Seguire una dieta che abolisca i carboidrati o i grassi, in favore di un maggiore introito di proteine, non e’ piu’ efficace della semplice riduzione delle calorie giornaliere per perdere peso.
Questi i risultati di un trial clinico condotto negli Stati Uniti in cui alcune centinaia di obesi sono stati sottoposti a quattro differenti tipi di diete (tutte ipocaloriche ma diverse in base al contenuto in carboidrati, grassi e proteine) e controllati dopo sei mesi e due anni.
I fattori che maggiormente incidono sulla perdita di peso – spiegano i ricercatori – sono la riduzione delle calorie introdotte rispetto al fabbisogno individuale e la motivazione nel seguire la dieta.
Riferimento: American Journal of Clinical Nutrition, online January 18, 2012
Una dieta scorretta e probabilmente una scarsa attività fisica possono contribuire all’insorgenza di obesità e sindrome metabolica nei pazienti con psoriasi, causando un aumento di comorbilità e mortalità. È quindi molto importante che i medici, consapevoli di questa associazione, effettuino una forte opera di prevenzione nei pazienti a rischio incidendo sugli stili di vita modificabili. Lo afferma uno studio pubblicato dalla rivista Clinical and Experimental Dermatology.
Era già noto da tempo che la psoriasi è associata a un elevato rischio di sindrome metabolica e al conseguente aumento della morbilità cardiovascolare e della mortalità, ma la natura di questa associazione non è mai stata chiarita del tutto. I ricercatori guidati da Jennifer Ahdout del Department of Dermatology dell’University of California di Irvine hanno valutato una serie di fattori modificabili sottoponendo a 65 pazienti con psoriasi e a 52 soggetti sani per controllo una serie di questionari [Perceived Stress Scale (PSS), Godin Leisure-Time Exercise Questionnaire (GLTEQ), Rapid Eating Assessment for Patients (REAP), Psoriasis Area and Severity Index (PASI)]. È emerso che i pazienti affetti da psoriasi (IMC medio 27,72) presentavano una tendenza all’aumento dell’IMC più marcata rispetto ai soggetti sani (IMC medio 25,67) ma non una prevalenza autoriportata più elevata di diabete, patologie cardiovascolari, ipercolesterolemia, ipertensione o ictus rispetto al gruppo di controllo (rispettivamente P=0,25, P=0,46, P=0,96, P=0,26, P=0,16). Non è stata riscontrata nessuna differenza significativa tra i due gruppi per quanto riguarda lo stress e l’attività fisica (P=0,06 e P=0,26 rispettivamente) ma i soggetti con psoriasi hanno ottenuto uno score nutrizionale inferiore (media = 2,38, P<0,01). Tra i pazienti con psoriasi a placche arruolati nello studio stress, fumo di sigaretta e terapie sistemiche sono risultati fattori associati con un aumento dello score PASI (r=0,13 r=3,47 r=3,19 rispettivamente).
Spiega la Ahdout : “Il nostro studio suggerisce che gli stili di vita errati nell’ambito dell’alimentazione e dell’attività fisica siano fattori contribuenti all’insorgenza di obesità e sindrome metabolica nei pazienti con psoriasi. Se consideriamo che tra le persone affette da psoriasi l’obesità è più diffusa che nella popolazione sana (30% vs. 18%, dato in linea con la Utah Psoriasis Initiative) e che i pazienti fumatori e con IMC più elevato presentano forme di psoriasi in media nettamente più aggressive, risulta evidente che gli stili di vita modificabili hanno un ruolo importante nella storia della malattia e vanno tenuti sotto stretto controllo da parte dei clinici”.
▼ Ahdout J, Kotlerman J, Elashoff D et al. Modifiable lifestyle factors associated with metabolic syndrome in patients with psoriasis. Clinical and Experimental Dermatology 2012; 37(5):477–483 doi:10.1111/j.1365-2230.2012.04360.x
Il fatto Una odontoiatra è stata condannata con sentenza del tribunale di Milano, ufficio Gip, all’esito di giudizio abbreviato, alla pena di un anno, sei mesi e 20 giorni di reclusione per aver cagionato volontariamente a una paziente lesioni dell’apparato dentale dalle quali era derivata una malattia di durata superiore ai 40 giorni, nonché l’indebolimento permanente dell’organo della masticazione. L’imputata, quale responsabile dello studio, e un dentista sedicente, in qualità di collaboratore, hanno sottoposto la cliente a complesse operazioni chirurgiche, inadeguate rispetto alla patologia sofferta, senza la prescritta abilitazione e senza le competenze tecniche richieste, nonché in difetto di valido consenso informato, tacendo inoltre la mancanza dei titoli e delle qualifiche necessarie al tipo di trattamento. A seguito di ricorso, il giudice di appello ha ritenuto non sussistente il reato di lesioni dolose, non essendo provata la volontà di cagionare la malattia e i postumi invalidanti, invece verificatisi. La corte d’appello ha ritenuto, anzi, che entrambi gli imputati, pur consapevoli dei potenziali effetti pregiudizievoli delle cure, avessero agito nella convinzione di evitarli e di risolvere i problemi sanitari. Contro la sentenza d’appello hanno proposto ricorso per cassazione sia il Procuratore generale di Milano, sia la parte civile.
Il diritto e l’esito del giudizio Il giudizio dinanzi alla Suprema Corte ruota non solo attorno alla individuazione e qualificazione dell’elemento soggettivo che sorregge l’operatore sanitario quando compie un intervento chirurgico in mancanza di valido consenso informato, provocando delle conseguenze dannose, ma anche al consenso prestato dal titolare dello studio a che un soggetto privo delle abilitazioni normative venisse a compiere attività sanitaria con esito infausto. La corte d’appello avrebbe liquidato una questione meritevole di un approfondimento molto maggiore, soprattutto non tenendo conto del fatto che al titolare dello studio dentistico non è stato contestato il dolo relativamente alla sua attività chirurgica, ma con riferimento all’attività abusiva svolta dal collaboratore: poiché questi non era un medico, era molto più elevato il rischio che si verificassero complicazioni e la dottoressa non poteva non rappresentarsi i potenziali e forse probabili effetti lesivi. La Suprema Corte, in accoglimento del ricorso, ha rinviato ad altro giudice affinché procedesse a nuovo giudizio, tenendo in considerazione tutte le circostanze potenzialmente indizianti dell’esistenza di un dolo indiretto. In particolare, ha aggiunto la Cassazione, si dovrà tenere in considerazione la posizione professionale del collaboratore, la cui mancanza di abilitazione rende del tutto apodittica l’affermazione della sua convinzione di evitare conseguenze negative da un intervento così delicato e invasivo.
Dopo aver ricevuto un trapianto di fegato, nei pazienti con epatite alcolica la funzionalità del fegato trapiantato e la sopravvivenza sono simili a quelle dei soggetti con cirrosi alcolica. Il risultato è stato ottenuto da un gruppo di ricercatori americani – guidati da Ashwani K. Singal della university of Texas medical branch, a Galveston – che ne hanno dedotto: «il trapianto di fegato può dunque essere preso in considerazione per quelle persone affette da forme di epatite alcolica che non rispondono alle terapie farmacologiche». I dati relativi a pazienti sottoposti a trapianto di fegato per epatite alcolica sono molto limitati, ma gli autori dello studio si sono serviti delle informazioni registrate negli archivi dell’Unos (United network for organ sharing) dal 2004 al 2010. La sopravvivenza cinque anni dopo l’intervento si è attestata all’80% tra i soggetti con diagnosi di epatite alcolica, percentuale molto vicina a quella registrata tra i pazienti con cirrosi alcolica, il 78%. Anche la graft-survival è stata simile: rispettivamente del 75% e del 73%. Un’analisi statistica (regressione proporzionale di Cox) non ha mostrato alcuni impatto dell’eziologia (epatite alcolica versus cirrosi alcolica) né sulla sopravvivenza del paziente su quella del graft. Le cause della mortalità riscontrata nei due gruppi sono state simili e non collegate all’alcol.
I sistemi di supporto alle decisioni in ambito clinico (clinical decision-support systems, Cdss) – sia quelli disponibili in commercio sia quelli sviluppati a livello locale – sono efficaci nel miglioramento dei parametri dei processi assistenziali in differenti setting e i loro benefici sono ormai evidenti al di fuori delle esperienze accademiche anche se, in realtà, le evidenze relative agli outcome clinici, economici e organizzativi sono ancora scarse. Sono le considerazioni conclusive di una revisione sistematica effettuata da Tiffani J. Bright, della Duke University School of Medicine di Durham (Usa), e colleghi, su 148 trial controllati randomizzati. Di questi, 128 (86%) avevano indagato le misure di processo assistenziale, 29 (20%) si erano focalizzati sugli outcome clinici, e 22 (15%) erano centrati sull’analisi dei costi. Nonostante gli studi esaminati fossero eterogenei per interventi, popolazioni, setting e outcome, è emerso come tutti i tipi di Cdss avessero determinato un miglioramento nelle misure correlate all’erogazione di servizi preventivi (n=25; odds ratio, Or: 1,42), alla richiesta di esami clinici (n=20; Or: 1,72) e alla prescrizione di terapie (n=46; Or: 1,57). «Ulteriori studi» scrivono gli autori «dovrebbero indagare come si possa espandere il contenuto dei Cdss allo scopo di gestire simultaneamente condizioni di comorbilità, e come questi sistemi possano essere integrati nel modo più efficace nel flusso di lavoro assistenziale e implementati nei diversi setting».
Ann Intern Med, 2012 Apr 23. [Epub ahead of print]
La gotta risulta associata a un maggiore rischio di sviluppo di malattia renale allo stadio finale (Esrd). Lo dimostrano i dati di uno studio – condotto a Taiwan da Kuang-Hui Yu, del Chang Gung Memorial Hospital di Taoyuan, e colleghi – che ha preso in considerazione soggetti di età superiore ai 20 anni, senza Esrd, coronaropatia, o ictus. L’analisi ha incluso i dati relativi a 656.108 pazienti che sono stati seguiti per un periodo medio di 8 anni. Tra questi, 19.963 (3%) soffrivano di gotta. Alla fine del 2008, 2.377 individui (276 con gotta; 2.101 senza gotta) hanno sviluppato una Esrd e 861 individui (77 con gotta, 27,9%; 521 senza gotta, 24,8%) sono deceduti a causa del’Esrd. L’incidenza dell’Esrd si è attestata su 1,73 e 0,41 casi per 1.000 pazienti all’anno in entrambi i gruppi (con e senza gotta). Dopo aggiustamento per età, genere, e storia di diabete mellito e/o ipertensione, la gotta è risultata associata all’Esrd con un hazard ratio (Hr) di 1,57. Nei pazienti con Esrd, l’Hr aggiustato per exitus è risultato di 0,95 nei soggetti gottosi, valore simile a quello ottenuto negli individui senza gotta.
L’ipertensione sistolica isolata (ISI) nelle persone più anziane è stata associata con un’alta prevalenza di Withe-Coat Hypertension (WCH) diagnosticata con la rilevazione dinamica (ABPM), ma il significato in termini di rischio cardiovascolare (cv) rimane controverso. In linea di massima si ritiene che l’ISI-WCH non sia pericolosa, però in realtà gli studi sono piccoli, di breve durata, spesso non randomizzati e il confronto con la popolazione normale non tiene conto, per esempio, dell’ipertensione mascherata. Una recente metanalisi pubblicata su Hypertension ha utilizzato i dati del “International Database on Ambulatory Blood Pressure Monitoring in Relation to Cardiovascular Outcomes (IDACO) Study,” che include un ampio numero di soggetti, di 11 paesi, residenti in comunità, con protocolli standardizzati per la monitorizzazione della PA dinamica e convenzionale. Dei 7.295 soggetti studiati, in 1.953 è stata riscontrata ISI con le misurazioni convenzionali, ed è stato eseguita l’ABPM: questi soggetti, in maggioranza senza trattamento all’inizio dello studio, sono stati seguiti in un follow up mediano di più di 10 anni per eventi cardiovascolari. Nel complesso si sono verificati 655 eventi fatali e non fatali. Tra i soggetti che nel follow up non sono stati trattati, quelli con ISI-WCH e quelli con pressione normale alla rilevazione convenzionale avevano un rischio simile. Tra i soggetti con ISI-WCH trattati il rischio cardiovascolare era simile a quello dei soggetti con pressione normalizzata, ma entrambi avevano un rischio almeno doppio rispetto a quelli normali del gruppo non trattato (P<0.0001). Cosa significa? I soggetti che hanno una PA normalizzata dalla terapia, sia che abbiano un residuo effetto WCH, sia che non ce l’abbiano, hanno un rischio minore rispetto a quelli con ipertensione sostenuta o mascherata, ma ben maggiore rispetto a quelli normotesi o con WCH non trattati (fig 2). I motivi sono molteplici, ma in particolare i soggetti trattati sono in genere più gravi. Comunque per i soggetti con WCH trattati e normalizzati gli AA propongono il termine “ipertensione trattata normalizzata” piuttosto che il termine in uso “WCH trattata”.
Sono stati da poco pubblicati i risultati non del tutto soddisfacenti di un ponderoso lavoro di ricerca clinica sull’efficacia e la sicurezza del vorapaxar nella prevenzione secondaria degli eventi aterotrombotici. Questo nuovo antiaggregante sfrutta le sue caratteristiche di inibire selettivamente le azioni cellulari della trombina attraverso l’antagonismo del PAR-1 e, con esse, di determinare l’antiaggregazione, così come ben rappresentato nella Fig 1 tratta da una recentissima review sui farmaci antiaggreganti (Oral antiplatelet therapy for atherothrombotic disease: overview of current and emerging treatment options. Vascular Health and Risk Management 2012:8 77-89). Sono stati randomizzati 26.449 pazienti che avevano una storia di infarto miocardico, ictus ischemico o arteriopatia periferica per ricevere vorapaxar (2.5 mg al giorno) o placebo. Il follow up previsto ha avuto una durata mediana di 30 mesi. L’end point primario di efficacia era il composito di morte per cause cardiovascolari, infarto miocardico o ictus. Questi i risultati di efficacia al termine dei 3 anni di follow up (riassunti in Tabella) – l’end point primario composito al termine dei tre anni di follow up si era verificato nel 9.3% (1.028 pazienti) del gruppo vorapaxar e nel 10,5% (1176 pazienti) del gruppo placebo (hazard ratio per il gruppo Vorapaxar 0.87, CI 95% 0.80-0.94, p <0.001) – la morte cardiovascolare è avvenuta nel 2.7% (285 pazienti) del gruppo vorapaxar e nel 3.0% (319 pazienti) del gruppo placebo – l’infarto miocardico si è verificato in 564 pazienti (5.2%) nel gruppo vorapaxar e in 673 pazienti (6.1% nel gruppo placebo (hazard ratio 0.83, 95% CI 0.74-0.93 p = 0.001) – la comparsa di stroke non è stata dissimile nei due gruppi. Riguardo alla sicurezza d’uso i risultati sono stati i seguenti – un sanguinamento moderato o grave si è verificato nel 4.2% dei pazienti che hanno ricevuto vorapaxar e nel 2.5% di coloro che avevano ricevuto placebo (HR 1.66, 95% CI 1.43-1.93, p <0.001) – è stato riscontrato un aumento del tasso di emorragia intracranica nel gruppo vorapaxar (1.0% vs 0.5% nel gruppo placebo, p <0.001), tanto che al termine dei primi due anni di follow up il Safety Monitoring Board ne ha raccomandato la sospensione nei pazienti con storia di ictus. Sulla scorta dei dati sopra ricordati (sintetizzati anche nella tabella 2 e nella figura accluse) il Beneficio Clinico Netto del trattamento non è risultato significativo: l’end point primario composito di efficacia e quello di sicurezza si sono verificati nell’11.7% dei pazienti in trattamento con vorapaxar e nel 12.1% di quelli del gruppo placebo (HR 0.97; 95% CI 0.90 – 1.04; p=0.40). È verosimile che tanto l’azienda farmaceutica produttrice del farmaco quanto gli sperimentatori si aspettassero risultati migliori di quelli ottenuti.
Morrow DA et al. for the TRA 2P-TIMI 50 Steering Committee and Investigators. Vorapaxar in the Secondary Prevention of Atherothrombotic Events. N Engl J Med 2012, 24 Marzo
Da parte di alcuni ricercatori della Università McMaster (Ontario – Canada) è stata di recente pubblicata sugli Annals of Internal Medicine una revisione sistematica e meta-analisi dei dati di confronto fra le LMWH e gli inibitori diretti del fattore X attivato nella profilassi del tromboembolismo venoso in pazienti sottoposti ad intervento di sostituzione totale d’anca o di ginocchio. Questa la sintesi dei dati (ben rappresentati nelle due Figure accluse) – i due provvedimenti terapeutici non differiscono per ciò che riguarda la mortalità per tutte le cause o la comparsa di embolie polmonari non fatali – gli inibitori del fattore Xa sono stati in grado di impedire 4 casi di trombosi venosa profonda sintomatica ogni 1.000 pazienti trattati (CI da 3 a 6 eventi in meno; prove di alta qualità), pagando il prezzo di un possibile sanguinamento maggiore che si verifica in 2 ogni 1.000 pazienti trattati (CI da 0 a 4 eventi in più; moderata qualità delle prove) – la maggior incidenza dei sanguinamenti ascrivibili agli inibitori orali del Xa è riservata al solo utilizzo di posologie “elevate” di questi farmaci e non alle “basse” posologie. Nonostante alcune limitazioni, rappresentate per certi studi da un troppo breve periodo di follow up e per altri dalla mancanza di dati sostanziali (per esempio sulla mortalità) le conclusioni di questa meta-analisi possono essere così riassunte: rispetto all’uso delle LMWH, gli inibitori del fattore Xa assunti a “basse” dosi possono determinare una piccola riduzione del rischio assoluto di trombosi venosa profonda sintomatica senza aumentare la percentuale dei sanguinamenti maggiori. Nessuna modificazione sostanziale invece per ciò che riguarda la mortalità o l’incidenza del tromboembolismo polmonare non fatale.
Neumann I, Rada G, Claro JC et al. Oral Direct Factor Xa Inhibitors Versus Low-Molecular-Weight Heparin to Prevent Venous Thromboembolism in Patients Undergoing Total Hip or Knee Replacement: A Systematic Review and Meta-analysis. Ann Intern Med. 2012, Mar 12
Ove mai ci fossero ancora dei dubbi circa la inefficacia di un trattamento in cronico con le preparazioni long acting dell’octreotide (LAR) per la prevenzione delle emorragie digestive da ipertensione portale cirrogena, un recentissimo lavoro dei colleghi gastroenterologi della Mayo Clinic li fuga senza alcun dubbio residuo. Lo studio, randomizzato, in doppio cieco, controllato con placebo, intention-to-treat, è stato condotto in 39 pazienti con cirrosi e piccole varici esofagee. La sicurezza dell’octreotide LAR è stata valutata sulla frequenza e gravità di eventi avversi. L’efficacia è stata determinata misurando il gradiente di pressione venosa epatica (HVPG) al basale e dopo 84 giorni dalla somministrazione di octreotide LAR 10 mg (n = 15), 30 mg (n = 10) o di soluzione salina (n = 14). Sono stati misurati anche il flusso sanguigno portale (PBF) a digiuno e dopo il pasto, l’indice di pulsatilità dell’arteria mesenterica superiore (SMA-PI) ed i livelli di glucagone e di octreotide. I risultati (vedi figura acclusa) hanno evidenziato: – quattro dei 10 pazienti del gruppo LAR 30 (40%) si sono ritirati dallo studio a causa di eventi avversi gravi – nessun paziente nel gruppo LAR 10 o nel gruppo di controllo ha avuto eventi avversi gravi – il HVPG (gradiente di pressione venosa epatica) non ha mostrato alcun decremento in nessuno dei 3 gruppi LAR 30 mg da 11.8 ± 2.3 mmHg a 14.1 ± 3.2 LAR 10 mg da 15.3 ± 4.8 mmHg a 15.1 ± 3.8 soluzione salina da 13.3 ± 3.8 mmHg a 15.1 ± 4.3) (p = 0.26) – il trattamento sia con 10 che con 30 mg di octreotide LAR non ha diminuito il PBF, lo SMA-PI ed i livelli plasmatici di glucagone (p = 0.56). In conclusione, l’assenza di un significativo beneficio emodinamico, così come l’alta frequenza di gravi eventi avversi associati con l’uso di octreotide LAR, non supportano l’uso di questo agente nel trattamento dell’ipertensione portale.
Chandok N et al. Randomised clinical trial: the safety and efficacy of long-acting octreotide in patients with portal hypertension. Aliment Pharmacol Ther 2012, Mar 1