Anziani a rischio overdose con antitrombotici e antidiabetici

Un gruppo di ricercatori americani, dei Centers for disease control and prevention (Cdc) di Atlanta (Usa), guidato da Daniel S. Budnitz, si è occupato degli effetti avversi dei medicinali negli anziani e ha avviato un’indagine per determinare sia la frequenza dei ricoveri ospedalieri riconducibili a questa causa sia il contributo dei singoli farmaci alle ospedalizzazioni. Con l’aumento della popolazione anziana, il fenomeno è in crescita e il report segnala che, tra le persone che superano i 65 anni, è molto frequente il ricorso a più farmaci in una quota sempre più ampia di persone. Gli autori hanno utilizzato dati del National electronic injury surveillance system – Cooperative adverse drug event surveillance project, registrati dal 2007 al 2009, e hanno identificato 5.077 casi di ricoveri di emergenza dovuti alle reazioni avverse ai farmaci. Interpolando i dati su scala nazionale, i ricoveri ospedalieri di cittadini americani ultrasessantacinquenni si stimano in 99.628 all’anno; circa la metà di queste ospedalizzazioni riguarda anziani di età superiore agli 80 anni. In due casi su tre gli effetti avversi sono stati conseguenza di sovradosaggi non intenzionali. Inoltre si è visto che 4 farmaci o classi di farmaci sono stati implicati nel 67% di questi episodi, da soli o in combinazione con altri principi: il warfarin (33,3%), le insuline (13,9%), gli antipiastrinici orali (13,3%) e gli ipoglicemizzanti orali (10,7%). Invece, i farmaci ad alto rischio o ad alto livello di attenzione sono stati responsabili solo dell’1,2% dei ricoveri. In ultima analisi, i pericoli maggiori derivano da antitrombotici e antidiabetici: ed è qui che occorre intervenire per migliorarne il corretto uso e ridurre maggiormente le ospedalizzazioni da eventi avversi ai farmaci.

N Engl J Med, 2011; 365(21): 2002-12

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Fibrosi cistica: sì a liprotamasi

Nei pazienti con fibrosi cistica la terapia enzimatica pancreatica sostitutiva mediante capsule di liprotamasi (contenenti derivati biotecnologici altamente purificati di lipasi, proteasi e amilasi) alla dose di 1 capsula per pasto è ben tollerata e aumenta in modo significativo l’assorbimento di grassi e proteine, riducendo il peso delle feci. È l’esito di un trial internazionale di fase 3 a gruppi paralleli, in doppio cieco e controllato con placebo, coordinato da Drucy Borowitz della State university of New York at Buffalo (Usa). Sono stati coinvolti 138 soggetti di età pari o superiore a 7 anni affetti da fibrosi cistica con insufficienza pancreatica esocrina, compresi individui compromessi sotto il profilo nutrizionale e funzionale. I partecipanti sono stati sottoposti a un test basale per la rilevazione dei coefficienti di assorbimento di grassi e nitrogeni (Cfa e Cna) e del peso delle feci. Dopo un periodo di trattamento in aperto con lipromatasi, i soggetti sono stati randomizzati in proporzione 1:1 all’assunzione di capsule di lipromatasi o di placebo con 3 pasti e 2 snack al giorno. La differenza nelle variazioni del Cfa registrate tra il gruppo trattamento e quello placebo (espressa come media dei minimi quadrati) è stata di 15,1% per il sottogruppo con Cfa basale <40%, 8,6% per i soggetti con Cfa >40% al baseline e 10,6% per l’intera popolazione secondo l’analisi intent-to-treat. Risultati simili si sono visti per le modifiche del Cna. Il peso delle feci è apparso significativamente minore mentre la frequenza di evacuazione non ha subito variazioni.

J Cyst Fibros, 2011; 10(6):443-452

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Artrite idiopatica giovanile correlata a entesite

Il trattamento dell’artrite idiopatica giovanile con inibitori del Tnf-alfa è meno efficace nell’ottenimento della condizione di malattia inattiva in quei pazienti che presentano una patologia correlata a entesite. Lo si evince da una revisione retrospettiva dei dati relativi a tutti i bambini affetti da artrite idiopatica giovanile ricoverati presso un unico centro accademico americano, che avevano iniziato una terapia con inibitori del Tnf-alfa. Un team di ricercatori della University of Alabama at Birmingham (Usa), guidato da Katherine J. Donnithorne, ha valutato il grado di riduzione della patologia (secondo i criteri di Wallace del 2004) a 1 anno dall’inizio del trattamento e il raggiungimento dello stato di malattia inattiva in qualunque momento del periodo di studio. Mediante analisi uni- e multivariata si sono poi determinati i fattori predittivi di inattivazione della patologia. In totale avevano iniziato il trattamento 125 pazienti, ma solo di 88 si sono resi disponibili i dati del follow-up a 1 anno. Molti soggetti (49%) cominciarono la terapia entro 6 mesi dalla diagnosi di artrite idiopatica giovanile, di cui, al basale, erano presenti diversi fenotipi: il 29% dei pazienti presentava un’entesite acuta e solo il 23% mostrava una poliartrite attiva. Al follow-up di 1 anno il 41% dei soggetti aveva conseguito l’inattivazione della patologia, mentre il 54% non riuscì a raggiungere mai tale condizione durante il periodo dello studio. Usando modelli multivariabili, è risultato che un’artrite correlata a entesite e alti punteggi al Childhood health assessment questionnaire (Chaq) al basale sono indipendentemente associati al fallimento di un’azione volta a ottenere in seguito il conseguimento dell’inattivazione della malattia.

J Rheumatol. 2011 Dec; 38(12): 2675-81

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Sindrome climaterica ha solo sintomi emotivi

I sintomi somatici in pazienti con sindrome climaterica si associano a disturbi emotivi ma non a malattie o fattori fisici. Sono queste le conclusioni di uno studio cinese, condotto presso l’università medica di Guangzhou, che ha analizzato 78 pazienti in periodo di climaterio con disturbi ansioso-depressivi e 72 donne che non presentavano questi disturbi. Gli autori hanno misurato i sintomi utilizzando la scala climaterica di Green, che prevede la compilazione di un questionario; hanno inoltre registrato dati demografici e controllato parametri fisiologici come l’ormone sessuale, la pressione sanguigna, la densità ossea, il recettore alfa degli estrogeni; infine hanno controllato i disturbi psicologici attraverso la Hamilton anxiety rating scale (Hars-14) basata su 14 item che individuano e misurano numerosi sintomi psichici. Nel gruppo con disturbi ansioso-depressivi si sono registrati livelli significativamente inferiori di estradiolo e di progesterone e valori superiori della scala di Green. Inoltre, i sintomi somatici, di ansia e depressione si sono associati positivamente con l’Hars-14 e negativamente con i livelli di estrogeni. Invece, la scala climaterica di Green non ha evidenziato correlazioni statistiche con la pressione sanguigna, la densità ossea o altri fattori. Infine, tra i due gruppi non si sono rilevate differenze sostanziali nella frequenza degli alleli o nei polimorfismi del recettore alfa degli estrogeni.

Arch Gynecol Obstet. 2011 Nov 29. 

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Utilizzo degli inibitori TK nella leucemia mieloide cronica: studi di farmacoeconomia

Il National Institute for health and Clinical Excellence (NICE) ha prodotto recentemente (aprile 2012) un documento in cui vengono individuate le caratteristiche farmacoeconomiche dei 3 farmaci (imatinib, dasatinib, nilotinib) inibitori delle tirosinkinasi (TK) che sono attualmente indicati per il trattamento della leucemia mieloide cronica (LMC). La LMC è una malattia mieloproliferativa cronica che colpisce da 1 a 2 persone ogni 100.000 abitanti e rappresenta il 15-20% circa di tutte le leucemie dell’adulto, con simile percentuale nel sesso femminile e maschile; può manifestarsi in ogni età, con età mediana di comparsa intorno ai 58 anni e con assoluta rarità in età infantile. Più del 90% dei pazienti presenta positività del cromosoma Philadelphia che risulta dal gene di fusione bcr/abl codificante per una proteina tirosinkinasica che, controllando la proliferazione, determina il “vantaggio proliferativo” delle cellule ematopoietiche. Sono stati valutati i risultati di trials clinici di buona qualità DASISION (dasatinib vs imatinib) e ENEST (nilotinib vs imatinib). L’agenzia britannica ha formulato l’impossibilità di differenziare dasatinib e nilotinib per quanto attiene il grado di efficacia clinica, mentre l’uso di dasatinib si è dimostrato meno “cost-effective”. Le conclusioni hanno portato quindi alla raccomandazione di rimborsabilità di nilotinib come prima linea di trattamento e nei pazienti resistenti e/o intolleranti alle dosi standard di imatinib. È stato inoltre ribadito di porre attenzione all’utilizzo di dasatinib e nilotinib in pazienti con potenziali possibilità di allungamenti del QT.

NICE technology appraisal guidance 251, april 2012
guidance.nice.org.uk/ta251

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Non è detto che il colesterolo HDL protegga dall’infarto

Alcuni meccanismi genetici che aumentano l’HDLc non sembrano abbassare il rischio di infarto del miocardio (IM). Questi dati contraddicono il concetto che aumentare l’HDLc significhi automaticamente ridurre il rischio di IM, ed emergono da un ampio studio internazionale al quale  hanno partecipato anche alcuni ricercatori italiani. Il team di ricercatori ha provveduto a

  1. analizzare il polimorfismo di un singolo nucleotide (single nucleotide poymorphysm – SNP) nel gene endoteliale della lipasi (LIPG Asn396Ser), strettamente legato alla produzione di HDLc ed ha testato questo polimorfismo in 20 studi con più di 20.000 casi di IM vs 95.000 controlli
  2. testare, utilizzando uno score genetico consistente in 14 comuni polimorfismi associati a HDLc, lo score stesso su 12.482 casi di IM vs 41.331 controlli
  3. testare uno score genetico di 13 polimorfismi comuni esclusivamente associati con LDLc.

I risultati hanno evidenziato che i portatori del gene LIPG Asn396Ser, come peraltro previsto, avevano maggiori livelli di HDLc, livelli simili di altri fattori di rischio lipidico e non lipidico per IM, ma – e qui sta il dato inquietante – i maggiori valori di HDLc non erano associati ad un minore rischio di IM (p=0.85), convinzione ormai acquisita da studi osservazionali in cui  un aumento di 1 DS nel HDLc era associato ad una riduzione del rischio di IM (OR 0.62, 95% IC 0.58-0.66). Per l’LDLc invece i risultati dello score concordano con quelli degli studi osservazionali, per cui abbassare l’LDLc abbassa effettivamente il rischio cardiovascolare. Il risultato pratico dello studio è rilevante: questo nuovo strumento genetico ci dice che esistono ampie categorie di individui nei quali un aumento dell’ HDLc non significa automaticamente diminuzione del rischio di IM. Ciò non vuol dire che l’HDLc non abbia un effetto protettivo, ma mentre tutti i dati confermano che ha un senso abbassare l’LDLc, non si sa fino a che punto abbia senso una ricerca spasmodica di farmaci che possano aumentare il HDLc. 

Voigh BJ et al. The Lancet Published Online May 17, 2012 DOI:10.1016/S0140

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Il grana padano abbassa la pressione?

All’European Meeting on Hypertension 2012 è stata presentata la ricerca di un gruppo italiano sugli effetti benefici che il grana padano avrebbe sulla pressione arteriosa. Responsabili ne sarebbero due tripeptidi prodotti dalle proteinasi del Lactobacillus Helveticus, di cui è documentata un’attività ACE inibitoria. Gli autori hanno selezionato 29 soggetti in terapia antipertensiva che non assumevano ACEI o sartani ed hanno integrato la loro dieta con 30 g di grana padano per due mesi, senza alterare l’apporto calorico totale. Sono state effettuate le rilevazioni della pressione con metodiche office, office automatica, ABPM 24 h. Lo studio era in aperto vs un gruppo di controllo di 16 pazienti. Dopo il trattamento non si sono verificate variazioni nel BMI, nel colesterolo totale e HDL, trigliceridi, glicemia, Na e K, nella sodiuria; i soggetti che avevano assunto il grana padano mostravano una diminuzione media della PAS di 8 mmHg (p = 0.012) e della PAD di 7 mmHg (p = 0.021) rispetto ai controlli, indipendentemente dalla metodica di misurazione utilizzata: i risultati raccolti sono comparabili a quelli dei farmaci e superiori a quelli ottenuti con la sola restrizione del sodio alimentare. I risultati migliori si sono ottenuti con i formaggi mediamente invecchiati (9-12 mesi) perché in quel periodo la concentrazione dei tripeptidi responsabili dell’effetto ACEI è maggiore. Riguardo ai dubbi sull’eccessivo apporto di acidi grassi saturi e sodio col formaggio, gli AA fanno notare che questo tipo di formaggio non è particolarmente ricco di grassi o di Na, almeno in confronto con altri alimenti consumati: 30 g di grana padano contengono 128-129 mg di Na e 6 g di grassi (4 g saturi, 2 g insaturi). Purtroppo nei pazienti che già assumono ACEI o sartani l’effetto non è additivo. Lo studio è in aperto, ha una numerosità limitata ed è di breve durata; certamente necessita di ulteriori verifiche e necessitano studi crossover in doppio cieco, ma sicuramente l’argomento è originale e stimolante.

Crippa G et al. Dietary Integration with Grana Padano cheese effectively reduces blood pressure in hypertensive patients. J Hypertension 2012; 30 (e-Supplement A): e376

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Boceprevir e telaprevir nelle epatopatie da HCV genotipo 1: linee guida NICE

Il boceprevir (B) e il telaprevir (T) sono farmaci antivirali che inibiscono la proteasi NS3/4A, enzima fondamentale per la replicazione del virus dell’epatite C (HCV). Sono stati condotti in passato studi controllati di fase III, nei quali B o T erano associati alla terapia standard con interferone-pegilato e ribavirina (Peg+Rib). Questi studi avevano documentato – in pazienti con malattia epatica cronica da HCV genotipo 1 che non avevano ricevuto alcun trattamento specifico ed in pazienti che con Peg+Rib non avevano ottenuto una risposta virologica sostenuta (SVR) bensì una risposta nulla o soltanto parziale, oppure che erano andati incontro a una recidiva – un incremento significativo del numero delle SVR, in alcuni bracci sperimentali anche a livello doppio rispetto ai controlli. Questi risultati, tra l’altro indipendenti dal livello basale di fibrosi, sono da considerarsi assai favorevoli, anche se la popolazione degli studi aveva un’età media inferiore rispetto a quella dei pazienti abitualmente osservati nella pratica clinica. Inoltre il numero dei pazienti con cirrosi compensata era davvero basso ed era perciò legittimo essere cauti nel ritenere che in essi si possono raggiungere livelli di SVR analoghi a quelli dei pazienti con score METAVIR non indicativo di cirrosi (nei quali la SVR si associa all’arresto della evoluzione della malattia con prevenzione della cirrosi. In base a questi studi i due farmaci sono stati autorizzati alla vendita negli USA e nella Comunità Europea e si attende perciò a breve termine che essi siano commerciabili anche in Italia. Essendo i farmaci già disponibili nell’UK, il National Institute for Health and Clinical Excellence (NICE) ad aprile 2012 ha elaborato articolate linee guida (LG) per il loro impiego. Da tali LG possono essere selezionate le seguenti raccomandazioni, che appaiono di particolare interesse per la pratica clinica

  • B e T, in combinazione con Peg+Rib, costituiscono un’opzione negli adulti con epatite cronica  e cirrosi epatica scompensata da HCV genotipo 1, mai trattati o con fallimento di una precedente terapia
  • B va impiegato per os alla dose di 800 mg/tid per un periodo di 44 settimane dopo una fase di lead-in con Peg+Rib della durata di 4 settimane; in alcune particolari condizioni possono essere effettuati cicli di terapia più brevi in base all’accertamento di una precoce SVR o dell’inefficacia della terapia
  • T va invece impiegato alla dose di 750 mg/tid per 12 settimane; al termine di questo primo ciclo terapeutico si prenderà la decisione circa l’opportunità e le modalità di prosieguo della terapia
  • la triplice terapia comporta un notevole aumento dei costi rispetto alla terapia con solo Peg+Rib; il rapporto costo/beneficio della terapia si mantiene ad un livello accettabile in rapporto al guadagno di Qaly; nella valutazione economica vanno tenute presenti anche la riduzione dei costi diretti e indiretti conseguente al possibile arresto dell’evoluzione della malattia e  la riduzione del rischio della trasmissione dell’infezione ai soggetti sani
  • l’evento avverso più importante del B è l’accentuazione dell’anemia già correlata alla Rib; tuttavia nella maggioranza dei casi non è necessario ricorrere all’impiego dell’eritropoietina, ma può essere sufficiente una riduzione progressiva della posologia della Rib; altro frequente evento avverso da B è la disgeusia
  • anche la T può causare un incremento dall’anemia, ma di entità minore rispetto al B; gli effetti secondari indesiderati più frequenti ed importanti di T sono invece i disturbi anorettali e il rush cutaneo, che rischiedono spesso specifici interventi terapeutici
  • non sono previste decisioni differenti, rispetto al passato, per i tossicodipendenti, gli alcolisti ed  i coinfetti HCV/HIV.

Si può pertanto considerare la triplice terapia Peg+Rib+B o T come prima opzione terapeutica anche nei soggetti mai trattati. Ma l’incremento degli effetti collaterali indesiderati, la necessità di ingerire un gran numero di compresse ed i costi elevati fanno ritenere opportuno continuare nella ricerca di ulteriori terapie per le epatopatie croniche da HCV, genotipo 1 in particolare. 

Telaprevir for the treatmentnt of genotype 1 chronic hepatitis C. NICE technology  appraisal guidance 252. Aprile 2012 Boceprevir for the treatment of genotype 1 chronic hepatitis C. NICE technology  appraisal guidance 253. Aprile 2012

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Azitromicina e rischio di aritmie

Molti macrolidi hanno effetti proaritmici, per cui vengono associati al rischio di morte improvvisa. Per contro l’azitromicina viene generalmente considerata come poco o punto cardiotossica, ma recenti reports riferiscono che anch’essa può avere un carattere proaritmico ed aumentare perciò il rischio di morte cardiovascolare e di morte improvvisa. Per chiarire questo problema, sul NEJM è stata recentemente pubblicata un’analisi retrospettiva su pazienti che hanno utilizzato azitromicina ed altri antibiotici. Secondo le conclusioni dello studio i pazienti che durante 5 giorni di terapia utilizzavano azitromicina, rispetto a quelli che non assumevano antibiotici, andavano incontro

  • ad un significativo aumento della morte cardiovascolare (HR 2.88; p < 0.001)
  • ad un aumento della mortalità totale (HR 1.85; p = 0.002).

Simili risultati si sono avuti confrontando l’azitromicina con l’amoxicillina: si sono stimate 47 morti cardiovascolari in più per milione di cicli di terapia e i pazienti più a rischio erano quelli che in condizioni basali erano già compromessi, con 245 morti stimate in più per milione di cicli terapeutici.
Anche nei confronti della ciprofloxacina il rischio è risultato maggiore, ma non nei confronti della levofloxacina. Bisogna chiarire che il rischio non persiste dopo la cessazione della terapia, perché le concentrazioni seriche di azitromicina calano molto rapidamente, nonostante rimangano alte nei tessuti ancora per molti giorni. In conclusione, durante 5 giorni di terapia con azitromicina si è verificato un piccolo aumento del rischio assoluto di morti cardiovascolari: questo rispetto alla terapia senza antibiotici, ma anche nei confronti della terapia con amoxicillina, ed è risultato particolarmente elevato nei pazienti già ad alto rischio cardiovascolare  in condizioni basali. 

Ray WA et al. N Engl J Med 2012;366:1881-90

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Ancora su ARBs e cancro: non ci sono prove

In altre occasioni ci siamo occupati del sospetto che gli ARBs (per la loro interferenza con i recettori dell’angiotensina II coinvolti nell’angiogenesi) possano avere una qualche responsabilità nello sviluppo del cancro. Il dubbio era stato sollevato dallo studio CHARMS, e da allora sono stati pubblicati vari studi a favore e contro tale ipotesi. Recentemente dati metanalitici dell’ARB Trialists Collaboration, piuttosto solidi, hanno concluso che nulla emerge in questo senso: il rischio è simile per gli ACE-inibitori (ACE-I), gli ARBs e per l’associazione. Recentemente il BMJ ha dato un ulteriore contributo a favore degli ARBs, pubblicando un lavoro di Baskaran e coll, in cui sono stati messi a confronto il rischio di cancro in pazienti sottoposti a trattamento con ARBs col rischio di cancro in pazienti trattati con ACE-I. Come outcome si sono ricercati tutti i tipi di cancro e in particolare quello della prostata, del seno, del polmone e del colon. Lo studio è stato condotto dai medici di base della Gran Bretagna, ed ha coinvolto 377.649 pazienti trattati con Arbs o ACEI per almeno 1 anno. I dati sono stati analizzati dal UK General Practice Research Database. Il follow-up medio è stato di 4.6 anni e sono stati osservati 20.203 casi di cancro, ma non c’è stata evidenza che il rischio fosse aumentato nei pazienti sottoposti a terapia con ARBs (p=0.10). Invero in questi pazienti si è riscontrato un lieve aumento del cancro del seno (p=0.02) e della prostata (p=0.04), che però in termini assoluti corrispondeva a 0.5 -1.1 casi, rispettivamente, per 1.000 persone/anno. Una maggior durata del trattamento non ha prodotto un aumento del rischio. In pratica l’uso degli ARBs non è risultato associato ad un aumento del rischio di cancro, ed il leggero aumento del cancro al seno e alla prostata era piccolo in termini assoluti. In più la mancata associazione con la durata del trattamento non può escludere spiegazioni non causali.

Bhaskaran K et al. BMJ. 2012; 344: e2697 doi:10.1136/bmj.e2697

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