Statine e insorgenza di diabete in età post-menopasusale

Vi sono ormai varie segnalazioni che l’uso delle statine possa aumentare il rischio di diabete mellito (DM) e il dato sembra ancora più preoccupante per le donne in post-menopausa. Quest’ultima segnalazione viene da Culver, una farmacologa della Mayo Clinic, che ha pubblicato sugli Archives uno studio proveniente dai dati del Women’s Health Initiative (WHI) riguardanti 153.840 donne in periodo post-menopausale tra i 50 e 79 anni. L’informazione sull’uso delle statine è stata raccolta all’arruolamento e al terzo anno; al basale il 7.04% delle donne assumeva statine (30% simvastatina, 27% lovastatina, 22% pravastatina, 12.5% fluvastatina e 8% atorvastatina). Durante il periodo di osservazione si sono riscontrati 242 casi di diabete con un rischio del 71%, anche se dopo aggiustamento per variabili potenzialmente confondenti è sceso al 46% nelle donne con malattie cardiovascolari e al 48% in quelle senza. L’associazione è risultata essere un effetto di classe. Questi risultati confermano (anzi  aggravano) i dati precedenti pubblicati nel 2010 in una metanalisi di Sattar (Lancet 2010; 375: 735- 742), che però esplicitamente dichiarava che il rischio di diabete era controbilanciato dalla diminuzione del rischio di cardiopatia ischemica, e nel 2011 in una più recente metanalisi di Ray (JAMA 2011;305(24): 2556-2564) che peraltro si riferiva soprattutto ad alti dosaggi di statine. Il problema è scottante, perché le statine vengono usate con una frequenza crescente, inclusa la prevenzione primaria, che pure non ha evidenze significative. Sicuramente la polemica non è finita, comunque un dato sembra certo: nelle donne in post-menopausa, prima di assegnare una terapia con statine, bisogna valutare bene il rischio di diabete o quantomeno tenere le pazienti sotto stretto controllo.

Culver AL. Statin Use and Risk of Diabetes Mellitus in Postmenopausal Women in the Women’s Health Initiative. Arch Intern Med 2012; 172: 144-152

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Nuovo alert per il dabigatran: utilizzo associato ad un aumento di IMA e SCA?

I clinici devono essere allertati nella gestione di pazienti in trattamento con il nuovo anticoagulante dabigatran. Dopo la consapevolezza che – per la mancanza di dati laboratoristici utili per predire un pericolo di sanguinamento e per l’assenza di un antidoto specifico per una eventuale comparsa di emorragia – vi è una potenziale pericolosità nell’utilizzo del farmaco nei pazienti con insufficienza renale, una nuova segnalazione di pericolo viene dalle conclusioni di un lavoro recentissimo pubblicato sulla edizione online del 9 gennaio degli Archives of Internal Medicine. Poiché nello studio originale RE-LY (Randomized Evaluation of Long-term Anticoagulant Therapy) veniva segnalato che – rispetto ai pazienti con fibrillazione atriale che assumevano il Warfarin – in quelli del gruppo dabigatran si evidenziava un seppur minimo aumento del rischio di IMA, Ken Uchino ricercatore del Cerebrovascular Center della Cleveland Clinic ha predisposto una meta analisi dei vari studi randomizzati e controllati pubblicati su PubMed, Scopus ed il Web of Science sull’utilizzo del dabigatran e che avevano come end point secondari dichiarati l’IMA o le Sindromi Coronariche Acute (SCA). Sono stati identificati 7 studi che avevano reclutato più di 30.000 pazienti. Dabigatran, se confrontato con warfarin, enoxaparina, o la somministrazione di placebo, è risultato essere significativamente associato con un più alto rischio di IMA o SCA, eventi che si sono verificati in 237 dei 20.000 pazienti trattati vs gli 83 dei 10.514 controlli (1.19% vs 0.79%; OR calcolato secondo Mantel-Haenszel di 1.33, 95% CI 1.03-1.71, p = 0.03). Risultato analogo a quello emerso nello studio RE-LY dove l’OR è risultato essere 1.27, (95% CI 1.00-1.61, p = 0.05) o a quello calcolato dopo che la casistica veniva compattata con l’esclusione degli studi di breve periodo (OR 1.33, 95% CI 1.03-1.72, p = 0.03). Queste le lapidarie conclusioni dell’autore ‘clinicians should consider the potential of these serious harmful cardiovascular effects with use of dabigatran’.

Uchino K, Hernandez AV. Dabigatran Association With Higher Risk of Acute Coronary Events Meta-analysis of Noninferiority Randomized Controlled Trials. Arch Intern Med. Published online January 9, 2012. doi:10.1001/archinternmed.2011.1666

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Mezzo di contrasto iodato e funzione tiroidea

Nonostante sia una nozione diffusamente conosciuta, non esistono studi ben condotti che documentino in modo certo l’eventuale interferenza di una somministrazione di mezzo di contrasto (mdc) iodato con la funzione tiroidea. Per tale motivo alcuni colleghi internisti della prestigiosa Harvard Medical School di Boston hanno condotto uno studio caso-controllo il cui rigoroso protocollo è riportato nella Figura 1 acclusa. Negli oltre 4.000 pazienti reclutati vi furono 178 casi di ipertiroidismo incidente e 213 casi di ipotiroidismo. Dopo le opportune e complesse valutazioni statistiche, gli AA riportano che l’esposizione al mdc iodato è accompagnata da un aumento tanto dell’ipertiroidismo incidente (OR 2.50, 95% CI 1.06-5.93, con NNH di 23), quanto dell’ipotiroidismo (OR 3.05, 95% CI .07-8.72, con NNH di 33). L’interesse di questo lavoro è duplice: da un lato la conferma rigorosa di una possibile negativa interferenza del mdc iodato con la funzione tiroidea, dall’altro che tale interferenza si esplica non solo con un aumentato rischio di ipertiroidismo (come la maggior parte dei medici pensa possa accadere), ma anche con la situazione opposta di ipotiroidismo.

Rhee CM et al. Association Between Iodinated Contrast Media Exposure and Incident Hyperthyroidism and Hypothyroidism. Arch Intern Med 2012; 172(2): 153-159 doi:10.1001/archinternmed.2011.677

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Iperaldosteronismo primario: ricordiamoci anche del paratormone

L’ormone paratiroideo (PTH) stimola la secrezione di aldosterone e la proliferazione cellulare nella corticale surrenale. Nei ratti l’iperaldosteronismo è associato ad iperparatiroidismo e ci sono quindi ragioni per ritenere che il PTH possa guidare l’eccesso di aldosterone anche nell’iperaldosteronismo primario dell’uomo. Per verificare quest’ipotesi, il gruppo italiano di Rossi ha arruolato 105 pazienti ipertesi, dei quali 44 avevano un iperaldosteronismo primario dovuto ad un adenoma (APA) e 61 un’ipertensione essenziale (IE). Gli AA hanno dosato il PTH, il 25-idrossicolecalciferolo e la sua forma attiva, il calcitriolo, il Ca2+(totale e ionizzato), il Fosforo inorganico, il Mg2+, il K+ e l’escrezione urinaria di Ca2+, Fosforo e deossipiridinolina. Nei pazienti con APA questi dosaggi sono stati effettuati dopo la surrenectomia o blocco dei recettori dei mineralcorticoidi. Il risultato è stato che, confrontati con i pazienti con IE, i soggetti con iperaldosteronismo (da APA) avevano più alti livelli plasmatici di PTH (+31%), nonostante una simile escrezione urinaria di calcio e simile deficit di vitamina D. Nei pazienti con APA la surrenectomia ha normalizzato in modo significativo i livelli di PTH (p=0.002) e ha aumentato il calcio ionizzato (p<0.001). La curva della relazione inversa PTH / Ca ionizzato era più ripida nell’APA rispetto all’IE, ma si normalizzava dopo surrenectomia. In pratica nell’iperaldosteronismo un’aumentata sensibilità delle paratiroidi al deficit di Ca++ porta ad un aumento del PTH. Questo lieve iperparatiroidismo, agendo sui recettori del PTH, nell’APA può contribuire a mantenere l’iperaldosteronismo nonostante la soppressione della formazione di angiotensina II.

Maniero C et al. J Hypertens 2012; 30(2): 390-395
doi: 10.1097/HJH.0b013e32834f0451

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Idrabiotaparinux nel trattamento post acuto dell’embolia polmonare

Si è da poco concluso – ed i risultati sono stati recentemente pubblicati su Lancet – un ponderoso trial clinico che ha messo a confronto l’abituale trattamento dell’embolia polmonare (enoxaparina seguita da warfarin) con uno schema terapeutico innovativo dove in sostituzione del warfarin viene utilizzato l’idrabiotaparinux, un pentasaccaride sintetico inibitore indiretto e reversibile del fattore X attivato, con una emivita superiore ai 60 giorni e quindi somministrabile a dose fissa una volta la settimana. Il trial multicentrico, intention-to-treat, ha ricercato la non inferiorità (margine di non inferiorità 2.0) dell’innovativo trattamento rispetto a quello convenzionale; dopo aver escluso i pazienti che erano in stato di gravidanza, che avevano sanguinamento attivo, affetti da insufficienza renale o ipertensione maligna o che erano ad alto rischio di morte, emorragia o reazioni avverse ai farmaci, sono stati reclutati oltre 3.000 pazienti randomizzati a ricevere enoxaparina 1.0 mg / kg due volte al giorno per 5-10 giorni dopo l’episodio di embolia polmonare, seguita da warfarin (INR target 2.0-3.0) o da idrabiotaparinux per iniezione sottocutanea (dose iniziale 3.0 mg /una volta settimana) da protrarsi per 3 o 6 mesi. L’esito primario di efficacia era la ricorrenza della tromboembolia venosa 99 giorni dopo la randomizzazione. L’esito di sicurezza principale è stato il sanguinamento clinicamente rilevante (maggiore o non-maggiore) in tutti i pazienti al giorno 99. Questi i risultati (sintetizzati nelle due Figure accluse)

  • un tromboembolismo venoso ricorrente si è verificato in 34 (2%) dei 1.599 pazienti randomizzati a ricevere enoxaparina-idrabiotaparinux e in 43 (3%) dei 1.603 pazienti randomizzati a ricevere enoxaparina-warfarin [OR 0.79, IC 95% 0.50-1.25, p (non -inferiorità) = 0.0001]
  • un sanguinamento clinicamente rilevante è stato rilevato in 72 (5%) dei 1.599 pazienti nel gruppo enoxaparina-idrabiotaparinux e in 106 (7%) dei 1.603 pazienti nel gruppo enoxaparina-warfarin [OR 0.67, IC 95% 0.49-0.91, p (superiorità) = 0.0098]
  • i risultati non si modificavano se il trattamento veniva prolungato per 3 o 6 mesi.

Ove confermati da altri lavori, questi dati e le relative conclusioni potrebbero far modificare i nostri comportamenti terapeutici.

Buller HR et al. Enoxaparin followed by once-weekly idrabiotaparinux versus enoxaparin plus warfarin for patients with acute symptomatic pulmonary embolism: a randomised, double-blind, double-dummy, non-inferiority trial. Lancet. 2011 Nov 28

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Attenzione a trattare in modo acritico le batteriurie, anche di Enterococchi

In un recente articolo pubblicato sugli Archives of Internal Medicine alcuni ricercatori dell’Università della Pennsylvania hanno valutato, in una revisione retrospettiva delle cartelle cliniche dei pazienti ricoverati in 2 ospedali di insegnamento, l’appropriatezza del comportamento clinico di fronte alla positività dell’urinocoltura per presenza di Enterococco; è probabile che le conclusioni di questo lavoro possano essere traslate per tutte le altre forme batteriche o micotiche che si possono ritrovare nelle urinocolture che spesso vengono richieste per i pazienti ricoverati. Gli autori della pubblicazione hanno innanzitutto classificato i 375 pazienti di cui hanno avuto modo di controllare la cartella clinica in pazienti affetti da infezione del tratto urinario (UTI) o pazienti portatori di batteriuria asintomatica (ABU), applicando per questa suddivisione i criteri ben noti e specificati anche nelle ultime Linee Guida americane del 2005 (vedi Tabella acclusa). Ovviamente l’utilizzo dell’antibioticoterapia è stato ritenuto appropriato per i primi, ma non per i secondi. Secondo gli stringenti parametri di selezione, dei 375 pazienti con una positività urinaria per Enterococco, sono state prese in considerazione solamente 339 urinocolture; di queste 183 (54,0%) erano riferibili a una condizione di ABU e 156 (46,0%) di UTI. Dei 289 pazienti di cui si disponeva anche l’analisi dell’urina, la piuria era presente nel 70% dei 140 pazienti con UTI (98/140pazienti) e nel 42.3% dei 149 pazienti con ABU (63/149 pazienti), con un OR di 3.19, 95% CI 1.96-5.18. I colleghi ospedalieri hanno inappropriatamente trattato con antibiotici il 32.8% (60 /183) dei pazienti etichettati come ABU e ciò è avvenuto sulla scorta della presenza di piuria che, all’analisi multivariata, è risultata essere l’unica variabile associata con l’uso inadeguato degli antibiotici (OR 3.27, 95% CI 1.49-7.18). Nelle conclusioni gli AA richiamano quindi l’attenzione dei clinici sulla necessità di una corretta stratificazione dei pazienti con presenza di batteriuria, nel caso specifico da Enterococco, per evitare un uso inappropriato di antibiotici che potrebbe indurre l’insorgenza di pericolose resistenze. 

Lin E et al. Overtreatment of Enterococcal Bacteriuria. Arch Intern Med. 2012;172(1):33-38. doi:10.1001/archinternmed.2011.565

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L’aspirina nella prevenzione del cancro colo-rettale

Erano già noti gli effetti positivi dell’aspirina nella prevenzione del carcinoma colo-rettale, ma i dati di supporto a questa tesi erano basati su studi osservazionali, mentre gli studi randomizzati avevano avuto come end point primario il rischio di adenomi (CAPP1). Il CAPP2 (Colorectal Adenoma/ Carcinoma Prevention Programme) è stato il primo trial randomizzato in doppio cieco che si è posto come end point primario la prevenzione del cancro colo-rettale mediante l’assunzione di aspirina. 861 pazienti con sindrome di Lynch (cancro del colon ereditario senza poliposi) sono stati trattati per almeno 2 anni e seguiti per 10 anni per valutare se l’ASA – somministrata per un lungo periodo di tempo – agisse favorevolmente per la prevenzione di questa patologia oncologica. Il risultato dello studio ha evidenziato che 600 mg di aspirina somministrati per almeno 2 anni procurano una evidente protezione contro il cancro colo-rettale ereditario  (ma non solo), allo stesso modo di una sorveglianza colonscopica. L’effetto comincia già dal 3°-4° anno dopo l’arruolamento, è ben evidente a 6 anni e ancora di più a 11 anni (fig. 2,3). È palese quindi l’opportunità della prescrizione di aspirina nei soggetti ad alto rischio. Non è ancora ben chiaro il meccanismo con cui l’aspirina agisce e se agisca anche su altri tipi di cancro; inoltre rimane da definire meglio il dosaggio ottimale, anche se non sono stati riportati eventi collaterali gravi (si stanno studiando comunque dosaggi più bassi, come quelli adottati per la prevenzione delle malattie cardiovascolari). Infatti evidenze indirette suggeriscono che dosaggi più bassi possono essere utilizzati ed avere ugualmente un buon effetto protettivo. Ma per questo si aspettano i risultati del CAPP 3. 

Burn J et al. Long-term effect of aspirin on cancer risk in carriers of hereditary colorectal cancer: an analysis from the CAPP2 randomised controlled trial. Lancet 2011; 378: 2081-2087

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Iperglicemia e atrofia ippocampale: studio PATH

Patologie come la demenza senile sono collegate ad un restringimento del cervello e ad un’atrofia talvolta collegata all’area ippocampale. Tali condizioni sono più probabili in soggetti che presentano livelli elevati di glucosio nel sangue.

 

Questi i risultati di una ricerca recentemente apparsa sulla rivista scientifica Neurology e condotta dal prof.Nicolas Cherbuin dell’Australian National University di Canberra. Soggetti diabetici possono dunque presentare maggiori rischi in tal senso di sviluppare patologie neurologiche. La ricerca ha coinvolto 249 persone tra i 60 e 64 anni considerando i livelli di zucchero nel sangue definiti normali dall’Organizzazione mondiale della Sanita’.

Bibliografia: Cherbuin N, Sachdev P, Anstey KJ. Higher normal fasting plasma glucose is associated with hippocampal atrophy: The PATH Study. Neurology. 2012 Sep 4;79(10):1019-26

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L’ accesso ai nuovi farmaci in triplice terapia

Nei prossimi mesi saranno introdotti nel mercato Italiano due nuovi inibitori della proteasi per la cura dell’epatite C. In generale, si può affermare  che i nuovi farmaci innovativi aumentano i tassi di guarigione del 25-60% in ragione della fibrosi e tipo di risposte ai trattamenti pregressi.
Purtroppo l’introduzione di questi primi due farmaci innovativi pone grossi problemi di sostenibilità economica, sia per l’elevato costo del singolo cocktail terapeutico, sia per l’elevato numero dei candidati al trattamento antivirale.

In vista  di questi grandi cambiamenti terapeutici per il trattamento dell’HCV, l’Associazione EpaC Onlus – la più grande e rappresentativa dei malati di epatite Italiani – si è posta il problema di quale fosse il modo migliore di rappresentare i bisogni dei pazienti ai tavoli di lavoro con Istituzioni pubbliche e associazioni scientifiche.
L’Associazione ha quindi proposto ai propri sostenitori un sondaggio finalizzato a capire quali fossero gli orientamenti e le opinioni sull’introduzione della triplice terapia.

I risultati del sondaggio,sono stati presentati a 10 convegni Italiani e ne è stata fatta una pubblicazione scientifica accettata sotto forma di Poster presentation.

Un altro grande successo a conferma della nostra professionalità e credibilità.

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Bassi livelli di vitamina D e rischio di gravi eventi avversi

Uno studio della university of Washington, Seattle, conclude che la soglia di concentrazione di vitamina 25-(OH)D associata a un aumentato rischio di eventi clinici avversi gravi – frattura femorale, infarto miocardico, cancro o morte – è intorno a 50 nmol/L (20 ng/mL); tuttavia questo valore medio non deve essere considerato in maniera statica ma subisce variazioni stagionali. Nell’analisi sono stati considerati i dati di 1.621 pazienti, adulti di razza bianca, provenienti dal Cardiovascular Health Study, condotto negli Stati Uniti tra il 1992 e il 2006. Durante un periodo di follow-up della durata media di 11 anni, 1018 pazienti (il 63% del totale) sono stati colpiti da uno degli eventi che i ricercatori avevano deciso di controllare; nel dettaglio, si sono avute 137 fratture d’anca, 186 infarti del miocardio, 335 casi di tumore e 360 decessi. I ricercatori hanno verificato che l’associazione tra valori bassi nella concentrazione di 25-idrossicolecalciferolo ed eventi avversi subisce una variazione stagionale. Il rischio è risultato superiore del 24% in corrispondenza di una concentrazione inferiore a uno Z score specifico stagionale di -0,54; la corrispondente concentrazione specifica stagionale di 25-(OH)D in inverno, primavera, estate e autunno è stata rispettivamente di 43, 50, 61 e 55 nmol/L (ossia 17, 20, 24 e 22 ng/mL). In sintesi risulta che, nella valutazione del rischio, risulta più appropriato non considerare livelli fissi di 25-(OH)D ma valori variabili in funzione della stagione.

Ann Intern Med, 2012; 156(9):627-34

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