Ipertensione nell’obeso: attenzione alla forma del bracciale, non solo alla dimensione

È nota l’importanza delle dimensioni del bracciale nella misurazione della pressione arteriosa (PA), però spesso si trascura il fatto che non è solo una questione di dimensioni, ma anche di forma del bracciale. Infatti, nonostante la configurazione del braccio sia in genere conica, soprattutto nell’obeso, vengono normalmente utilizzati bracciali e camere d’aria rettangolari (fig.1). Si sono posto questo problema alcuni ricercatori di Padova, che hanno studiato 220 soggetti con circonferenza del braccio compresa tra 22 e 42 cm. Tutti avevano una forma troncoconica del braccio e la conicità era in relazione alla circonferenza e alla lunghezza del braccio stesso. In questi soggetti sono state utilizzate 4 differenti camere d’aria cilindriche e troncoconiche di misure appropriate. Nel gruppo con una circonferenza del braccio di 37.5-42.5 cm il bracciale cilindrico sovrastimava la PA, rispetto al bracciale troncoconico, di 2.0+ 0.4/1.8+0.3 mmHg (p=0.001 e <0.001 rispettivamente). Il 15% dei soggetti classificati come ipertesi col bracciale cilindrico non lo era con il bracciale troncoconico (fig.2). Si è arrivati a differenze di 9.7/7.8 mmHg in individui con con braccia molto grosse ed un angolo braccio-avambraccio uguale o inferiore a 83°. Considerato che i dati del National Health and Nutrition Examination Survey 1999-2002 hanno evidenziato che negli US circa 15 milioni di uomini e 10 milioni di donne di età dai 40 ai 59 anni necessitano di un bracciale per obesi, possiamo farci un’idea dei numeri implicati in una sovrastima dell’ipertensione dovuta a bracciali inappropriati. Ricordiamoci dunque che nel nostro armamentario dobbiamo includere anche i bracciali troncoconici, e non solo i bracciali per obesi e per bambini.

Palatini P et al. J Hypertens 2012; 30: 530-536

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Insufficienza renale cronica e uso di antiaggreganti piastrinici: molta attenzione!

Nonostante alcune limitazioni metodologiche (quali la eterogeneità delle definizioni degli outcomes, la diversa durata del follow up e la derivazione dei dati estrapolata spesso da analisi post hoc) le conclusioni di una recente meta analisi pubblicata sugli Annals of Internal Medicine sull’uso degli antiaggreganti piastrinici rappresentano motivo di grande riflessione per la pratica clinica corrente. Gli autori hanno voluto verificare, con una estesa analisi dei dati della letteratura, gli effetti del trattamento antiaggregante sugli eventi cardiovascolari, la mortalità ed il sanguinamento nei pazienti con insufficienza renale cronica (IRC). Sono state prese in considerazione tanto le situazioni acute, nelle quali il trattamento antiaggregante assumeva motivazioni “terapeutiche”, tanto quelle croniche, nelle quali l’indicazione al trattamento antiaggregante aveva motivazioni di tipo preventivo. Sono stati identificati 9 studi (più precisamente le analisi post-hoc per sottogruppi di pazienti con IRC di 9 studi) che si riferivano a 9.969 pazienti con sindrome coronarica acuta o che erano stati sottoposti ad intervento di angioplastica coronarica percutanea (PTCA) e 31 studi condotti su 11.701 pazienti con cardiopatia stabile o senza documentazione di patologia coronarica che assumevano comunque gli antiaggreganti. Nel primo gruppo di pazienti (vedi Tabella acclusa) in quelli con SCA o che erano stati sottoposti a PTCA, l’aderenza allo standard of care degli inibitori della glicoproteina IIb/IIIa o del clopidogrel ha avuto scarso o nessun effetto sulla mortalità per tutte le cause, su quella cardiovascolare o sull’infarto miocardico; al contrario, in questi pazienti che presentavano IRC e situazioni coronariche acute, l’amplificazione antiaggregante piastrinica ha determinato un aumento dei sanguinamenti gravi. Anche nei pazienti con miocardiopatia stabile (vedi Tabella acclusa), comparandolo con il placebo, l’utilizzo del trattamento antiaggregante ha sì avuto efficacia preventiva nei confronti dell’infarto miocardico acuto, ma ha dimostrato effetti incerti sulla mortalità a fronte di un aumento delle emorragie, seppure di quelle “minori” (bassa qualità delle prove).

Palmer SC et al.  Effects of Antiplatelet Therapy on Mortality and Cardiovascular and Bleeding Outcomes in Persons With Chronic Kidney Disease. A Systematic Review and Meta-analysis Ann Intern Med 2012; 156: 445-459

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Fruttosio e ipertensione: si, no, forse

Nel ratto l’aumenta; nel cane non fa niente; nell’uomo non si sa. Ci riferiamo all’effetto del fruttosio sulla pressione (PA), per alcuni responsabile di un suo innalzamento, per altri assolutamente no, ma per tutti qualcosa vorrà dire se nell’ultimo secolo la PA è aumentata di pari passo con l’aumento dell’introito alimentare di zuccheri semplici. È colpa del fruttosio o di tutti gli idrati di carbonio? Le linee guida internazionali non si esprimono. Un gruppo canadese ha voluto vederci chiaro ed ha eseguito a tale proposito una revisione sistematica ed una metanalisi sugli effetti del fruttosio – a parità di calorie – con altri carboidrati sulla pressione sistolica (PAS), diastolica (PAD) e media (PAM) nell’uomo. Sono stati selezionati 13 trials in cui la sostituzione con fruttosio veniva effettuata in modo isocalorico (352 soggetti) e 2 (24 soggetti) in cui veniva effettuata in modo ipercalorico. Nel complesso, scambiando il fruttosio con altri carboidrati in modo isocalorico si è ridotta significativamente la PAD e la PAM, mentre non c’è stata significativa riduzione nella PAS. Neanche l’introito di fruttosio in modo ipercalorico ha determinato variazioni della PA rispetto ad altri carboidrati. Sembrerebbe dunque dimostrata l’innocenza del fruttosio, ma sono necessari ulteriori trial disegnati ad hoc, anche in rapporto all’acido urico che è stato chiamato in causa come possibile mediatore degli effetti del fruttosio sulla PA.

Ha V. Effect of Fructose on Blood Pressure: A Systematic Review and Meta-Analysis of Controlled Feeding Trials. Hypertension 2012;59:787-795

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Attenzione all’utilizzo di determinati antibiotici nei pazienti con stato di male epilettico

Un recente studio retrospettivo si è posto come obiettivo quello di verificare quale trattamento antibiotico potesse indurre la ripresa di crisi comiziali in pazienti con documentata diagnosi di stato di male epilettico (SE). Anche se la casistica indagata non è stata numerosa (117 pazienti), i risultati sintetizzati nella Tabella accusa possono essere di valido aiuto per l’abituale pratica clinica. Nel 10% dei pazienti in esame l’utilizzo non solo dei chinolonici (che molti ricordano come i “tipici” antibiotici capaci di diminuire la soglia epilettica e quindi di indurre “crisi comiziali”) ma anche di amoxicillina-acido clavulanico, di piperacillina e di ceftazidime è stato la causa di innesco di un evento comiziale che ha richiesto un pesante trattamento farmacologico per il suo controllo. Da segnalare che alcuni dei pazienti avevano insufficienza epatica e renale, sicure concause della “tossicità” neurologica degli antibiotici utilizzati. 

Misra UK et al. Association of antibiotics with status epilepticus. Neurol Sci 2012 online first Mar 6

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Relazione inversa tra Alzheimer e cancro: risultati del Framingham Heart Study

I sopravvissuti ad un cancro hanno minori probabilità di ammalarsi di morbo di Alzheimer (AD). Questo vale soprattutto nei sopravvissuti ad un tumore provocato dal fumo; per contro, i pazienti con AD hanno meno probabilità di sviluppare un cancro. Perché? Non sappiamo, ma c’è indubbiamente una relazione inversa tra il cancro e le degenerazioni nervose, considerato che anche i pazienti affetti da morbo di Parkinson hanno una minore propensione a sviluppare cancro. Un’importante conferma a questa tesi viene data da un recente lavoro pubblicato sul BMJ: dal Framingham Heart Study sono stati studiati 1.278 pazienti sopra i 65 anni con e  senza storia di cancro e senza storia di demenza nelle condizioni basali, per un follow-up di 10 anni. I pazienti che sopravvivevano al cancro avevano un minor rischio, anche aggiustato per sesso, età e fumo, di sviluppare AD (HR 0.67 95% IC 0.47- 0.97). E a proposito del fumo i sopravvissuti a tumori provocati da esso avevano un HR di 0.26 (0.08 – 0.82) di sviluppare AD, rispetto ai sopravvissuti a cancri non fumo-dipendenti [0.82 (0.57 – 1.19)] anche se avevano un maggior rischio di sviluppare uno stroke [HR 2.18 (1.29 to 3.68)]. Per contro, i pazienti con AD ed una qualsiasi forma di demenza avevano un HR di sviluppare cancro di 0.38 e, rispettivamente, di 0.44. È chiaro che questo studio è solo esplorativo e che necessitano ulteriori studi molto più ampi per accertare il fenomeno, ma nella difficilissima lotta contro il cancro e contro l’Alzheimer saperne di più sugli strani inversi rapporti tra le due patologie può dare qualche ulteriore elemento di conoscenza e di lotta. 

Driver JA et al. BMJ 2012;344:e1442 doi: 10.1136/bmj.e1442 (Published 12 March 2012)

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Epatocarcinoma: protezione antiossidante da parte del selenio

«Ridotti livelli di selenio portano a un accumulo di perossidi lipidici e ciò causa il potenziamento di meccanismi che comportano la crescita dei carcinomi epatocellulari (Hcc)». Lo affermano studiosi dell’università di Vienna guidati da Nataliya Rohr-Udilova, secondo cui l’integrazione con selenio potrebbe essere presa in considerazione per strategie di prevenzione e cura nelle fasi precoce dello sviluppo neoplastico. I ricercatori hanno verificato che, in linee cellulari umane Hcc, il perossido dell’acido linoleico (Looh) e altri pro-ossidanti aumentano l’espressione del fattore di crescita vascolare endoteliale (Vegf) e dell’interleuchina-8 (Il-8), e sovraregolano l’attivazione della proteina attivatrice-1 (Ap-1), tutti e 3 noti marker predittivi di scarsa prognosi nei pazienti con Hcc. Il selenio, la cui carenza può causare perossidazione lipidica e stress ossidativo, inibisce tali effetti, aumentando l’espressione di glutatione-perossidasi antiossidativa 4 (Gpx4), enzima di cui è componente essenziale, che in preferenza degrada i perossidi lipidici e la cui carente attività aumenta l’espressione di Vegf e Il-8. Questi risultati sono stati confermati in vivo. In pazienti con Hcc si sono riscontrati alti livelli di anticorpi ant-Looh, suggestivi di un’aumentata formazione di Looh. L’aumento di tali anticorpi è apparso correlato con il Vegf e l’Il-8 sierici  e con l’attivazione di Ap1 nel tessuto dell’Hcc. All’opposto il selenio è apparso inversamente correlato con il Vegf, l’Il-8 e la dimensione del tumore (solo nel caso di lesioni inferiori a 3 cm). Dunque, la tesi sostenuta dagli autori è quella di un antagonismo tra selenio e perossidi lipidici nell’espressione dei marker tumorali e nella crescita dell’Hcc.

Hepatology, 2012; 55(4):1112-21

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I fattori alla base delle prescrizioni off-label

La prescrizione off-label può portare a eventi avversi eppure è ampiamente praticata, anche in Canada, dove è stata oggetto di uno studio di Tewodros Eguale e colleghi della McGill University di Montreal. Basandosi esclusivamente su dati relativi al Quebec e alla medicina primaria, la prevalenza di questo tipo di prescrizione si è attestata all’11% e appare effettuata in dipendenza del tipo di farmaco, delle necessità del paziente e delle caratteristiche del medico. Il network elettronico del Medical Office of the XXI Century è stato utilizzato perchè in Quebec è obbligatoria l’indicazione della terapia. Sono state analizzate 253.347 prescrizioni effettuate da 113 medici generalisti a 50.823 pazienti dal gennaio 2005 al dicembre 2009, classificandole come on-label oppure off-label in base all’Health Canada drug database. Sul totale delle ricette off-label, il 79% era privo di forti evidenze scientifiche.  Il ricorso a questo tipo di prescrizione era massimo per farmaci del sistema nervoso centrale (26,3%), compresi gli anticonvulsivanti (66,6%), gli antipsicotici (43,8%) e gli antidepressivi (33,4%). I farmaci con 3 o 4 indicazioni approvate sono risultati meno associati all’impiego off-label rispetto a quelli con 1 o 2 indicazioni previste (6,7% vs 15,7%), mentre i farmaci approvati dopo il 1995 sono stati prescritti off-label meno spesso di quelli approvati prima del 1981 (8% vs 17%). I pazienti con Charlson Comorbidity Index =/>1 mostravano un ricorso all’off label inferiore rispetto ai soggetti con indice =0 (9,6% vs 11,7%). Infine, i clinici più orientati alla evidence based medicine erano meno propensi a prescrizioni di questo tipo.

Arch Intern Med, 2012 Apr 16. [Epub ahead of print]

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Gonartrosi, progressione dimezzata per chi fa uso di statine

L’impiego di statine si associa a oltre il 50% di riduzione della progressione totale di artrosi del ginocchio (ma non dell’anca). È quanto dimostrano i risultati di uno studio di popolazione prospettico condotto da Stefan Clockaerts, del Centro universitario medico Erasmus di Rotterdam (Olanda), e collaboratori, su una coorte di quasi 3.000 pazienti di età pari o superiore ai 55 anni. Ai partecipanti sono state effettuate radiografie del ginocchio e dell’anca alla visita iniziale e dopo una media di 6 anni e mezzo, attribuendo punteggi per l’artrosi sulla base dei metodi Kellgren e Lawrence. Ogni aumento di punteggio è stato valutato come progressione globale di malattia (incidenza e progressione). Le informazioni circa l’uso delle statine durante il follow-up sono state raccolte tramite i database farmaceutici. Si è quindi confrontata la progressione globale dell’artrosi tra utilizzatori e non utilizzatori di statine e, ricorrendo al modello della regressione logistica multivariata, è stato calcolato il valore di odds ratio (Or) corretto per le variabili confondenti. La progressione globale dell’artrosi del ginocchio e dell’anca è occorsa, rispettivamente, nel 6,9% e nel 4,7% dei casi. Ma l’Or per la progressione globale dell’artrosi del ginocchio negli utilizzatori di statine è stato di 0,43, mentre nessuna associazione si è colta tra utilizzatori di statine e progressione globale dell’artrosi d’anca.

Ann Rheum Dis, 2011 Oct 11. [Epub ahead of print]

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Lentiggini e nevi, rischio per due sottotipi di melanoma

La propensione allo sviluppo di lentiggini rappresenta il più importante fattore predittivo di lentigo maligna-melanoma (Lmm), mentre un’elevata propensione alla comparsa di nevi è fortemente predittiva di melanoma a diffusione superficiale (Smm). Inoltre, una storia di cancro cutaneo sembra influire solo sul rischio di Lmm, laddove il numero totale di ustioni solari è determinante soltanto per l’Ssm. Queste distinzioni tra fattori di rischio, importanti ai fini preventivi, sono state effettuate da Marina Kvaskoff, dell’institut Gustave Roussy di Villejuif (Francia) e collaboratori, in uno studio di popolazione caso-controllo svolto nel Queensland (Australia). È stato preso un campione di 49 pazienti con Lmm e di 141 soggetti con Ssm (in situ o invasivo), di età compresa tra i 14 e gli 86 anni al momento della diagnosi (anni 1979 e 1980) e 232 controlli. Mediante regressione logistica multinomiale si sono valutati i rischi di contrarre le due patologie in base a fattori fenotipici e ambientali. Il numero delle lentiggini solari si è rivelato il determinante più robusto di Lmm, con un odds ratio (Or) di 15,93; lo stesso fattore influiva in modo nettamente inferiore sul Smm (Or: 4,61). Al contrario, il numero di nevi ha costituito il più forte elemento determinante per Ssm (Or: 23,22), risultando molto debole per Lmm (3,60). Un’anamnesi patologica positiva per cancro della pelle è apparsa associata in modo significativo a Lmm (Or: 2,84) ma non a Smm (1,33). Una serie di ustioni solari multiple nel corso della vita ha quasi triplicato il rischio di Ssm, mentre non si è rilevata alcuna associazione analoga per Lmm. Fattori di rischio comuni per entrambe le patologie sono stati il numero di cheratosi solari e il complesso fotosensibile (per esempio, colore degli occhi e dei capelli, propensione all’arrossamento cutaneo e alla comparsa di lentiggini): globalmente, questi elementi sembrano provocare un aumento di rischio di 2-5 volte.

Arch Dermatol, 2011 Oct 17. [Epub ahead of print]

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Antibiotici nell’alimentazione animale da bandire

Due ricercatori della Tufts university School of medicine di Boston (Usa), Bonnie M. Marshall e Stuart B. Levy, affrontano, attraverso una revisione critica della letteratura, il problema dell’utilizzo degli antibiotici nell’alimentazione degli animali da allevamento a scopo non terapeutico ma principalmente per favorirne la crescita: uso indicato come una tra le principali cause dell’antibioticoresistenza. Gli autori riportano stime secondo cui l’utilizzo non terapeutico è otto volte superiore alla somministrazione effettuata allo scopo di curare animali ammalati. Nel lungo termine, si crea un ambiente ottimale che consente ai geni resistenti agli antibiotici di moltiplicarsi. «Fondamentalmente» si riporta nello studio «gli animali si trasformano in “fabbriche” per la produzione e distribuzione di batteri resistenti agli antibiotici, come la Salmonella e l’Mrsa, ossia lo Stafilococco aureo meticillino-resistente». L’antibioticoresistenza si può trasferire ad altri batteri e, anche se gli allevatori non utilizzano farmaci abitualmente usati per l’uomo, alla lunga si produce comunque un fenomeno di resistenza. Diversi studi citati nella revisione dimostrano che questi batteri passano facilmente dagli animali agli uomini con cui sono strettamente a contatto, come veterinari o allevatori, e poi alle loro famiglie. Il 90% degli antibiotici somministrati agli animali finisce nell’ambiente e la resistenza si diffonde direttamente per contatto oppure in via indiretta, attraverso l’acqua, l’aria e la catena alimentare. Nel proporre un bando all’utilizzo degli antibiotici nell’alimentazione degli animali, gli autori della ricerca ricordano le gravi conseguenze della progressiva estensione del fenomeno. Solo negli Usa, i costi per combattere infezioni antibioticoresistenti sono calcolati in 20 miliardi di dollari all’anno, più altri 8 ascrivibili ai costi aggiuntivi di ospedalizzazione. Senza contare le ben più gravi sofferenze che ne derivano ai pazienti.

Clin Microbiol Rev, 2011; 24(4):718-33

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