SSRI e cadute con conseguenze dannose nei pazienti con demenza

Agli anziani sono frequentemente prescritti farmaci antidepressivi. La correlazione fra l’uso di tali farmaci ed il rischio di cadute è già ampiamente nota: un recente studio ha il pregio di correlare il rischio incrementale di cadute con conseguenze dannose con il dosaggio degli inibitori selettivi del reuptake della serotonina (SSRI). Lo studio è stato compiuto sui residenti di 248 case di riposo, analizzando l’uso di antidepressivi, il dosaggio dei farmaci, e gli eventi caduta con le loro conseguenze, registrati mediante un sistema di report standardizzato di eventi. Il data base ha analizzato 85.074 persone/giorni e si è rivolto ad una popolazione omogenea di anziani affetti da demenza. L’analisi statistica ha chiaramente evidenziato una relazione dose-risposta significativa fra cadute con conseguenze traumatiche e uso di SSRI. Il rischio incrementa del 31% con aumento di 0.25 della DDD (defined daily dose), del 73% con aumento di 0.50 della DDD e ben del 198% con aumento di 1.00 della DDD. Il rischio cresce ulteriormente in caso di combinazione con sedativi o ipnotici. La forza dello studio sta nell’assenza di bias di selezione o di registrazione: erano obbligatoriamente registrate tutte le cadute di tutti gli ospiti, qualunque fosse la terapia farmacologica in uso. Si possono tuttavia rimarcare alcuni punti deboli: la depressione può essere essa stessa fattore di rischio per le cadute; non è noto se i sintomi per cui gli antidepressivi erano prescritti fossero controllati; alcuni farmaci d’uso frequente (fluoxetina o citalopram) non erano usati in questi pazienti, ricoverati in strutture appartenenti ad un’unica istituzione.La raccomandazione conclusiva sulla prudenza nell’interpretazione dei risultati e sulla necessità di ulteriore approfondimento è ancora una volta appropriata. 

Sterke CS et al. British Journal of Clinical Pharmacology 2012, in press
DOI: 10.1111/j.1365-2125.2012.04124.x

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L’amoxicillina è necessaria nelle rinosinusiti acute?

Ammesso che ve ne fosse bisogno, ecco un argomento in più contro l’uso indiscriminato di antibiotici: JAMA ha recentemente pubblicato i risultati di uno studio concepito per verificare se il trattamento con amoxicillina in aggiunta alla terapia sintomatica, in pazienti affetti da rinosinusite acuta (RSA ), sia più efficace del placebo. Lo studio è stato condotto in 10 comunità del Missouri, su 166 pazienti affetti da RSA non complicata: i pazienti sono stati divisi in 2 gruppi, cui sono stati somministrati, random, placebo o amoxicillina 1.500 mg, oltre ai comuni farmaci sintomatici. L’end point primario era il miglioramento della qualità di vita dopo 3-4 giorni, misurato col Sinonasal Outcome Test-16 (la differenza minima tra 2 gruppi di confronto deve essere di 0.5 unità su una scala  da 0 a 3). L’end point secondario era rappresentato da ricaduta, soddisfazione del paziente, stato funzionale ed effetti collaterali. I controlli sono stati effettuati ai giorni 3, 7, 10 e 28. Ebbene, non c’è stata differenza significativa nel Sinonasal Outcome Test-16 al giorno 3 (si è osservata una diminuzione dell’indice di 0.59 nel gruppo amoxicillina e di 0.54 nel gruppo di controllo con una differenza media di 0.03), e meno ancora al giorno 10 (differenza media pari a 0.01), mentre una debole significatività si è riscontrata al giorno 7 a favore del gruppo in amoxicillina (differenza media 0.19; p = 0.02). Il comportamento è stato simile per i sintomi riferiti: non significatività ai giorni 3 e 10 ed una debole significatività al giorno 7. Non si sono infine rilevate differenza negli outcomes secondari né si sono rilevati, in alcun gruppo, eventi avversi. 

Garbutt JM et al.JAMA 2012; 307(7): 685-692

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Per quanto tempo la terapia antiandrogena nel carcinoma prostatico radiotrattato?

La terapia antiandrogena è un trattamento molto efficace nel cancro (ca) prostatico localmente avanzato e si utilizza dopo la radioterapia, ma per quanto tempo va somministrata? Classicamente viene somministrata per 3 anni, ma rischia di essere mal tollerata e per di più ci sono delle segnalazioni che una terapia per soli 6 mesi, che provoca molto meno effetti secondari ed una qualità di vita molto migliore, dia dei risultati simili. La questione è importante sotto il profilo clinico, ed uno studio pubblicato su Lancet Oncology l’ha affrontata cercando di individuare quali siano i pazienti in cui la radioterapia ed una soppressione androgenica per soli 6 mesi sia insufficiente. Utilizzando come endpoint la mortalità da ca prostatico gli AA hanno utilizzato il PSA come test precoce surrogato. Lo studio è il risultato di 2 trials (uno americano e uno australia-asiatico) che hanno raccolto, random, 734 uomini con un ca prostatico localmente avanzato, nei quali sono stati utilizzati il PSA alla fine dei 6 mesi (PSA end) e la concentrazione più bassa di PSA (PSA nadir). Gli AA hanno osservato che sicuramente la terapia antiandrogena accompagnata alla radioterapia era più efficace della sola radioterapia (p < 0.0001), ma un PSA end superiore a 0.5 ng/mL era indice di maggiore rischio, per cui i pazienti con questi valori dovrebbero essere presi in considerazione per una soppressione a lungo termine. Anche un PSA nadir superiore a 0.5 ng/mL è indice di rischio e pure questi pazienti dovrebbero essere considerati per un trattamento a 3 anni (vedi figura). Lo studio è importante perché offre anche al medico non specialista un’indicazione accessibile per una prosecuzione del trattamento con antiandrogeni in questo tipo di pazienti, ma ha dei limiti oggettivi: gli effetti sulla concentrazione del PSA possono esser determinati non solo dagli antiandrogeni, ma anche da farmaci concomitanti utilizzati nei due studi, per cui si rendono necessari ulteriori trials randomizzati che chiariscano questi dubbi.

D’Amico AV et al. Lancet Oncol 2012; 13: 189-95

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La duplice antiaggregazione se somministrata precocemente è efficace e sicura per prevenire altri episodi ictali

Un recente studio meta-analitico (The Acute Antiplatelet Stroke Trialists Collaboration) ha voluto confrontare sicurezza ed efficacia di un duplice trattamento antiaggregante somministrato entro 3 giorni dalla comparsa della sintomatologia ictale vs la usuale monoterapia. Allo scopo sono stati revisionati tutti gli studi presenti in letteratura che avessero come endpoint primario la recidiva di ictus (ischemico, emorragico, sconosciuto, fatale, non-fatale) e che consentissero questo confronto. Ne sono stati selezionati 12 per un totale di oltre 3.700 pazienti. Questo quanto è risultato

  • rispetto alla monoterapia, la duplice antiaggregazione (ASA-dipiridamolo o ASA-clopidogrel) ha significativamente ridotto
    • la recidiva di ictus a 3.3% (58 eventi) vs 5.0% (91 eventi); risk ratio 0.67; 95% CI 0.49-0.93)
    • gli eventi vascolari (ictus, infarto miocardico, morte vascolare) a 4.4% (74 eventi) vs 6% (106), risk ratio 0.75, 95% CI 0.56-0.99)
    • la combinazione di ictus, attacco ischemico transitorio, sindrome coronarica acuta, e morte per tutte le cause a 1.7% (100) vs 9.1 (136 eventi), risk ratio 0.71, 95% CI 0.56-0.91)
  • riguardo ai sanguinamenti, la duplice antiaggregazione ha evidenziato un trend non significativo di aumento dei sanguinamenti maggiori a 0.9% (15 eventi) vs 0.4% (6 eventi) con monoterapia, risk ratio 2.09, 95% CI 0.86-5.06.

Gli autori della meta-analisi concludono nel seguente modo: quando somministrata precocemente, la duplice antiaggregazione ha mostrato maggior efficacia della mono-terapia e buona sicurezza per prevenire le recidive di ictus e di eventi cardiovascolari; tuttavia i dati andranno validati con ulteriori studi prospettici. 

Geeganage CM et al for the Acute Antiplatelet Stroke Trialists Collaboration. Dual or Mono Antiplatelet Therapy for Patients With Acute Ischemic Stroke or Transient Ischemic Attack: Systematic Review and Meta-Analysis of Randomized Controlled Trials. Stroke 2012 Jan 26 [Epub ahead of print]

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Ipertensione arteriosa e scarsa compliance alla terapia: uno studio randomizzato

La scarsa aderenza alla terapia è una delle maggiori cause di insuccesso nel trattamento dell’ipertensione arteriosa: ci sono dei dati in letteratura che indicano come i pazienti ipertesi assumano solo il 53-70% dei farmaci loro prescritti. Uno studio inglese (eseguito però in Giordania) si è posto l’obiettivo di stabilire, in pazienti ipertesi non complianti, l’efficacia di un programma finalizzato ad ottenere una stretta aderenza alla terapia confrontato con una gestione usuale del paziente iperteso. Sono stati identificati 181 soggetti non complianti, 45 dei quali (gli irriducibili) rifiutarono di partecipare; dei rimanenti 136, la metà (68), randomizzati in singolo cieco, ricevettero le indicazioni terapeutiche ma gli altri 68, in aggiunta alle indicazioni terapeutiche, vennero inclusi in un programma di educazione. In estrema sintesi, il programma di educazione consisteva in 7 sessioni di educazione sanitaria di 20 minuti per un periodo di 7 settimane. La pressione basale media era di 164,5 mmHg (SD 10.0). L’endpoint principale era la pressione arteriosa  sistolica (PAS) a 11 settimane, l’endpoint secondario la pressione arteriosa diastolica (PAD). I risultati, sebbene lo studio sia di piccole dimensioni, non lasciano adito a dubbi: l’aderenza alla terapia è aumentata del 37% ma, quello che più conta, la PAS si è ridotta di 23,1 mm Hg (95% CI -25.85, -20.36), e la PAD di 15,2 mm Hg (95% CI -17.55, -12.80). Non si sono verificati effetti avversi di rilievo. In conclusione, lo studio ci offre una conferma in più a quanto già sapevamo: un programma di educazione per migliorare l’aderenza alla terapia, oltre ad ottenere effettivamente una migliore aderenza, determina un’importante riduzione della pressione arteriosa, e con essa, naturalmente, un minore rischio cardiovascolare.

Alhalaiqa F et al. Journal of Human Hypertension 2012; 26: 117-126

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Terapia a lungo termine con bassa dose di interferone pegilato ed eccesso di mortalità

HALT-C (Hepatitis C Antiviral Long-term treatment against Cirrhosis) è uno studio prospettico, multicentrico, randomizzato e controllato, che è stato eseguito per valutare se una terapia protratta con una bassa dose (90 mcg ogni settimana per iniezione sottocutanea) di interferone pegilato alfa2a (PegINF) può favorire una progressione più lenta delle epatopatie croniche (EC) gravi da virus C (HCV) in pazienti che non hanno risposto ad un precedente trattamento per 20 settimane a pieno dosaggio con PegINF (180 mcg ogni settimana per iniezione sottocutanea) e ribavirina (1.000-1.200 mg per os ogni giorno). La randomizzazione è stata eseguita alla 24° settimana ed il gruppo di controllo non ha ricevuto alcun trattamento antivirale. La terapia è stata praticata per 3 anni e mezzo. Le conclusioni dello studio indicano che la terapia protratta con una bassa dose di PegINF non influisce sulla progressione di malattia nei pazienti con EC da HCV con fibrosi avanzata, con o senza cirrosi. I ricercatori dell’HALT-C Trial Group hanno esteso l’analisi dei dati dello studio per ulteriori differenti valutazioni correlate alla terapia di mantenimento con PegINF nei medesimi soggetti con malattia cronica da HCV in fase avanzata. Tra l’altro sono state indagate la frequenza e la causa dei decessi in questa coorte di pazienti. In una mediana di 5.7 anni (range 0-8 anni) su 1.050 pazienti randomizzati ne sono deceduti 122 (12%). 74 pazienti (7%) hanno ricevuto un trapianto di fegato; di essi sono successivamente deceduti 10, che sono stati inclusi nel numero totali delle morti. 66 decessi (62%) sono stati causati dalla malattia epatica e 46 (36%) da cause diverse. Già dopo 3 anni di terapia si è rilevato, rispetto ai controlli, un eccesso di mortalità dovuto soprattutto ad una malattia non correlata con la patologia epatica; la mortalità da patologia epatica è stata simile nel gruppo trattato e in quello di controllo. A 7 anni la mortalità globale è stato maggiore nel gruppo trattato (20%) rispetto al gruppo di controllo (15%) con p = 0.049. La mortalità è stata maggiore nel gruppo con fibrosi (14%) rispetto al gruppo con cirrosi (7%) con p = 0.01. L’inserimento dei soggetti sottoposti a trapianto non ha apportato variazioni significative ai dati sopra indicati. Ciò potrebbe essere spiegato, almeno in parte, con il risultato di un’altra analisi statistica eseguita dall’HALT-C Trial Group che ha documentato come la terapia prolungata con basse dosi di Peg-INF non riduca l’incidenza del carcinoma epatocellulare (HCC) nei pazienti con fibrosi avanzata che non avevano ottenuto una  risposta virologica sostenuta con terapia standard; la riduzione si è verificata invece nei pazienti con cirrosi. Rimangono invece sconosciuti i motivi per cui vi è stato un eccesso di mortalità nei pazienti randomizzati per la terapia di mantenimento a lungo termine e a basse dosi con PegINF. Eventi avversi gravi da PegINF non sembrano aver avuto un ruolo rilevante: solo in un caso di setticemia, data una stretta correlazione temporale con l’iniezione di PegINF, viene ammesso un ruolo importante e forse decisivo del farmaco. Si può ipotizzare la responsabilità degli effetti del PegINF sulla risposta immunologia dell’ospite, ma non è stato possibile dimostrare un’incidenza molto più elevata di malattie potenzialmente fatali (cardiopatie, pneumopatie o neoplasie). Anche il tentativo di individuare fattori generici di rischio, quali il fumo o l’obesità, non ha dato risultati significativi. Ulteriori studi sull’argomento sono dunque necessari. Ma nel frattempo l’HALT-C Trial Group raccomanda di valutare con prudenza l’impiego della terapia a lungo termine con Peg-INF e di attuare un’attenta sorveglianza anche di tutte le patologie apparentemente non correlate. 

Di Bisceglie AM et al. (HALT-C Trial Investigators). Prolonged therapy of advanced chronic hepatitis C with low-dose peginterferon. N Engl J Med 2008; 359:2429-41
Lok AS et al.(Halt-C Trial Group). Maintenance peginterferon therapy and other factors associated with epatocellular carcinoma in patients with advanced hepatitis C. Gastroenterology 2011; 140:840-9
Di Bisceglie AM et al. (HALT-C Trial Group). Excess Mortality in Patients with Advanced Chronic Hepatitis C Treated with Long-Term Peginterferon.
Hepatology 2011; 53:1100-8

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Field medicine: un nuovo paradigma della medicina geriatrica

Il Dipartimento di Geriatria della Kochi Medical Scool ha sviluppato negli anni a cavallo del nuovo millennio un progetto di ricerca e di intervento sul campo, utilizzando – per primo in Giappone – il “Comprehensive Geriatric Assessment” (la nostra Valutazione Multidimensionale) per una valutazione effettuata sulla popolazione anziana, non limitatamente all’ambito ospedaliero, ma anche sul territorio, nelle famiglie e nelle case di riposo  La ricerca sul campo è stata compiuta nel ventennio 1990 – 2010 nelle piccole comunità di Kahoku e Tosa, la cui elevata concentrazione di popolazione ultrasessantacinquenne (29% e 40% rispettivamente, in confronto alla media nazionale del 12% all’inizio dello studio) consentiva di proiettarne i risultati alla popolazione giapponese del 2025 e del 2050. La valutazione comprendeva un questionario annuale sullo stato di salute, una valutazione funzionale, cognitiva, sociale, neuro-comportamentale, la somministrazione della Geriatric Depression scale, un esame medico e neurologico: in definitiva una piccola Framingham geriatrica asiatica. Dati rilevanti si sono ottenuti sullo stato cognitivo e funzionale della popolazione anziana giapponese e sulla correlazione con numerose variabili cliniche o sociali, sul profilo di rischio di caduta, sulla qualità di vita e sulle aspettative degli anziani valutati, sugli effetti dei programmi di intervento che man mano venivano sviluppati. Analoghi programmi sono stati somministrati a gruppi di popolazione asiatica nei più diversi contesti (villaggi agricoli vietnamiti, case di riposo in Mianmar, popolazione anziana del Tibet) permettendo lo sviluppo di programmi di intervento misurati sulle risorse disponibili in loco ma non per questo privi di efficacia. Particolarmente rilevante il dato che emerge dallo studio delle popolazioni himalayane, il cui adattamento genetico e culturale alla vita in ambiente a bassa tensione di ossigeno è stressato dalla globalizzazione e dai cambiamenti di stile di vita. La comprensione tuttavia del processo di invecchiamento nelle popolazioni himalayane e della loro attitudine verso malattia e vecchiaia può essere sommamente illuminante rispetto alla questione fondamentale in geriatria: che cos’è per l’uomo l'”optimal aging”? Consapevolezza di sé e profonda spiritualità non sono meno importanti di una buona salute e di un buon inserimento economico e sociale. 

Matshubayasci K et al. Geriatr Gerontol Int 2012; 12: 5-15

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In dieci categorie di cibi le cause di una eccessiva introduzione di sodio

Negli USA e nelle popolazioni occidentali si consuma troppo sodio rispetto a quanto raccomandato dalle Linee Guida che ne consigliano meno di 2.300 mg/die in generale e 1.500 mg in popolazioni particolari (diabetici, ipertesi, neri). Come sappiamo, non basta non aggiungere sale alla dieta, ma conta soprattutto la quantità di sale contenuto negli alimenti che consumiamo. Un rapporto diffuso nel What We Eat in America, National Health and Nutrition Examination Survey, 2007-2008, pubblicato nel febbraio 2012, ha coinvolto 9.013 persone di età uguale o superiore a 2 anni. Di queste 7.227 hanno (o è stato per loro) completato un questionario (52% donne, 46% uomini, ispanoamericani e afroamericani compresi), e si sono avuti i seguenti risultati (vedi tabelle 2,3,4)

  • il consumo medio di sodio è stato di 3.266 mg/die, escludendo il sale aggiunto a tavola

  • il 44% del sodio consumato proveniva da 10 alimenti: pane e panini, carni trattate in vario modo, pizza, pollame, sandwiches, formaggio, piatti di pasta misti, piatti di carne misti e spuntini

  • più del 70% del sodio proveniva dai cibi stoccati nei magazzini

  • per la pizza e il pollame, rispettivamente il 51% e il 27% del sodio proveniva dai fast-foods, che rappresentano i pasti più critici.

In Europa la situazione non è sicuramente molto differente e, considerati i problemi per la salute (in particolare l’ipertensione) causati dal sodio, emerge quanto sia importante una politica educazionale sul suo consumo, sia rivolta alla popolazione sia rivolta ai ristoratori, ed è fondamentale l’impegno dei medici al riguardo. Lo studio calcola che ridurre il sodio di questi alimenti di ¼ può ridurne l’introito totale del 10%, prevenire 28.000 morti e risparmiare 7 miliardi di dollari nella sanità. 

Vital Signs: Food Categories Contributing the Most to Sodium Consumption — United States, 2007-2008. Weekly, 2012 (February 10); 61(05): 92-98

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Dalla genomica per indagare autismo e deficit intellettivi

Nel corso dell’ultimo decennio, i progressi nella ricerca genetica hanno permesso di individuare alcune particolarità genetiche connesse all’autismo e alle disabilità intellettive, così come ad altri disturbi. Tre specialisti americani ne discutono su The New England journal of medicine e passano in rassegna le diverse tecniche che hanno permesso la rapida scoperta di cause genetiche nell’autismo e in diverse patologie che comportano danni alle funzionalità intellettive. Dalla scoperta della trisomia del cromosoma 21 nella sindrome di Down, molte altre anomalie sono state individuate. Per esempio, la sindrome da microdelezione di 17q21.31 è stata recentemente identificata grazie alla tecnologia dei microarray ad alta risoluzione e si associa a disabilità intellettiva, ipotonia, convulsioni, dismorfie facciali, disturbi renali e cardiaci. Un altro esempio è dato dalle delezioni di 16p11.2, riscontrate in pazienti con autismo e associate anche a soggetti non autistici ma con disabilità intellettive. L’analisi di Dna microarray viene raccomandata come test nei bambini con disabilità intellettive, ritardi di sviluppo, autismo o anomalie congenite e fornisce una diagnosi molecolare nel 15-20% dei casi. Anche il sequenziamento dell’intero esoma si è rivelato uno strumento molto valido nei laboratori di ricerca, dove i primi successi si sono avuti con l’identificazione del gene malattia nella sindrome di Freeman-Sheldon (MYH3). Ma ora la tecnica sta rapidamente entrando nei laboratori diagnostici e si traduce «in migliori diagnosi, prognosi e terapie per questi gravi disturbi».

N Engl J Med, 2012; 366(8):733-43

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Verso l’assunzione quotidiana di Asa per prevenire il cancro

Una serie di tre articoli (due apparsi su Lancet, il terzo su Lancet Oncology) – tutti firmati da Peter M. Rothwell, dell’università di Oxford (UK) – aggiungono ulteriori indicazioni circa la possibilità di ricorrere all’assunzione quotidiana di acido acetilsalicilico (Asa) per prevenire e forse trattare il cancro. Nel primo studio sono analizzati i dati individuali di pazienti coinvolti in 51 trial randomizzati di Asa vs non Asa nella prevenzione di eventi vascolari. Si è visto che l’Asa riduce il rischio di morte per cancro del 15% rispetto ai controlli. Questo valore sale a 37% nel caso di pazienti in terapia da oltre 5 anni. La diminuzione dei decessi da cancro ha coinciso con una riduzione del 12% delle morti globali non vascolari equivalente al 91% di tutti i decessi. «Accanto alla nota diminuzione del rischio di cancro a lungo termine» commenta Rothwell «si nota una diminuzione di incidenza e mortalità tumorale a breve termine e un rischio ridotto di sanguinamenti maggiori extracranici da uso esteso». Nel secondo articolo si analizza l’effetto dell’Asa sulle metastasi; i dati sono stati raccolti da 5 grandi trial randomizzati con Asa 75 mg/die o più vs controllo per la prevenzione di eventi vascolari, durante i quali sono stati  diagnosticati i secondarismi. A un follow-up medio di 6,5 anni, il gruppo Asa ha visto ridotto il rischio di cancro con metastasi a distanza del 36%, di adenocarcinoma (colon, polmone, prostata) del 46% e di altri tumori solidi (vescica, rene) del 18%. Gli effetti, indipendenti dall’età e dal sesso, si sono  realizzati con la formulazione a basse dosi e a lento rilascio. Anche il terzo studio analizza l’effetto dell’Asa sulle metastasi, attraverso una revisione sistematica di trial osservazionali vs trial randomizzati (Rct). Questo confronto è stato effettuato in quanto gli Rct con Asa hanno chiaramente stabilito la riduzione di rischio di ca colorettale (42%), di vari altri tumori solidi e di metastasi, ma non hanno il potere statistico per stabilire gli effetti su forme di cancro meno comuni o che colpiscono le donne. Inoltre gli studi osservazionali hanno il vantaggio di poter dare risultati in tempi molto brevi, rispetto ai 10-20 anni dei trial prospettici. «Gli studi osservazionali» osserva Rohwell «evidenziano che l’assunzione regolare di Asa riduce i rischi a lungo termine di vari tumori e delle metastasi a distanza e sono coerenti con quelli degli Rct». 

Lancet, 2012 Mar 21. [Epub ahead of print]
Lancet, 2012 Mar 21. [Epub ahead of print]
Lancet Oncol, 2012 Mar 21. [Epub ahead of print]

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