Diabete: terapia intensiva riduce rischio cardiovascolare

La terapia intensiva del diabete di “tipo 1” riduce il susseguente rischio cardiovascolare: tale approccio tende a ridurre anche le complicazioni microvascolari e neurologiche del diabete. Il presente studio presenta caratteristiche uniche per quanto riguarda la documentazione obiettiva a lungo termine del controllo glicemico, dei fattori di rischio di malattie cardiovascolari conclamati e presunti, e dello status delle complicazioni microvascolari e cardiovascolari. L’ampia riduzione nel rischio di eventi cardiovascolari migliorer? ulteriormente i benefici sia sanitari che economici che si progetta perverranno dalla terapia intensiva del diabete. Sulla base di questi dati, comunque, i target glicemici andrebbero riconsiderati. La comunit? medica necessit? di migliori mezzi, strategie differenti ed un diverso atteggiamento mentale se speriamo di migliorare e mantenere il controllo glicemico nei pazienti con diabete di tipo 1 e minimizzare gli effetti collaterali. Finch? quest’ultimo scopo non verr? raggiunto mediante la disponibilit? di nuove terapie ed approcci innovativi, la traslazione dei dati provenienti da studi come questo potrebbero non alterare la pratica clinica per anni. Date le complicazioni e la mortalit? attribuite alle malattie cardiovascolari fra i pazienti con diabete di “tipo 1”, questo ritardo sarebbe quanto mai infausto.

N Engl J Med. 2005; 353: 2643-53 e 2707-9

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Olio di pesce previene caduta variabilit? frequenza cardiaca da inquinamento

L’integrazione giornaliera di acidi grassi omega-3 previene una caduta nella variabilit? della frequenza cardiaca associata all’esposizione al chiuso a particolato fine, un comune inquinante ambientale. Una diminuzione di questo parametro aumenta il rischio dei soggetti suscettibili di andare incontro a gravi aritmie cardiache. In futuro, quando si avr? la possibilit? di identificare i soggetti pi? sensibili agli effetti del particolato fine, sar? possibile raccomandare a questi pazienti l’integrazione degli acidi grassi omega-3 onde ridurne il rischio cardiovascolare. Nel presente studio ? stato dimostrato che gli effetti di questo inquinante risultano significativamente ridotti in soggetti anziani che assumono due grammi al giorno di olio di pesce. Sono comunque necessari ulteriori studi per confermare i suoi effetti e chiarirne la correlazione dose-risposta.
(Am J Respir Crit Care Med. 2005; 172: 1534-40)

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L?Ibuprofene sembra ritardare o prevenire la malattia di Parkinson

Uno studio, coordinato da Alberto Ascherio dell?Harvard School of Public Health, ha valutato se l?impiego di farmaci antinfiammatori non steroidei ( FANS ) fosse associato ad un pi? basso rischio di malattia di Parkinson in un?ampia coorte di uomini e donne negli Stati Uniti.

Lo studio ha interessato 146.948 persone arruolate nel Cancer Prevention Study II Nutritional Cohort.

I Ricercatori hanno osservato che i soggetti che avevano fatto uso regolare di Ibuprofene ( Brufen ) presentavano un rischio ridotto del 35% di sviluppare la malattia di Parkinson rispetto ai non utilizzatori.

Rispetto ai non utilizzatori, il rischio relativo ( RR ) era 0.73 per coloro che assumevano meno di 2 compresse a settimana di Ibuprofene, 0.72 per 2-6.9 compresse a settimana e 0.62 per 1 o pi? compresse al giorno ( p per trend = 0.03 ).

Nessuna associazione ? stata trovata tra l?assunzione di Aspirina, altri farmaci antinfiammatori non steroidei o Acetaminofene ( Paracetamolo ) ed il rischio di malattia di Parkinson.

I risultati indicano che l?Ibuprofene pu? ritardare o prevenire l?insorgenza di malattia di Parkinson.

Chen et al, Ann Neurol 2005; 58: 963-967

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Artrite reumatoide: autoanticorpi indicano esiti

Il profilo autoanticorpale, ed in particolare gli autoanticorpi anti-CCP ed il fattore reumatoide, pu? aiutare ad identificare i pazienti con artrite reumatoide ad alto rischio di esiti infausti. Questi dati confermano l’elevata specificit? degli anti-CCP per l’artrite reumatoide e dimostrano chiaramente che il fattore reumatoide al di sopra di una certa soglia ? parimenti valido per la previsione di un’artrite reumatoide con esiti meno favorevoli. Bench? il trattamento precoce di questa malattia prevenga la progressione del danno articolare, una diagnosi differenziale affidabile potrebbe risultare difficile negli stadi iniziali dei disordini infiammatori articolari. Gli autori dello studio suggeriscono una valutazione della malattia in fase iniziale mediante il test del fattore reumatoide; in caso di risultato al di sopra delle 50 U/ml, ? opportuno valutare gli anticorpi anti-CCP, ed infine gli anticorpi anti-RA33.
(Ann Rheum Dis 2005; 64: 1731-6)

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Salute del cuore? Questione di testa

Possiamo chiamarlo Effetto Northridge, dal nome del potente terremoto che ha colpito una zona nelle vicinanze di Los Angeles alle 4.30 di un mattino di gennaio nel 1994. Nel giro di un’ora, e per tutto il resto della giornata, i paramedici impegnati a soccorrere persone schiacciate o intrappolate dentro agli edifici hanno dovuto a far fronte a una seconda ondata di decessi provocati da attacchi cardiaci, tra gente che era uscita illesa dal sisma. Nei mesi seguenti, i ricercatori di due universit? hanno esaminato i referti dei medici legali e hanno rilevato un impressionante balzo in avanti dei decessi per crisi cardiovascolari, da una media giornaliera di 15,6 ai 51 del giorno del terremoto.

Per dirla in parole povere, si erano spaventati a morte.
La medicina popolare ha sempre ammesso che un improvviso spavento o una cattiva notizia pu? essere fatale. Per lungo tempo per?, i cardiologi hanno fatto resistenza all’idea che il cuore, la vigorosa sorgente della vita, possa essere sconvolto in modo fatale da un evento mentale.

Ma non sono soltanto gli shock improvvisi come i terremoti ad uccidere. ? sempre pi? dimostrato che stati emotivi cronici come lo stress, l’ansia, l’ostilit? e la depressione impongono un pesante tributo. Il rischio rappresentato dai fattori psicologici e sociali ha un’incidenza almeno pari a quella dell’obesit?, del fumo e dell’ipertensione. I ricercatori cominciano adesso a capire perch?. E un numero sempre maggiore di ospedali sta traducendo questa migliore comprensione in programmi che si ripropongono di combattere le malattie cardiache nel pi? improbabile dei luoghi di origine: il cervello.

Debra Moser, professoressa di scienze infermieristiche all’universit? del Kentucky, present? anni fa i risultati di una sperimentazione condotta su 536 pazienti che avevano subito attacchi di cuore. Aveva misurato i loro livelli di ansia con un classico test psicologico a risposta multipla, e aveva controllato se avevano avuto ulteriori complicazioni – come un secondo attacco cardiaco – durante il periodo trascorso in ospedale. Quelli dal cui test erano usciti i valori di ansia pi? elevati avevano il quadruplo delle possibilit? di andare incontro a complicazioni rispetto a quelli che avevano registrato i punteggi pi? bassi.

I medici stanno scoprendo che i fattori psicosociali costituiscono elementi di rischio molto pi? significativi di quello che si pensava in passato. Prendete la depressione. In una persona in buona salute fa raddoppiare, almeno, il rischio di attacco cardiaco, dice Michael Frenneaux, professore di medicina cardiovascolare all’universit? di Birmingham, in Inghilterra. E per le persone che hanno avuto un attacco cardiaco in passato, la depressione quadruplica o addirittura quintuplica il rischio di averne un altro.

Anche l’ostilit? ? un fattore di rischio sempre pi? importante. Elevati livelli di ostilit?, misurati mediante un test standard, fanno aumentare del 29 per cento le possibilit? di morire di malattia cardiaca.
Anche i traumi infantili sembrano avere un impatto sulle malattie cardiache. In una recente inchiesta condotta su oltre 17.000 adulti a San Diego, la dottoressa Maxia Dong, del Centro per il controllo e la prevenzione delle malattie, ha rilevato che il rischio di attacchi cardiaci sale tra il 30 e il 70 per cento in quelle persone che hanno riferito di aver avuto esperienze infantili negative, come abusi fisici, sessuali o emotivi, violenza domestica o familiari che abusavano di droghe o alcol.

E se lo stress nell’infanzia pu? portare a malattie cardiache, qual ? l’effetto dei fattori di stress nella vita corrente (orari di lavoro pi? lunghi, minacce di licenziamento, tracollo dei fondi pensione)? Uno studio dello scorso anno, sulla rivista The Lancet, ha esaminato oltre 11.000 soggetti colpiti da attacco cardiaco in 52 paesi, e ha scoperto che nei dodici mesi precedenti all’infarto i pazienti avevano subito uno stress notevolmente maggiore – al lavoro, in famiglia, per guai finanziari, depressione e altre cause – rispetto a circa 13.000 persone in buona salute.
(Copyright Newsweek – traduzione Fabio Galimberti)

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Un particolare anticorpo pu? fermare la reazione che causa la malattia

Il diabete mellito giovanile o diabete di tipo 1 ? una malattia metabolica causata da un difettoso funzionamento del sistema immunitario: le cellule beta del pancreas che producono l’insulina erroneamente vengono riconosciute come estranee, e quindi attaccate e distrutte dal sistema immunitario. La distruzione delle cellule beta pancreatiche ha una lenta evoluzione nel tempo, ma non d? alcun sintomo fino a quando circa l’80% di esse ? stato distrutto. A questo stadio, i livelli di insulina prodotta raggiungono una soglia critica per l’organismo. Il deficit di insulina si manifesta con i ben noti sintomi della malattia (sete, aumentata produzione di urina, perdita di peso), legati all’aumento dei livelli di glucosio nel sangue.
L’unIca terapia per il diabete tipo 1 ? costituita, da 70 anni a questa parte, da ripetute iniezioni quotidiane di insulina. Cos? per? si corregge solo la conseguenza della distruzione delle beta cellule, ma non la causa della malattia, cio? il difetto del sistema immunitario.
Una recente sperimentazione clinica coordinata da Lucienne Chatenoud presso l’Istituto Necker di Parigi e pubblicata sulla rivista ?New England Journal of Medicine? potrebbe in futuro offrire nuove possibilit? terapeutiche ai pazienti diabetici tipo 1. L’idea alla base dello studio ? di “riordinare” il sistema immunitario, facendo uso di un anticorpo diretto contro la molecola CD3. Questa molecola ? presente sui linfociti T, che sono i principali responsabili dell’attacco auto-immune. Topi di laboratorio trattati con un anticorpo anti-CD3 non sviluppano diabete. I meccanismi di questo effetto sono solo in parte conosciuti, ma rispecchiano l’azione dell’anticorpo sui linfociti T, cui segue l’attivazione di linfociti regolatori della risposta immunitaria. In seguito a queste osservazioni su topi, i ricercatori hanno raccolto, entro 4 settimane dalla diagnosi di diabete, 80 pazienti tra i 12 ed i 39 anni. Seguendo la procedura comune a tutti gli studi in cui un nuovo farmaco viene sperimentato sull’uomo, met? dei pazienti ha ricevuto l’anticorpo anti-CD3. L’altra met? ha invece ricevuto un’innocua sostanza di controllo, detta placebo. Per garantire la massima imparzialit? di questi studi, n? pazienti n? medici curanti possono sapere se la sostanza somministrata ? l’anticorpo o il placebo (studio “in doppio cieco”).
La ricerca ha mostrato che i pazienti che avevano ricevuto l’anticorpo anti-CD3 mantenevano, a un anno e mezzo di distanza, una maggiore produzione residua di insulina rispetto ai soggetti trattati con placebo. In altre parole, la somministrazione dell’anticorpo era in grado di fermare l’ulteriore distruzione delle beta cellule pancreatiche ancora presenti. Di conseguenza, i pazienti trattati con l’anticorpo anti-CD3 mantenevano livelli di glicemia ottimali con dosi assai inferiori di insulina. NeI 75% dei pazienti trattati con l?anticorpo, ma in nessuno di quelli trattati con placebo, tali dosi di insulina erano, un anno e mezzo dopo la diagnosi, addirittura inferiori alle 0,25 unit? per kilogrammo al giorno (circa 18 unit? al giorno per un individuo di media statura). In altre parole, nel 75% dei pazienti trattati con l’anticorpo anti-CD3 si pu? parlare – almeno per questo periodo di osservazione di un anno e mezzo – di una quasi completa guarigione in termini metabolici. Quali sono i rischi della terapia con anti-CD3? Se ne sa poco, dato il breve periodo di osservazione. Gli effetti collaterali sono stati tuttavia modesti, e limitati al periodo (6 giorni) di somministrazione del farmaco. E? importante notare che non si tratta di una terapia immunosoppressiva del tipo utilizzato per i trapianti d’organo. L’anticorpo anti-CD3 non ? infatti stato somministrato per mesi o anni, ma per soli 6 giorni: quindi con un rischio assai inferiore di infezioni.
Quali prospettive apre questo studio per i pazienti diabetici tipo 1? Ulteriori ricerche sono necessarie per tentare un’applicazione su larga scala di questa terapia. I pazienti considerati avevano tra i 12 ed i 39 anni ma molti diabetici sono di et? inferiore e presentano solitamente un attacco auto-immune pi? aggressivo, pi? difficile da fermare.
In secondo luogo, uno dei criteri di selezione dei partecipanti allo studio era la presenza di una produzione residua di insulina (cio? la presenza di una consistente frazione di beta cellule pancreatiche ancora risparmiata). Inoltre, non sorprendentemente, i pazienti che maggiormente si giovavano della terapia con anticorpo anti-CD3 erano quelli con una produzione residua di insulina pi? alta. Tuttavia, le condizioni (in termini di produzione di insulina) non sono sempre cos? favorevoli, soprattutto nei diabetici pi? giovani.
Come ovviare a questo problema? La soluzione logica sarebbe intervenire pi? precocemente. In effetti, al momento della diagnosi, solo il 20% delle beta cellule possono ancora essere salvate. La percentuale potrebbe essere pi? alta se si potesse intervenire in anticipo. Per farlo, bisogna essere in grado di identificare soggetti ancora sani che svilupperanno in seguito la malattia. Sono in fase di sviluppo nuovi test immunologici per individuare, attraverso un prelievo di sangue, i linfociti T che causano la distruzione delle be-ta cellule pancreatiche. Questo esame potrebbe fornire una diagnosi assai pi? precoce, in un momento in cui nessun sintomo ? ancora presente ma l’attacco auto-immune ? gi? silenziosamente in atto e pu? essere fermato. Uno studio di questo tipo ? in corso all’Istituto Necker di Parigi. L’Universit? di Torino vi ? coinvolta, grazie al Gruppo di studio piemontese per l’epidemiologia del diabete.

ROBERTO MALLONE
PAOLO CAVALLO-PERIN (*)
(*) Istituto Necker, Parigi e Universit? di Torino

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Sindrome metabolica: singolo fattore genetico o ambientale responsabile

Un singolo fattore base potrebbe collegare tutti i componenti centrali della controversa sindrome metabolica. Sono comunque necessari ulteriori studi per stabilire se questo fattore sia genetico o ambientale. Il presente studio, dunque, supporta le attuali definizioni della sindrome metabolica, ed indirettamente la sua stessa esistenza. Il modello proposto, basato su un singolo fattore, si ? dimostrato valido in tre diverse popolazioni. Probabilmente la sindrome metabolica ha una base genetica, ma una combinazione di fattori ambientali e comportamentali potrebbero contribuire alla sua espressione nei soggetti predisposti. Questi fattori comprendono ipertensione, anomalie lipidiche, insulinoresistenza ed obesit?. La questione riguardante l’esistenza ed i componenti della sindrome metabolica ha generato molto dibattito, e rimane molto controversa ma anche complessa.

Fonte: Diabetes Care 2006; 29: 113-22 – 19/01/06

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Dapoxetina nel trattamento dell?eiaculazione precoce

La Dapoxetina, un inibitore della ricaptazione della serotonina, ? il primo farmaco sviluppato per il trattamento dell?eiaculazione precoce.

Nel corso dell?Annual Meeting dell?American Urological Association ( AUA ) ? stato presentato uno studio clinico di fase III che ha riguardato 2.614 uomini.

E? stato osservato che gli uomini che hanno assunto Dapoxetina 30 mg o 60 mg hanno presentato un tempo di latenza eiaculatoria intravaginale aumentato di 3-4 volte rispetto a coloro che sono stati trattati con placebo.

La percentuale degli uomini con eiaculazione precoce che hanno definito la propria soddisfazione sessuale come ?buona o molto buona? ? raddoppiata con Dapoxetina 30 mg ( passando dal 20,2% al 38,7% ) e 60 mg ( da 22,3% a 46,5% ).

Il pi? comune effetto indesiderato osservato ? stata la nausea, con un?incidenza del 5% nei soggetti che assumono Dapoxetina 60 mg.
Dopo assunzione del farmaco pu? anche presentarsi cefalea.

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La dislipidemia ? comune tra le persone senza malattia cardiovascolare

Lo studio MESA ( Multi-Ethnic Study of Atherosclerosis ) ha determinato la prevalenza, il trattamento ed il controllo della dislipidemia nelle donne senza malattia cardiovascolare alla luce delle raccomandazioni del Third Report of the Adult Treatment Panel ( ATP III ) del National Cholesterol Education Program.

Lo studio MESA ha coinvolto 6814 persone di et? compresa tra 45 ed 84 anni che non erano affette da malattia cardiovascolare al momento dell?ingresso nello studio ( 2000-2002 ).

Il 29.3% ( 1964/6704 ) dei partecipanti aveva dislipidemia e, di questi, il 54% ( 1060/1964 ) era in trattamento ipolipemizzante.

L?obiettivo del controllo lipidico secondo ATP III ? stato osservato nel 75.2% ( 797/1060 ) dei pazienti trattati per la dislipidemia, e nel 40.6% ( 797/1964 ) dei partecipanti con dislipidemia.

E? risultato chegli uomini, a differenza delle donne, erano meno inclini ad essere trattati e controllati.

Il controllo della dislipidemia ? stato raggiunto meno frequentemente nei gruppi a rischio cardiovascolare alto ed intermedio, che nel gruppo a basso rischio.
Tra i soggetti ad alto rischio, il 19.7% di quelli che non assumevano terapia ipolipemizzante presentava valori di calcio a livello dell?arteria coronarica maggiori di 400.

Lo studio ha riscontrato che la dislipidemia ? comune tra le persone senza malattia cardiovascolare. Secondo gli Autori, l?utilit? di inserire lo screening per il calcio a livello delle coronarie nella stratificazione del rischio e nella decisione di trattamento dovrebbe essere valutata sulla base dell?alta percentuale di persone con alti livelli di calcio in sede coronarica, non sottoposti a terapia.

Goff DC et al, Circulation 2006; 113: 647-656

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Melatonina: non esiste evidenza di efficacia nei disturbi del sonno

Ricercatori dell?Alberta University, in Canada, hanno condotto una revisione sull?efficacia e sulla sicurezza della Melatonina esogena nel trattamento dei disturbi secondari del sonno e nel jet lag.

Una meta-analisi che ha preso in considerazione 16 studi clinici, che hanno coinvolto pi? di 500 soggetti, ha valutato l?effetto della Melatonina sui disturbi del sonno provocati da condizioni mediche, da viaggi aerei o da lavoro a turni.

Il risultato dello studio non ha evidenziato alcuna efficacia della Melatonina nei disturbi secondari del sonno e nei disturbi da restrizione del sonno ( jet lag, disturbi da turni di lavoro ).

Nel breve periodo la Melatonina si ? dimostrata sicura, ma mancano studi di sicurezza nel lungo periodo.

Fonte: British Medical Journal, 2006

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