio XENDOS ( Xenical in the Prevention of Diabetes in Obese Subjects ) ha visto la partecipazione di 3305 soggetti con alterata o normale tolleranza al glucosio.

I pazienti sono stati assegnati in modo casuale ad un intervento sullo stile di vita pi? placebo, oppure a cambiamento dello stile di vita pi? Orlistat ( Xenical ) 120mg 3 volte die.

Dopo 4 anni di trattamento, l?incidenza cumulativa di diabete di tipo 2 ? stata del 9% nel gruppo placebo e del 6.2% nel gruppo Orlistat ( p = 0.0032 ).

L?incidenza di diabete era bassa al basale.
Non c?era una significativa differenza tra i due bracci riguardo ai soggetti con normale tolleranza al glucosio, al basale.

Nei pazienti con alterata tolleranza al glucosio, lo sviluppo di diabete di tipo 2 era significativamente maggiore nel gruppo placebo che non nel gruppo Orlistat ( p = 0.0024 ).

La divisione dei livelli di glicemia a digiuno al basale ha evidenziato una significativa differenza ( p < 0.05 ) nell?incidenza di diabete tra il placebo ( 17.8% ) e l?Orlistat ( 9.4% ) nella stratificazione superiore ma non in quella inferiore. La perdita di peso era significativamente maggiore nel gruppo Orlistat che nel gruppo placebo per l?intero periodo di studio ( p < 0.001 ). Nello studio XENDOS, la terapia con Orlistat ha ridotto l?incidenza di diabete in misura maggiore rispetto ai risultati raggiunti mediante cambiamenti dello stile di vita.
Questo ? risultato evidente in modo particolare nei pazienti con alterata tolleranza al glucosio al basale. ( Xagena_2006 )

Sjostrom L, Endocr Pract 2006; 12 Suppl 1: 31-33

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La Sibutramina ? associata a miglioramento della funzione endoteliale nei pazien

Nei pazienti obesi con malattia coronarica, l?endotelio vascolare ? generalmente alterato.

Ricercatori israeliani hanno valutato l?impatto della Sibutramina ( Usa: Meridia; Italia: Reductil ) sulla funzione endoteliale nei pazienti obesi con coronaropatia.

Un totale di 80 pazienti consecutivi, obesi, non ipertesi, con malattia coronarica stabilizzata sono stati assegnati in modo casuale a Sibutramina 10mg/die ( n = 40 ) o a trattamento di routine ( n = 40 ), per 4 mesi.

Il miglioramento percentuale nella dilatazione flusso-mediata ( FMD ) dell?arteria brachiale endotelio-dipendente e la vasodilatazione mediata dalla nitroglicerina endotelio-indipendente, sono state valutate al basale e dopo 4 mesi mediante ultrasonografia ad alta risoluzione.

Dopo 4 mesi, il peso corporeo iniziale si ? ridotto dell?11.4% nel gruppo Sibutramina rispetto al 2.2% nel gruppo controllo ( p < 0.001 ), dimostrando un significativo miglioramento nella FMD percentuale post-intervento ( in media 8.9%; p = 0.01 rispetto al basale ) nel gruppo Sibutramina. Nessun significativo miglioramento percentuale nella vasodilatazione mediata dalla nitroglicerina endotelio-indipendente ? stato osservato nei 2 gruppi. Il trattamento con Sibutramina ? risultato anche associato ad una significativa riduzione della proteina C-reattiva, rispetto al trattamento di routine ( 44% versus 9%; p = 0.035 ). Secondo gli Autori, la terapia di breve periodo con Sibutramina, associata alla dieta e ad interventi sullo stile di vita migliora la funzione endoteliale, valutata mediante dilatazione flusso-mediata dell?arteria brachiale nei pazienti con malattia coronarica stabilizzata, non ipertesi. ( Xagena_2006 ) Shechter M et al, Am J Cardiol 2006; 97: 1650-1653

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Come gestire gli eventi avversi dei bifosfonati per via endovenosa

I bifosfonati per via endovenosa sono ampiamente impiegati nel trattamento dell?ipercalcemia e nella riduzione della morbidit? scheletro-correlata tra i pazienti colpiti da tumori.

Tuttavia, l?impiego dei bifosfonati per via endovenosa pu? essere associato a gravi complicanze che si presentano in genere con un?incidenza inferiore al 2% e comprendono: reazione infiammatoria sistemica, infiammazione oculare, insufficienza renale, sindrome nefrotica, alterazioni elettrolitiche ed osteonecrosi maxillo-mandibolare.

La reazione infiammatoria sistemica acuta ? spesso auto-limitante con riduzione di intensit? con il proseguire della terapia.

Nei pazienti che sviluppano sintomi oculari, una pronta valutazione oftalmologica ? basilare per determinare la sicurezza della successiva terapia con bifosfonati.

I pazienti che ricevono per lungo tempo il Pamidronato dovrebbero essere valutati ad intervalli di tempo in modo da individuare i primi segni della sindrome nefritica, poich? l?interruzione del trattamento ? associata ad un completo recupero.

Per ridurre il rischio di gravi alterazioni elettrolitiche, soprattutto l?ipocalcemia, ? necessario correggere eventuali squilibri elettrolitici prima del trattamento, ed eventualmente assumere supplementi a base di vitamina D e calcio.

Per ridurre il rischio di osteonecrosi maxillo-mandibolare ? opportuno compiere una valutazione dentale prima del trattamento ed evitare successivamente procedure dentali invasive. ( Xagena_2006 )

Tanvetyanon T, Stiff, Ann Oncol 2006; 17: 897-907

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Come gestire gli eventi avversi dei bifosfonati per via endovenosa

I bifosfonati per via endovenosa sono ampiamente impiegati nel trattamento dell?ipercalcemia e nella riduzione della morbidit? scheletro-correlata tra i pazienti colpiti da tumori.

Tuttavia, l?impiego dei bifosfonati per via endovenosa pu? essere associato a gravi complicanze che si presentano in genere con un?incidenza inferiore al 2% e comprendono: reazione infiammatoria sistemica, infiammazione oculare, insufficienza renale, sindrome nefrotica, alterazioni elettrolitiche ed osteonecrosi maxillo-mandibolare.

La reazione infiammatoria sistemica acuta ? spesso auto-limitante con riduzione di intensit? con il proseguire della terapia.

Nei pazienti che sviluppano sintomi oculari, una pronta valutazione oftalmologica ? basilare per determinare la sicurezza della successiva terapia con bifosfonati.

I pazienti che ricevono per lungo tempo il Pamidronato dovrebbero essere valutati ad intervalli di tempo in modo da individuare i primi segni della sindrome nefritica, poich? l?interruzione del trattamento ? associata ad un completo recupero.

Per ridurre il rischio di gravi alterazioni elettrolitiche, soprattutto l?ipocalcemia, ? necessario correggere eventuali squilibri elettrolitici prima del trattamento, ed eventualmente assumere supplementi a base di vitamina D e calcio.

Per ridurre il rischio di osteonecrosi maxillo-mandibolare ? opportuno compiere una valutazione dentale prima del trattamento ed evitare successivamente procedure dentali invasive. ( Xagena_2006 )

Tanvetyanon T, Stiff, Ann Oncol 2006; 17: 897-907

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I pazienti diabetici dovrebbero evitare di assumere l?antibiotico Gatifloxacina

La Gatifloxacina ( Tequin ) ? comunemente impiegata nel trattamento delle infezioni respiratorie tra cui la polmonite acquisita in comunit?, esacerbazioni acute di bronchite cronica, sinusite ed infezioni del tratto urinario.

Health Canada aveva gi? informato di aver ricevuto segnalazioni di casi di ipoglicemia ed iperglicemia, clinicamente significativi, nei pazienti, soprattutto diabetici, che avevano assunto il farmaco.

Uno studio caso-controllo ha confermato gli effetti disglicemici della Gatifloxacina nei pazienti con o senza diabete.

La Gatifloxacina ? un fluorochinolone ad ampio spettro di terza generazione attivo nei confronti dei microrganismi aerobi gram-negativi e gram-positivi, anaerobi ed atipici.
Il farmaco subisce solo una minima biotrasformazione ed ? escreto per via renale.

Park-Wyllie e colleghi ( N Engl J Med 2006 ) hanno esaminato i pazienti dell?Ontario ( Canada ) di et? superiore ai 65 anni, che erano stati visitati in ospedale per ipoglicemia o iperglicemia, ed ai quali era stato prescritto un fluorochinolone per os, una cefalosporina di seconda generazione o un macrolide, durante il mese precedente.

I pazienti che hanno sperimentato iperglicemia avevano una maggiore probabilit? ( 4 volte ) di essere stati trattati con Gatifloxacina piuttosto che con un macrolide.
Dei 788 pazienti trattati per ipoglicemia, 366 sono stati ricoverati in ospedale.
Di questi, 30 pazienti ( 8.1% ) sono morti in ospedale.
Il tempo mediano dall?inizio dell?assunzione di Gatifloxacina alla presentazione in ospedale ? stato di 6 giorni.

I pazienti che hanno sperimentato iperglicemia avevano una probabilit? 17 volte maggiore di essere stati trattati con Gatifloxacina piuttosto che con un macrolide.

Dei 470 pazienti con iperglicemia, 237 sono stati ricoverati e 39 ( 16.5% ) di questi sono morti in ospedale.
Il tempo mediano intercorso tra l?inizio della terapia con Gatifloxacina e l?arrivo in ospedale ? stato di 5 giorni.

Anche la Levofloxacina ( Levaquin; in Italia, Tavanic ) ? risultata associata ad un modesto aumento del rischio di ipoglicemia, ma non di iperglicemia.

La frequenza di disglicemia che si ? presentata entro 30 giorni dopo la prescrizione dell?antibiotico ? stata trovata pi? alta con la Gatifloxacina ( 1.1% ), seguita dalla Ciprofloxacina ( 0.3% ), Levofloxacina ( 0.3% ), Moxifloxacina e cefalosporine di seconda generazione ( entrambe 0.2% ) e, per ultimi, i macrolidi ( 0.1% ).

Tuttavia, l?incidenza di alterazioni glicemiche, con molta probabilit?, ? sottostimata.

Nonostante che i meccanismi alla base di questi effetti opposti, ipoglicemia ed iperglicemia, non siano stati chiariti, ? probabile che la Gatifloxacina provochi ipoglicemia promuovendo il rilascio di insulina e l?iperglicemia per formazione di vacuoli cellulari ( cellule beta pancreatiche ) con conseguente riduzione dei livelli di insulina.

Pertanto, ai pazienti diabetici non dovrebbe essere prescritto l?antibiotico Gatifloxacina, e la Levofloxacina dovrebbe essere impiegata con cautela. ( Xagena_2006 )

Fonte: Canadian Medical Association Journal, 2006

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Obesit? intra-addominale: un fattore di rischio per il diabete di tipo 2 e per la malattia cardiovascolare

L?accumulo di tessuto adiposo intra-addominale aumenta il rischio di diabete di tipo 2 e di malattia cardiovascolare, indipendentemente dall?adiposit? globale.

I programmi di cambiamento degli stili di vita hanno mostrato che la perdita di peso anche moderata produce benefici sul rischio cardiovascolare, quando comporta una riduzione del grasso intra-addominale.
Tuttavia, questi programmi, per aver successo, richiedono il supporto di un gruppo multidisciplinare di esperti.

Recentemente ? stato scoperto il sistema dei recettori dei cannabinoidi di tipo 1 ( CB1 ) ed il sistema degli endocannabinoidi, ed il loro impatto sulla regolazione del metabolismo energetico.

Studi clinici hanno mostrato che il Rimonabant ( Acomplia ), il capostipite dei bloccanti CB1, potrebbe essere utile nel management dei fattori di rischio per la malattia cardiovascolare nei pazienti con obesit? addominale, ad alto rischio.

Despres JP, J Endocrinol Invest 2006; 29 ( 3 Suppl ): 77-81

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Alterato metabolismo glicemico e Polineuropatia Assonale Idiopatica Cronica

La neuropatia periferica degli arti inferiori si manifesta frequentemente in soggetti adulti con sintomi aspecifici come un senso di bruciore non sempre accompagnato a parestesie. In molti pazienti la sintomatologia ? lentamente progressiva, prevalentemente sensitiva o sensitivo-motoria e all’esame elettrofisiologico ? documentabile un interessamento assonale periferico. Solo nel 7-30% dei casi ? possibile individuare la causa e la neuropatia viene classificata alltrimenti come Polineuropatia Assonale Idiopatica Cronica (PAIC).

Nei soggetti con esami strumentali normali ? ancor pi? arduo formulare una diagnosi eziologica che riconosce tra le sue cause pi? comuni il diabete mellito (DM) oltre che malattie ereditarie, esposizione a tossine e l’amiloidosi primaria. Nei casi di PAIC le alterazioni del metabolismo glicemico non diagnosticate hanno una frequenza molto pi? elevata rispetto alla popolazione normale in cui si attesta su un valore del 33% (stime del Center for Disease Control and Prevention (CDC) ) utilizzando i criteri dell’American Diabetes Association (ADA) per la diagnosi di DM e di prediabete (IFG)

In un recente lavoro apparso sugli Archives of Neurology un gruppo di ricercatori dell’Arizona ha definito la prevalenza di alterazioni del metabolismo glicemico in 100 pazienti con PAIC identificati, attraverso uno studio retrospettivo di 24 mesi, dal gennaio 2003 al gennaio 2005. I soggetti sono stati sottoposti ad una completa valutazione neurologica strumentale associata alla determinazione di glicemia a digiuno e categorizzati secondo i criteri consigliati dalle linee guida ADA (American Diabetes Association 2003) compreso un test da carico di glucosio (OGTT) per la determinazione del tipo di alterazione metabolica.

PAIC – frequenza di alterazioni metaboliche identificate con glicemia e test da carico sec. criteri ADA in 100 casi
. Glicemia a digiuno Test da carico p IC 95%
Metabolismo glicemico normale 61 38 0.001 10-35
Metabolismo glicemico alterato 39 62 0 0
IFG 36 38 0 0
DM 3 24 0 0
tratto da Hoffman-Snyder, C. et al. Arch Neurol 2006;63.

I risultati hanno mostrato una prevalenza di alterazioni del metabolismo glicemico a digiuno nel 62% dei pazienti con PAIC, valore doppio rispetto a quello della popolazione generale corrispondente per l’et?. Applicando i parametri proposti dalle linee guida ADA, la determinazione della glicemia ha permesso l’identificazione di 39 soggetti con alterato metabolismo glicemico a digiuno, dei quali 36 con IFG e 3 con DM, mentre l’OGTT ha individuato alterazioni metaboliche nel 62% dei soggetti, ponendosi come test ad elevata detection rate rispetto alla sola glicemia (p.001). Inoltre la stratificazione dei pazienti secondo i tre tipi di neuropatia (sensitiva, sensitivo-motoria e neuropatia delle piccole fibre) non ha evidenziato percentuali di anomalie metaboliche significativamente differenti tra gruppi.

In conclusione lo studio conferma che le alterazioni del metabolismo glicemico rappresentano un fattore di rischio estremamente importante per la PAIC e in questo contesto l’elevata capacit? diagnostica dell’OGTT offre al clinico uno strumento accurato e semplice per l’inquadramento dei pazienti affetti da una polineuropatia cronica degli arti inferiori ad eziologia sconosciuta. Comunque saranno necessari nuovi studi per meglio definire i nessi di causalit? tra alterazioni dei nervi periferici e alterato metabolismo glicemico.

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Artrite reumatoide: rischio aterosclerotico e criteri diagnostici

L’evidenza che i soggetti affetti da Artrite Reumatoide (AR) siano pi? esposti a morte cardiovascolare precoce, indipendentemente dai rischi specifici, ripropone l’attenzione sull’infiammazione quale causa aggiuntiva nel processo di aterogenesi in questi pazienti. E’ noto che nell’AR una terapia efficace richiede una diagnosi precoce e un altrettanto precoce trattamento con farmaci che modificano l’evoluzione della malattia ( DMARDs ). Questo permette di ottenere effetti significativi che incidono, a lungo termine, su morbilit? e mortalit?. L’impiego di criteri clinici da parte del MMG potrebbe facilitare il sospetto di AR e il tempestivo invio allo specialista reumatologo per la conferma diagnostica e l’inizio del trattamento che permette esiti favorevoli a lungo termine in una malattia in cui, fin dal suo esordio, ? presente un aumentato rischio aterosclerotico.
AR e aterosclerosi
In uno studio caso-controllo pubblicato sugli Annals of Internal Medicine gli autori forniscono interessanti indicazioni e nuove evidenze sui rischi cardiovascolari indotti dall’attivit? infiammatoria, anche in fase iniziale di malattia. L’analisi di 98 pazienti consecutivi e 98 controlli con un’et? media di 48 anni, valutati per il rischio cardiovascolare e con ecografia carotidea ha evidenziato, nonostante un favorevole profilo di rischio, che le placche aterosclerotiche carotidee erano presenti nel 44% dei soggetti affetti da AR rispetto al 15% dei controlli (p< 0,001). La correlazione tra AR e placca carotidea persisteva anche dopo aver considerato et?, livelli di colesterolo, fumo e presenza di ipertensione. Il valore di prevalenza predetto nel gruppo AR era 38,5% (IC 95%: 25,4 ? 53,5) e nei controlli 7,4% (IC 95%: 3,4 ? 15,2). I fattori indipendenti predittivi di placca erano l'et? (p<0.001), il fumo (p<0.014) e l'AR, considerando l'uso di inibitori del TNF (tumor necrosis factor) come un possibile marker di gravit? della malattia. Lo studio infine non ha dimostrato correlazione tra mediatori dell'infiammazione e placca, ma gli indici di flogosi sono stati valutati un'unica volta.
Questo dato e l’impianto stesso dello studio (cross-sectional) rappresentano i suoi limiti pi? evidenti. Pertanto gli autori possono affermare che la placca aterosclerotica a livello carotideo ? pi? frequente nei soggetti con AR rispetto ai controlli, ma non possono dimostrare che l’AR accelera il processo aterosclerotico. Al momento questo meccanismo rimane sconosciuto e potr? essere l’obiettivo di futuri trial clinici orientati a chiarire la relazione tra flogosi e aterosclerosi.
AR e criteri diagnostici
In un contesto di malattia precocemente evolutiva ad interessamento sistemico la diagnosi precoce di AR ? ancor di pi? cruciale per un’efficace gestione condivisa tra MMG e Reumatologo. A questo proposito lo studio di revisione di P Emery dell’Universit? di Leeds ha proposto dei criteri clinici per facilitare il MMG nell’invio allo specialista reumatologo dei nuovi casi di AR in stadio di attivit? infiammatoria iniziale. I criteri sono stati derivati da un’analisi delle conoscenze mediche in materia di tempestivit? di diagnosi, sintomi, trattamento e fattori prognostici della AR. Dall’analisi di revisione sono emerse forti evidenze a supporto dell’osservazione che il danno strutturale si instaura in fase precoce di malattia attiva. Su questa base ? corretto il rapido invio al reumatologo ogni qualvolta c’? un sospetto di AR. Questo sospetto ? motivato dai seguenti criteri:
? Tumefazione di 3 o pi? articolazioni
? Coinvolgimento delle articolazioni meta-tarsofalangee/meta-carpofalangee
? Rigidit? mattutina ≥ 30 minuti
Quindi l’osservazione attenta del paziente con AR pu? migliorare la diagnosi, permette di identificare i soggetti a maggior rischio di evolutivit? e spingere il MMG ad iniziare terapie specifiche orientate al miglioramento della prognosi di una malattia in cui l’infiammazione potrebbe essere coinvolta nel determinare un maggior rischio aggiuntivo cardiovascolare.

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Artrite reumatoide: rischio aterosclerotico e criteri diagnostici

L’evidenza che i soggetti affetti da Artrite Reumatoide (AR) siano pi? esposti a morte cardiovascolare precoce, indipendentemente dai rischi specifici, ripropone l’attenzione sull’infiammazione quale causa aggiuntiva nel processo di aterogenesi in questi pazienti. E’ noto che nell’AR una terapia efficace richiede una diagnosi precoce e un altrettanto precoce trattamento con farmaci che modificano l’evoluzione della malattia ( DMARDs ). Questo permette di ottenere effetti significativi che incidono, a lungo termine, su morbilit? e mortalit?. L’impiego di criteri clinici da parte del MMG potrebbe facilitare il sospetto di AR e il tempestivo invio allo specialista reumatologo per la conferma diagnostica e l’inizio del trattamento che permette esiti favorevoli a lungo termine in una malattia in cui, fin dal suo esordio, ? presente un aumentato rischio aterosclerotico.
AR e aterosclerosi
In uno studio caso-controllo pubblicato sugli Annals of Internal Medicine gli autori forniscono interessanti indicazioni e nuove evidenze sui rischi cardiovascolari indotti dall’attivit? infiammatoria, anche in fase iniziale di malattia. L’analisi di 98 pazienti consecutivi e 98 controlli con un’et? media di 48 anni, valutati per il rischio cardiovascolare e con ecografia carotidea ha evidenziato, nonostante un favorevole profilo di rischio, che le placche aterosclerotiche carotidee erano presenti nel 44% dei soggetti affetti da AR rispetto al 15% dei controlli (p< 0,001). La correlazione tra AR e placca carotidea persisteva anche dopo aver considerato et?, livelli di colesterolo, fumo e presenza di ipertensione. Il valore di prevalenza predetto nel gruppo AR era 38,5% (IC 95%: 25,4 ? 53,5) e nei controlli 7,4% (IC 95%: 3,4 ? 15,2). I fattori indipendenti predittivi di placca erano l'et? (p<0.001), il fumo (p<0.014) e l'AR, considerando l'uso di inibitori del TNF (tumor necrosis factor) come un possibile marker di gravit? della malattia. Lo studio infine non ha dimostrato correlazione tra mediatori dell'infiammazione e placca, ma gli indici di flogosi sono stati valutati un'unica volta.
Questo dato e l’impianto stesso dello studio (cross-sectional) rappresentano i suoi limiti pi? evidenti. Pertanto gli autori possono affermare che la placca aterosclerotica a livello carotideo ? pi? frequente nei soggetti con AR rispetto ai controlli, ma non possono dimostrare che l’AR accelera il processo aterosclerotico. Al momento questo meccanismo rimane sconosciuto e potr? essere l’obiettivo di futuri trial clinici orientati a chiarire la relazione tra flogosi e aterosclerosi.
AR e criteri diagnostici
In un contesto di malattia precocemente evolutiva ad interessamento sistemico la diagnosi precoce di AR ? ancor di pi? cruciale per un’efficace gestione condivisa tra MMG e Reumatologo. A questo proposito lo studio di revisione di P Emery dell’Universit? di Leeds ha proposto dei criteri clinici per facilitare il MMG nell’invio allo specialista reumatologo dei nuovi casi di AR in stadio di attivit? infiammatoria iniziale. I criteri sono stati derivati da un’analisi delle conoscenze mediche in materia di tempestivit? di diagnosi, sintomi, trattamento e fattori prognostici della AR. Dall’analisi di revisione sono emerse forti evidenze a supporto dell’osservazione che il danno strutturale si instaura in fase precoce di malattia attiva. Su questa base ? corretto il rapido invio al reumatologo ogni qualvolta c’? un sospetto di AR. Questo sospetto ? motivato dai seguenti criteri:
? Tumefazione di 3 o pi? articolazioni
? Coinvolgimento delle articolazioni meta-tarsofalangee/meta-carpofalangee
? Rigidit? mattutina ≥ 30 minuti
Quindi l’osservazione attenta del paziente con AR pu? migliorare la diagnosi, permette di identificare i soggetti a maggior rischio di evolutivit? e spingere il MMG ad iniziare terapie specifiche orientate al miglioramento della prognosi di una malattia in cui l’infiammazione potrebbe essere coinvolta nel determinare un maggior rischio aggiuntivo cardiovascolare.

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Dall?International Journal of Epidemiology: obesit? e salute

L’Organizzazione Mondiale della Sanit? considera l’obesit? una vera e propria epidemia che sta si sta espandendo a macchia d’olio non solo nei paesi ricchi ma anche in quelli pi? poveri. L’epidemia del secolo. Il segnale d’allarme ? stato recepito dagli organi governativi di competenza, che stanno valutando quale strategia di politiche sanitarie adottare per contenere la crescita della curva dell’indice di massa corporea (BMI, body mass index ). Anche gli organi scientifici prendono in seria considerazione il problema, come dimostra il numero crescente di pubblicazioni sui fattori di rischio che stanno alla base di questa epidemia. Ma dietro questo messaggio – chiaro ed inequivocabile – ci sono troppe poche linee-guide evidence-based per la prevenzione e cura dell’obesit? che possano garantire risultati sicuri a lungo termine. Cos? scrivono Debbie Lawlor dell’Universit? di Bristol e Nish Chaturvedi dell’Imperial College al St Mary’s, nell’editoriale che introduce lo speciale dell’ International Journal of Epidemiology dedicato al problema sanitario dei chili di troppo.
Ma si tratta di un reale problema di salute pubblica o piuttosto di una questione di panico morale? Se lo chiedono il professore di legge Paul Campos dell’Universit? del Colorado, il sociologo Abigail Saguy dell’Universit? della California, il nutrizionista Paul Ernsberger dell’Universit? del Cleveland, il politologo Eric Oliver dell’Universit? di Chigago, e il fisiologo dell’attivit? fisica Glenn Gaesser dell’Universit? della Virginia. I cinque colleghi statunitensi aprono un serrato dibattito, sull’ International Journal of Epidemiology, su quanto e cosa ? noto sulla relazione obesit?, grasso e salute. Le agenzie di salute pubblica in tutto il mondo si stanno rimboccando le maniche per trovare le giuste strategie ?per mitigare la presunta malattia dell’obesit?? che sembra presentata come una delle principali cause di mortalit? nel mondo, ma non si tratta forse di un allarmismo esagerato mosso da fattori culturali e politici? Si pu? davvero parlare di epidemia?
Paul Campos e colleghi sottolineano innanzitutto che non siamo davanti a una epidemia perch? di fatto non si registra nessuna crescita esponenziale della curva del peso medio della popolazione globale. Negli Usa, ad esempio, si osserva una crescita parziale della curva del peso medio: la maggior parte della popolazione pesa solo 3-5 chili in pi? della generazione precedente. ?Un guadagno di peso medio che pu? essere spiegato con un introito di 10 calorie in pi? al giorno, pari a un Big Mac ogni due mesi!?. Nulla a che vedere con le statistiche presentate dai media, che demonizzano i cibi ipercalorici e i corpi extrasized, e con quelle delle airlines statunitensi che valutano il peso medio dei loro passeggeri pari a 90 chilogrammi.
Inoltre non ? ancora chiaro quali siano i principali effetti sulla salute globale dell’incremento della obesit? e del sovrappeso: malattie cardiovascolari, diabete, aspettativa di vita? Se si mette in relazione il famoso BMI con il rischio di insorgenza di sviluppare queste malattie o di compromettere le aspettative di vita, si riscontrano solo piccole differenze all’interno di una ampio intervallo di BMI e che la relazione pu? cambiare tra diversi sottogruppi etnici. E non ? nemmeno provato che perdere peso faccia sempre e comunque bene. Anzi diete fai-da-te come pure molte delle diete presentate bollino di qualit? (come la popolare Atkins), supplementi dietetici, la mania della magrezza hanno gravi effetti collaterali sulla salute. Quello che incide sulla qualit? della vita e sul rischio di malattia ? fondamentalmente la qualit? della vita (alimentazione sana, attivit? fisica, controllo della pressione arteriosa, ecc.).
Campos e colleghi sono dell’idea che i dati scientifici che supportano la ?guerra al grasso? sono scarsi. E che l’attenzione dei media sull’obesit? ? cresciuta esponenzialmente sia in numero (da 62 articoli pubblicati nelle Lexis-Nexis Us News Sources nel 1980 a pi? di 6500 nel 2004) sia in allarmismo esagerato (l’uso delle ?metafore allarmanti? compare in pi? della met? degli articoli). Le ragioni? Innanzitutto economiche e politiche: le industrie del benessere non solo ?influenzano? la comunicazione sui media, ma anche la ricerca clinico-scientifica. Come? Finanziando gli studi che si incentrano sulla relazione tra obesit? e salute lasciando in secondo piano altri campi della problematiche che meriterebbero maggiore attenzione; supportando le attivit? delle societ? scientifiche che promuovono l’urgenza della ?epidemia dell’obesit??. Poi vi sono i politici che tendono a ricondurre un problema sanitario che interessa l’intera popolazione e il suo impatto sui costi sanitari alla ?responsabilit? individuale? del singolo cittadino. br>
Il crescente interesse dei media ? una dimostrazione di ?panico morale?. Un fenomeno tipico di quelle fasi di rapido cambiamento sociale, che porta a un’esagerazione o falsificazione dei fattori di rischio, alla proiezione delle ansie della societ? su un gruppo stigmatizzato e ad una discriminazione di genere e di razza. Studi di sociologia rilevano che ? comune giudicare negativamente le persone in sovrappeso, ancor di pi? se di colore o delle classi socioeconomiche pi? basse; inoltre, le madri lavoratrici vengono spesso ritenute le responsabili della cattiva alimentazione dei figli e dei loro problemi con la bilancia. ?Le evidenze scientifiche dovrebbero spingere i professionisti e i politici della salute a valutare se ha senso parlare dell’BMI come di un barometro della salute pubblica?, concludono Campos e colleghi. ?E dovrebbero soffermarsi a valutare se l’idea diffusa di un’epidemia dell’obesit? non promuova invece interessi politici ed economici di certi gruppi, danneggiando coloro che vengono ingiustamente accusati o stigmatizzati?.
Uno dei membri del Childhood Programme of the International Obesity Taskforce, Tim Lobstein, interviene puntualizzando che il dibattito sull’obesit? e l’implementazione di una risposta politica non dovrebbe riguardare il panico morale ma piuttosto i diritti dell’uomo. ? necessario un approccio democratico che tenga in considerazioni anche a quelle voci non ascoltate che sono spesso colpevolizzate e oggetto dei dibattiti politici ? i poveri, i neri e le madri che lavorano.
Soowon Kim del Center on Social Disparities in Health dell’Univesit? della California, e Barry M Popkin del Department of Nutrition del North Carolina at Chapel Hill considerano la tesi di Campos e colleghi per la metodologia su cui ? stata costruita. Concordano che vi siano alcune complessit? delle relazioni complesse tra sovrappasso e problemi di salute e velati interessi economici entrano in gioco della ricerca che viene fatta e nelle relative campagne promozionali ma rigettano la teoria del panico morale e dell’isteria culturale. ?Siamo davanti a un problema di salute pubblica che merita attenzione?.

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