Cambia profondamente l’approccio alla prevenzione del rischio cardiovascolare nelle nuove linee guida stilate dall’American college of cardiology e dall’American society of cardiology. Muta innanzitutto l’obiettivo: difesa non solo dagli attacchi cardiaci ma anche dall’ictus. Inoltre è prevista una nuova formula per il calcolo del rischio (che tiene conto di età, sesso, etnia, pressione del sangue, colesterolemia, diabete e abitudine al fumo) da rivalutare ogni 4-6 anni nei soggetti tra i 40 e i 79 anni. Meno rigidi i target lipidemici e meno aggressiva la terapia ipocolesterolemizzante. Ora si raccomandano valori di colesterolemia totale sotto i 200 mg/dl e di Ldl sotto i 100 mg/100 ml, e si consiglia l’uso delle statine in 4 casi: pregressa malattia cardiaca, valori di Ldl =/> 190 mg/100 ml o superiore (di solito con rischio genetico), soggetti tra i 40 e i 75 anni con diabete di tipo 2, e pazienti tra i 40 e i 75 anni con un rischio stimato a 10 anni di almeno il 7,5% in base alla nuova formula. Riprende ampio spazio lo stile di vita, lo stimolo all’esercizio fisico e i piani individualizzati per combattere l’obesità. «La prima impressione è totalmente negativa» afferma Salvatore Novo, presidente uscente della Società italiana di cardiologia (Sic) e docente di Malattie dell’apparato cardiovascolare all’università di Palermo. «Innanzitutto sono introdotti nuovi criteri per il calcolo del rischio cardiovascolare basati su una formula matematica complessa di non agevole attuazione». Ma il problema più grande, per Novo, è la confusione sui valori target. «Le raccomandazioni Usa precedenti alle attuali avevano stabilito in 70 mg/100 ml il tasso di Ldl da raggiungere nei pazienti sopravvissuti a infarto o ad altissimo rischio, mentre in quelle europee del 2007 il valore era di 80 mg/100 ml. Nel 2012 la Società europea di cardiologia (Esc) aveva portato chiarezza e semplificazione, adeguandosi ai valori Usa in prevenzione secondaria. E ora addirittura non si parla più di target e ci si limita a dire che nei pazienti ad alto rischio si devono usare le statine più potenti ad alte dosi per ridurre le Ldl del 50%, creando confusione». La società europea di arteriosclerosi (Eas)sta già preparando una nota vigorosa contro il documento Usa. «Vogliamo mantenere le nostre linee guida europee 2012, senza provocare ulteriore confusione a cardiologi e Mmg» conclude Novo
La somministrazione orale di acido alfalipoico (Ala) e superossido dismutasi (Sod) riduce l’uso di analgesici nei pazienti con lombalgia cronica (Lbp), e ne migliora la disabilità. Parola di Emilio Battisti, reumatologo al Centro Tammef (Therapeutic Application of Musically Modulated Electromagnetic Fields) dell’Università di Siena e primo autore di uno studio sull’European Journal of Physical and Rehabilitative Medicine. Il mal di schiena è un problema di salute in tutto il mondo, con costi che nei soli Stati Uniti superano i 100 miliardi di dollari l’anno, di cui due terzi dovuti alla perdita di giorni lavorativi e alla riduzione di produttività. «Lo stress ossidativo è una delle cause del dolore neuropatico, spesso alla base della lombalgia» spiega il reumatologo, sottolineando che gli antiossidanti potrebbero essere un’utile strategia di trattamento della Lbp. Ed è proprio uno studio italiano del 2009 pubblicato sull’International Journal of Immunopathology and Pharmacology, a fornire prova dei potenziali benefici di Ala, un potente antiossidante, nella lombalgia: la somministrazione del composto, combinato all’acido gamma linolenico, un omega -6, e alla riabilitazione fisica, ha alleviato in modo significativo i sintomi neuropatici, riducendo la disabilità dei soggetti trattati. Continuando su questa strada Battisti e colleghi hanno rilevato le variazioni nel dolore percepito, nell’attività funzionale e nell’assunzione di analgesici in 98 pazienti adulti affetti da Lbp e trattati con una combinazione orale di acido alfa-lipoico e superossido dismutasi, un enzima antiossidante della classe ossidoreduttasi, secondo un protocollo prospettico non randomizzato in aperto. «Ai partecipanti sono stati somministrati per 60 giorni 600 mg di Ala e 140 UI Sod/die. Il Roland Morris Disability Questionnaire e il Pain Rating Scale sono stati utilizzati per valutare disabilità e dolore, e durante il follow up è stato registrato l’uso di farmaci, con attenzione agli analgesici e ai loro eventi avversi» riprende Battisti. Alla fine dello studio solo l’8% dei partecipanti dei pazienti usava ancora gli antidolorifici rispetto al 73,5% rilevato all’inizio. Miglioramenti significativi sono stati raggiunti anche per il dolore percepito e la disabilità funzionale. «I nostri dati suggeriscono che il trattamento con antiossidanti può essere un potente coadiuvante nella terapia riabilitativa della lombalgia cronica» conclude il reumatologo.
Usati nei decotti o spremuti come olio, i semi di lino sono una miniera di proteine, minerali acidi grassi e vitamine, ma non solo. Mangiarne un po’ tutti i giorni potrebbe anche aiutare a ridurre la pressione alta, almeno secondo uno studio pubblicato su Hypertension. «Finora i semi di lino, coltivati fin dall’epoca preistorica per ricavarne tessuti e già noti anche allo stesso Ippocrate per le loro virtù curative, non erano mai stati studiati per l’effetto antipertensivo, e questa è la prima dimostrazione di un effetto cardiovascolari in una popolazione di ipertesi» dice Grant Pierce, direttore del Canadian Centre for Agri-food Research in Health and Medicine, University of Manitoba, Winnipeg, Canada, e coordinatore dello studio. Un adulto nordamericano su tre ha la pressione alta, intesa come uguale o superiore a 140 su 90 millimetri di mercurio (mm/Hg). «E l’ipertensione aumenta il rischio di malattie cardiache e ictus, con costi stimati di miliardi di dollari l’anno dollari ogni anno» aggiunge il ricercatore, ricordando che la presenza di elevati valori pressori è il primo motivo per cui oggi una persona vede il medico negli Stati Uniti. «Capire come ridurla, quindi, è una sfida cruciale». E a causa degli effetti vascolari dei semi di lino in studi animali precedenti, gli autori hanno pensato di provarli in uno studio randomizzato e controllato denominato Flaxplad (FLAX effects in Peripheral Arterial Disease). Al trial hanno preso parte 110 persone con arteriopatia periferica, assegnati in modo casuale a una dieta che conteneva o meno semi di lino dissimulati negli alimenti e seguiti per 6 mesi. Sorpresa, al termine del follow up sistolica e diastolica si erano abbassate rispettivamente di 10 e di 7 mm/Hg nei pazienti con dieta ricca di semi in confronto ai controlli. «L’effetto antipertensivo è stato raggiunto solo nei pazienti ipertesi, con un azione tra le più potenti osservate con la sola dieta,che è paragonabile a quella di molti farmaci» puntualizza Pierce. E conclude: «È presto per cambiare farmaci con semi, ma se studi futuri confermeranno i dati, il lino potrebbe diventare un modo nuovo ed economico di abbassare la pressione»
Il 70-80% dei casi di infiammazione cronica da epatite B e C va incontro all’epatocarcinoma. Per aiutare nella diagnosi dal 2005 esiste Fibroscan, capace di misurare in modo non invasivo, veloce e indolore la quantità di fibrosi. Molte regioni non lo rimborsano, ma è interessante l’esperienza di alcuni municipi, come il X di Roma.
Basterebbe la diagnosi precoce di alcune patologie epatiche per evitare molti casi di cirrosi e di neoplasie al fegato: basterebbe ad esempio riconoscere al più presto quel 70-80% dei casi di infiammazione cronica da epatite B e C che va incontro all’epatocarcinoma. Si tratta di un problema prioritario per la sanità italiana poiché, in questo ambito, l’indice di mortalità è passato da una percentuale di 4.8 decessi per 100 mila abitanti nel 1969 a 10.9 nel 1994 e a 12.5 nel 2000. A lanciare l’allarme è Fabrizio Soccorsi, primario emerito di Epatologia al San Camillo di Roma e consulente dei centri diagnostici Marilab. Ma uno strumento – che tuttavia ancora non è riconosciuto in convenzione in molte regioni – potrebbe aiutare nella diagnosi: si chiama Fibroscan e permette di comprendere la quantità di fibrosi presente in ogni paziente.
Per ridurre il numero di cirrosi e neoplasie basterebbe un sistema di diagnosi precoce delle patologie epatiche più adeguato al problema e più veloce, e così si potrebbero riconoscere anche le minime alterazioni degli enzimi epatici. E dunque fare subito la stadiazione della fibrosi epatica attraverso il test al Fibroscan, capace di svelare cirrosi silenti e misconosciute. “In questo modo aiuteremmo tante persone a scoprire una patologia sconosciuta e a tenerla sotto stretta sorveglianza clinica, evitando ulteriori complicazioni”, ha precisato l’esperto. “Oggi è fondamentale la ‘medicina preventiva’ per tutte le patologie di organo, in particolare per quella epatica”. La sfida degli epatologi, per spronare le persone a controllarsi, è stata a lungo quella di “trovare delle metodologie alternative di ricerca che potessero supportare e surrogare l’eventuale biopsia chirurgica, il ‘gold standard’ delle procedure diagnostiche anatomopatologiche”, ha raccontato il primario. La biopsia chirurgica è una diagnosi “invasiva e dolorosa, tale da poter indurre complicanze, scoraggiando molte persone a sottoporsi al controllo. Una procedura – sottolinea il consulente Marilab – che tra l’altro non è detto abbia un’affidabilità assoluta, potendo essere influenzata da un eventuale errore di campionamento e/o da una interpretazione spesso non univoca”.
Ma nel 2005 è finalmente arrivato in Italia il Fibroscan,strumento simile all’ecografo e capace di misurare in modo non invasivo, veloce e indolore la quantità di fibrosi, e che può dunque aiutare proprio nella stadiazione della malattia. Lo strumento, come spiegano anche i National Institutes of Health statunitensi, in molti casi può essere molto migliore della biopsia: è meno invasivo e può essere effettuato in laboratorio, la sua interpretazione è meno dipendente dal singolo professionista rispetto a quella di una biopsia, analizza tutto il fegato e non solo un campione, i risultati sono quasi istantanei e, ultimo ma non meno importante, è molto più economico di un intervento. Inoltre, rispetto ad altri test come quelli con biomarker o come la risonanza magnetica non ha bisogno di laboratori di analisi che abbiano particolari macchinari e funziona per ogni tipo di fibrosi. Gli unici pazienti sui quail Fibrotest non è particolarmente affidabile o non può essere applicato sono gli obesi o coloro che presentano un grande quantitativo di grasso sulla parete toracica e gli individui che presentano ascite. “Con questo strumento possiamo ripetere, in tempo reale e in maniera accurata la biopsia non invasiva e valutare, ad esempio, se c’è stata una modifica da parte del farmaco sulla malattia del fegato”, ha commentato Soccorsi. Così, oggi è possibile “limitare al 3-4% la biopsia chirurgica, affidando il resto al Fibroscan, che costituisce il ‘gold standard’ nelle malattie croniche del fegato e in particolare da virus C”. In ogni caso, per il medico, la regola generale è: “Tutti dovrebbero passare sotto le forche caudine del Fibroscan, che fa da spartiacque tra un fegato sano ed uno malato, stabilendo che tipo di fibrosi rappresenta. In base alla classificazione è poi possibile migliorare la performance del paziente e allontanarlo quanto più possibile da cirrosi e tumore al fegato”.
Tuttavia, molte regioni “a tutt’oggi non riconoscono l’elastografia epatica come convenzione, non creando i presupposti per l’accredito”. Tra queste, ad esempio, c’è ad esempio anche il Lazio. Nonostante questo a Roma, seppure solo in 3 ospedali (Policlinico Gemelli, Policlinico Umberto I e Ospedale di Marino) avendo l’attrezzatura un costo molto elevato, il Fibroscan è presente da 4 anni, quale strumento di alta specializzazione. “Nel privato – fa sapere il professore – è presente esclusivamente nei centri Marilab”. Inoltre, poiché negli ospedali “le liste di attesa sono spesso troppo lunghe, anche per effettuare un’ecografia o una Tac, e le persone con difficoltà economiche finiscono per ritardare i controlli – afferma il direttore sanitario – abbiamo iniziato a pensare ad una ‘medicina sociale’ più attenta ai cittadini meno abbienti”. Infatti, il Gruppo Marilab ha aperto a giugno una convenzione con i centri anziani del X Municipio, che contano circa 18 mila iscritti: così un anziano da Marilab paga la prestazione come un ticket in ospedale con tariffe agevolate ed evitando di rimanere appeso per mesi con conseguenze tragiche per la sua salute.
areast-��ugH���;mso-bidi-language:AR-SA’> di farsi asportare il seno per ridurre il rischio di sviluppare cancro). Allo stesso modo, il gruppo di esperti suggerisce che ad altre lesioni simili rilevate durante gli screening per il cancro al seno, alla prostata, alla tiroide o ai polmoni possa essere cambiato nome, e che si smetta di fare riferimento ai tumori nella loro diagnosi. In particolare, queste dovrebbero essere riclassificate come “lesioni indolenti di origine epiteliale” (IDLE, indolent lesions of epithelial origin). “Abbiamo bisogno di una nuova definizione, che sia più adatta al 21esimo secolo in cui viviamo, e che non alluda al cancro inteso come era inteso nel 19esimo secolo”, ha spiegato Otis W. Brawley dell’American Cancer Society, esperto che non era direttamente coinvolto nel report pubblicato su Jama.
L’arrivo di tecnologie di screening sempre più sensibili e precise negli ultimi anni ha aumentato la probabilità di trovare incidentalmente masse neoplastiche (benigne o maligne che siano). Si tratta appunto dei cosiddetti “incidentalomi”, che vengono rilevati durante analisi più o meno approfondite, e che probabilmente non causerebbero sintomi né problemi di alcun tipo. Tuttavia, una volta scoperti, inizia la procedura standard: prima biopsia, poi trattamento o rimozione. Il tutto accompagnato da dolore fisico e spesso psicologico e non privo di qualche rischio. Si tratta di quelle che gli esperti chiamano sovradiagnosi, e le terapie che ne conseguono sono chiamate sovra trattamenti, procedure farmacologiche o chirurgiche che in realtà potrebbero essere evitate. Anche perché questo tipo di trattamento aggressivo per le lesioni precancerose non ha nel tempo portato a una riduzione dei tumori invasivi. Secondo molti esperti “cambiare il linguaggio che si usa nelle diagnosi è essenziale per dare ai pazienti la fiducia che non c’è bisogno di trattare in maniera così aggressiva ogni massa che emerge dalle analisi”, come ha spiegato Laura J. Esserman, direttrice del Carol Franc Buck Breast Care Center dell’Università della California di San Francisco e prima autrice del report. “Il problema è che il paziente sente la parola “cancro” e pensa che morirà a meno che non venga trattato al più presto. Probabilmente sarebbe più intelligente riservare questo termine per le condizioni che hanno qualche probabilità in più di creare un vero problema”.
Chiaramente gli stessi esperti che hanno proposto questo cambiamento sanno che non sarà accettato universalmente. La preoccupazione di molti, infatti, è che poiché i medici non sanno ancora sempre discernere quali siano i tumori benigni o a crescita lenta dalle patologie più aggressive, trattano tutte le condizioni come se fossero gravi. Come risultato, scovano e trattano dozzine di lesioni precancerose e tumori allo stato iniziale che non per forza sarebbero da trattare. “Cambiare la terminologia non risolve questo problema”, ha commentato Larry Norton, direttore medico dell’Evelyn H. Lauder Breast Center del Memorial Sloan-Kettering Cancer Center. “Quali casi di “lesioni indolenti di origine epiteliale” porteranno a un cancro e quali no?”, ha provocato. “Mi piacerebbe saperlo. Noi non abbiamo modo di guardare al microscopio un tessuto che viene dal carcinoma duttale in situ e dire con sicurezza che al massimo porterà a un cancro a crescita lenta”. Tuttavia, la discussione che si sta aprendo nel mondo accademico e clinico a partire da questo report è comunque un passo in avanti. “I nostri scienziati non cercano solo nuovi metodi per scovare i tumori ad uno stadio iniziale, ma stanno anche cercando il modo di capire se c’è modo di dire quanto saranno aggressivi”, ha concluso il Nobel Varmus. “E questo è già un bel cambiamento nel modo di pensare rispetto a 20 anni fa. Ci sarà un giorno in cui la prima cosa che proveranno i pazienti cui verrà diagnosticato un cancro non sarà l’intensa paura per la sensazione di aver appena ricevuto una condanna a morte”.
Non provocano cancro, né malattie cardiache e non sono collegati a casi di parti prematuri. Questo quanto emerge da una review italiana degli studi pubblicati sull’argomento tra il 1990 e il 2012. A sbagliare erano gli studi tossicologici su topi e ratti che avevano rilevato effetti avversi sulla salute: “Non sono solidi su basi scientifiche”.
Da molti consumatori è considerato cancerogeno, eppure una ricerca italiana ne ha riconfermato la sicurezza: una review di studi scientifici condotta da ricercatori italiani, pubblicata su Food and Chemical Toxicology, ha dimostrato che tra questo dolcificante e numerosi tipi di cancro e altre condizioni non c’è alcun collegamento. Tra gli autori della revisione anche la tossicologaMarina Marinovich, docente all’Università di Milano e ex presidente della Società italiana di tossicologia, e l’epidemiologo Carlo La Vecchia, a capo del Dipartimento di Epidemiologia dell’Istituto di Ricerche Farmacologiche “Mario Negri”.
In particolare, non è stata osservata alcuna associazione tra aspartame e le seguenti patologie: cancro al cervello, neoplasie ematopoietiche (come il linfoma di Hodgkin), cancro al seno, cancro al pancreas, malattie cardiache. Né, secondo lo studio, c’è alcun legame con i parti prematuri. Per dirlo, gli scienziati hanno esaminato gli studi – pubblicati tra il gennaio 1990 e il novembre 2012 – che indagano sulla possibile associazione tra il consumo di aspartame e il verificarsi di condizioni di salute avverse come il cancro e le malattie vascolari. Così facendo hanno concluso che “con riferimento ai dati epidemiologici, le evidenze sui dolcificanti a basso contenuto calorico, in particolare aspartame, non supportano l’esistenza di una associazione costante con neoplasie ematopoietiche, cancro al cervello, all’apparato digerente, al seno, alla prostata e diverse altre neoplasie. Allo stesso modo, i dolcificanti a basso contenuto calorico, non sono collegati a eventi vascolari e parti prematuri”.
La review degli studi epidemiologici sulla relazione tra aspartame e cancro ha rilevato, per il tumore al cervello, che non vi è alcun aumento del rischio di sviluppare tale patologia nei bambini e negli adulti che hanno consumato cibi e bevande contenenti aspartame. Inoltre, la revisione degli studi su aspartame e tumori ematopoietici, come il linfoma di Hodgkin, non ha mostrato l’esistenza di una associazione. Gli autori hanno anche esaminato gli studi che analizzano la possibile associazione di aspartame e di altri tumori come il cancro al seno e al pancreas, e hanno evidenziato la mancanza di un’associazione tra l’aspartame e molti dei tipi di tumori più comuni. Anche in riferimento alla review degli studi su eventi vascolari avversi e parto prematuro non è stata osservata alcuna associazione con il consumo di aspartame. Oltre alla review delle evidenze epidemiologiche sull’aspartame, i ricercatori hanno esaminato gli studi relativi alla potenziale tossicità. Tuttavia, come rilevano gli stessi autori, molti altri alimenti, come succhi di frutta e latte scremato, contengono livelli più elevati dei metaboliti dell’aspartame rispetto a quelli che si trovano negli alimenti e nelle bevande contenenti aspartame. Inoltre, gli autori hanno fatto notare come gli studi tossicologici su topi e ratti che hanno rilevato effetti avversi sulla salute, come leucemie e cancro al fegato, non sono solidi su basi scientifiche, per via di limiti riguardanti la loro metodologia e replicabilità.
Riduce la mortalità del 30.5% rispetto a placebo su pazienti con carcinoma della prostata resistente alla castrazione (CRPC), con metastasi ossee sintomatiche e senza metastasi viscerali. Ecco i risultati completi dello studio registrativo di fase III ALSYMPCA che ne ha permesso l’approvazione da parte dell’Fda.
L’approvazione da parte dell’Fda del farmaco è arrivata a maggio 2013ed era basata sui risultati dello studio registrativo di fase III ALSYMPCA (ALpharadin in SYMptomatic Prostate CAncer), ma i risultati completi del trial sul prodotto radio-223 dicloruro (radio-223) per il trattamento dei pazienti con carcinoma della prostata resistente alla castrazione (CRPC), con metastasi ossee sintomatiche e senza metastasi viscerali, sono stati pubblicati solo ora suThe New England Journal of Medicine (NEJM): il farmaco riduce la mortalità del 30.5%, rispetto a placebo (HR=0,695). Questo beneficio di sopravvivenza globale (OS) è stato osservato sia nei pazienti trattati sia in quelli non trattati con il farmaco citotossico docetaxel prima del loro arruolamento nello studio. Tutti i pazienti arruolati nello studio sono stati trattati con la migliore terapia standard (BSoC) in aggiunta al radio-223 o al placebo. I ricercatori hanno condotto un‘analisi ad interim, su un totale di 809 pazienti, seguita da un’ analisi aggiornata su 921 pazienti. Il beneficio di sopravvivenza globale è risultato essere lo stesso in entrambe le analisi.
Il radio-223 dicloruro è un radiofarmaco, che emette radiazioni alfa,con attività antitumorale sulle metastasi ossee. Il principio attivo è l’isotopo alfa emittente radio-223, che mima il calcio a livello osseo e forma complessi con la componente minerale dell’osso, l’idrossiapatite, nelle aree con aumentato turnover osseo, quali le metastasi ossee: l’elevato trasferimento di energia, proprio del radio-223, può causare la rottura della doppia elica del DNA nelle cellule vicine, risultando in un effetto antitumorale sulle metastasi ossee. Il raggio d’azione della radiazione alfa emessa dal radio-223, tuttavia, è inferiore a 100 micrometri; ciò può limitare i danni al tessuto normale circostante. Lo studio ALSYMPCA è uno studio di fase III, randomizzato, in doppio cieco, controllato verso placebo, internazionale, che ha confrontato il radio-223 dicloruro vs placebo in pazienti con CRPC, metastasi ossee sintomatiche e senza metastasi viscerali. Nello studio sono stati arruolati 921 pazienti in più di 100 centri in 19 paesi. I pazienti sono stati stratificati per un precedente o nessun trattamento con docetaxel prima della partecipazione allo studio. Il trattamento in studio prevedeva fino a sei somministrazioni endovenose di radio-223 o placebo, separate da un intervallo di quattro settimane, e la migliore terapia standard.
L’endpoint primario dello studio è stato la sopravvivenza globale (OS).Uno degli endpoint secondari era il tempo alla comparsa del primo evento scheletrico sintomatico (SSE), definito come: necessità di utilizzare la radioterapia per alleviare i sintomi scheletrici, nuove fratture ossee sintomatiche, compressione della colonna vertebrale o interventi di chirurgia ortopedica imputabili al tumore. I dati di OS dello studio sono stati a favore del radio-223, sia nel caso di un precedente trattamento con docetaxel sia in assenza di esso. Nell’ analisi ad interim, il radio-223 ha ridotto il rischio di morte del 25% (HR=0.755) vs placebo, nei pazienti che avevano ricevuto docetaxel, e del 39% (HR=0.611) in coloro che non erano stati trattati con docetaxel , prima di essere arruolati nello studio. Nell’ analisi aggiornata, il radio-223 ha ridotto il rischio di morte del 29% (HR=0.710), rispetto al placebo, nei pazienti precedentemente trattati con docetaxel, e del 26% (HR=0.745) nei pazienti non trattati. Nell’analisi ad interim, il radio-223 ha aumentato significativamente la sopravvivenza globale (OS) (HR=0,695, p=0.00185) nella popolazione in studio; l’OS mediana è stata di 14 mesi nel braccio del radio-223 più la migliore terapia standard vs 11,2 mesi nel braccio del placebo più la migliore terapia standard. Questi dati sono stati confermati dall’ analisi aggiornata, nella quale il radio-223 ha dimostrato il medesimo incremento statisticamente significativo della sopravvivenza globale (OS) nei pazienti trattati con radio-223 vs placebo, con una OS mediana di 14,9 mesi vs 11,3 mesi (HR=0.695).
I principali endpoint secondari dello studio ALSYMPCA forniscono ulteriore supportoai dati di efficacia del radio-223. Nell’ analisi ad interim, il radio-223 ha prolungato significativamente il tempo alla comparsa del primo evento scheletrico sintomatico (SSE) nei pazienti trattati rispetto al placebo, con una mediana di 15.6 mesi vs. 9.8 mesi rispettivamente (HR=0.658, p<0.001). Inoltre, il radio-223 ha prolungato significativamente il tempo alla progressione della fosfatasi alcalina (ALP) (HR=0.167, p<0.00001) ed il tempo alla progressione dell’ antigene prostatico specifico (PSA) (HR=0.643, p<0.00001), che sono due importanti biomarcatori del CRPC con metastasi ossee. L’ ALP è un biomarcatore che indica la salute dell’ osso, mentre il PSA è un biomarcatore spesso impiegato per monitorare la progressione di malattia nel tumore della prostata. Il numero di pazienti che hanno riportato eventi avversi nello studio è stato più basso nel braccio del radio-223 che nel braccio del placebo (558/600 [93%] vs. 290/301 [96%]). La maggior parte degli eventi associati al radio-223 sono stati di grado compreso tra leggero e moderato. Gli effetti indesiderati più comuni (uguali o maggiori del 10%) nei pazienti trattati con radio-223 sono stati diarrea, nausea, vomito e trombocitopenia. Sono stati riportati eventi avversi di grado 3 e 4 imputabili al trattamento nel 56.5% dei pazienti trattati con il radio-223 e nel 62.5% dei pazienti trattati con il placebo. Le anomalie ematologiche di laboratorio più comuni (uguali o maggiori del 5%) sono state anemia, trombocitopenia e neutropenia.
“I benefici in termini di qualità di vita e sopravvivenza globale osservati con il radio-223 rappresentano un grande progresso per i pazienti, poiché nei pazienti affetti da CRPC le metastasi ossee possono essere dolorose e condurre alla morte”, ha dichiarato Christopher Parker, oncologo al Royal Marsden Hospital e all’Institute of Cancer Research di Londra, e coordinatore dello studio ALSYMPCA. “Questi dati, che dimostrano una sopravvivenza globale significativamente incrementata, indipendentemente dal precedente trattamento con chemioterapia, accrescono le nostre conoscenze sul potenziale utilizzo e sul beneficio del radio-223 in questi pazienti.”
A parità di altri fattori di rischio come fattori dietetici, diabete e ipertensione, le donne che hanno sviluppato calcoli al rene hanno il 30% di possibilità in più di sviluppare malattia coronarica e quindi di avere un infarto. Lidia Rota Vender, presidente di ALT Onlus, commenta i dati pubblicati su Jama.
Sempre più studi dimostrano come i calcoli renali aumentino il rischio di malattia coronarica e quindi di infarto. L’ultimo in termini di tempo uno studio che ha coinvolto più di 242 mila persone sane tra i 25 e i 75, sia uomini che donne, con un follow-up durato rispettivamente 24 e 18 anni. Secondo lo studio, pubblicato su Journal of American Medical Association (Jama) e condotto dall’Unità Operativa di Nefrologia e Dialisi dell’Università Cattolica-Complesso Integrato Columbus, sul totale di partecipanti, 19.678 hanno riferito di aver sofferto di calcoli renali nel corso della propria vita. I ricercatori hanno registrato 16.838 casi di malattia delle coronarie, dimostrando che il rischio di infarto in chi ha calcoli al rene in particolare tra le donne aumenta di più del 30%, a parità di altri fattori di rischio come fattori dietetici, diabete e ipertensione.
I responsabili di questo aumentato rischio non sono ancora chiari. Potrebbero essere i disturbi del metabolismo del calcio: un consumo troppo basso di calcio potrebbe favorirne la liberazione del calcio contenuto nelle ossa e quindi aumentarne l’eliminazione attraverso il rene, facilitando la deposizione di piccolo ammassi “calcarei”, un po’ come accade nel sistema idraulico delle case quando una acqua troppo ricca di sali favorisce la formazione del calcare sui tubi, che progressivamente li ostruisce riducendo il passaggio dell’acqua. Allo stesso tempo, poiché il calcio è lo ione che permette al sangue di coagulare, un eccesso di calcio circolante potrebbe favorire un aumento della coagulazione del sangue e quindi la formazione di trombi nelle arterie e nelle vene. Altri possibili colpevoli potrebbero essere il processo di invecchiamento, per cui i reni perdendo la propria funzionalità favoriscono il deposito di calcio nei condotti, e l’osteopontina, una proteina coinvolta nel processo di calcificazione dell’osso, che si trova in quantità elevata nelle persone che soffrono di trombosi coronarica, infarto del miocardio o aterosclerosi, che se non eliminata dai reni si accumula nel sangue.
“La calcolosi renale è un problema molto diffuso che interessa 10 uomini su 100 e 7 donne su 100”, ha spiegato Lidia Rota Vender, presidente di ALT – Associazione per la Lotta alla Trombosi e alle malattie cardiovascolari – Onlus. “Sapevamo già che aterosclerosi, ipertensione, diabete e sindrome metabolica sono più frequenti in chi soffre di calcolosi renale. Oggi con questo studio sappiamo anche che i calcoli renali vanno inclusi tra i fattori di rischio dell’infarto”. Aggiungendo poi: “Il legame tra calcoli renali e trombosi va indagato più in profondità, perché i meccanismi che lo regolano non sono chiari, così come non è chiaro perché i calcoli siano più diffusi tra i bianchi, le donne e i diabetici – ha concluso Lidia Rota Vender -. Quel che è certo è che una patologia piuttosto comune come i calcoli va considerata un fattore che aumenta il rischio di trombosi, dato che aiuterà la pratica clinica quotidiana, soprattutto in un’ottica di prevenzione. I prossimi anni saranno decisivi per capirne qualcosa di più e trovare strategie più raffinate di prevenzione e approcci terapeutici sempre più precoci ed efficaci”.
Ma c’è di più. Con il caldo il rischio di colica renale aumenta: responsabile numero uno è la disidratazione. Il grande caldo fa aumentare la sudorazione e, se non ci si idrata bene, le urine diventano più concentrate e aumenta il rischio che si formino calcoli di ossalato di calcio. Chi rischia di più? I giovani adulti, tra i 25 e i 40 anni, soprattutto maschi, che hanno una familiarità per questo problema, o che hanno già avuto episodi in passato. Per evitare sorprese è fondamentale bere molto, soprattutto se si fa molta attività sportiva. L’acqua è l’ideale; cautela con tè e bevande arricchite di sali minerali: possono favorire la precipitazione di calcoli di ossalato di calcio.
diagno�Ui�H���resupposto razionale: vi era un “microcosmo”, l’organo, che corrispondeva ad un “macrocosmo” l’universo. Leggere o parlare con l’organo significava leggere o parlare con l’universo. Mutatis mutandis tutti avevano lo stesso problema. C’è un microcosmo che si chiama mammella da interconnettere con un macrocosmo che si chiama donna, vita, società, sanità, economia, azienda. Tutti quegli operatori si ponevano il problema di come organizzare tali interconnessioni per essere semplicemente migliori.
Me ne tornai a casa rimuginando tra me e me. Pensavo alle due Commissioni di indagine sulla sanità decise dal Parlamento e all’intero apparato istituzionale che governa la sanità. Mi sembrava di avere a che fare con una gigantesca arretratezza culturale . La sanità si potrebbe rivoltare come un calzino. Ma come diavolo faccio a spiegare a gente che in testa ha solo i costi standard, i fondi integrativi, la sostenibilità, che per cambiare la sanità prima di ogni cosa si tratta di decidere i sostantivi che comandano i predicati della cura?
Nella nostra dieta quotidiana, volenti o nolenti, abbondano i cibi industrializzati ricchi di grassi saturi. Uno studio pubblicato suNature e condotto dai ricercatori dell’Università di Chicago, ha scoperto che molti di questi alimenti possono provocare la malattia infiammatoria intestinale (o IBD) nelle persone predisposte che, oltre a essere più di quante si possa pensare, sono in costante aumento. Sotto accusa, principalmente, i grassi contenuti nel latte, presenti in abbondanza in tutti quegli alimenti trattati industrialmente – in genere prodotti dolciari – che troviamo comunemente in commercio. Questi grassi, secondo lo studio, andrebbero ad alterare la composizione batterica dell’intestino. Questa scoperta potrebbe spiegare la sempre più diffusa manifestazione delle cosiddette malattie immuno-mediate come l’IBD, conosciuta volgarmente come colite. Il professor Eugene B. Chang, coordinatore dello studio, ritiene che questa modificazione della flora intestinale può far emergere pericolosi ceppi batterici con conseguente risposta immunitaria non regolata, dannosa per i tessuti, e che può essere poi difficile da debellare. Lo studio dimostra in definitiva come le diete occidentali più comunemente diffuse contribuiscano in maniera decisiva allo svilupparsi della malattia; il primo passo per i sofferenti di questa malattia, dunque, è controllare la propria dieta e fuggire da quegli alimenti ricchi di grassi saturi.
Nei prediabetici peso e glucosio predicono il rischio di diabete dopo sei mesi di prevenzione, almeno secondo uno studio della Johns Hopkins University di Baltimora pubblicato sul JOURNAL OF GENERAL INTERNAL MEDICINE. IL DIABETES PREVENTION PROGRAM (DPP) DIMOSTRA CHE NEI PREDIABETICI L’INTERVENTO SULLO STILE DI VITA E LA SOMMINISTRAZIONE DI METFORMINA RIDUCONO IL RISCHIO DI DIABETE DEL 58% E DEL 31% RISPETTIVAMENTE DOPO TRE ANNI DI FOLLOW-UP. «MA I DATI SONO TRIENNALI, MENTRE I MEDICI VEDONO I PREDIABETICI ALMENO UNA VOLTA L’ANNO, SE NON PIÙ DI FREQUENTE» DICENisa Maruthur, professore associato della Divisione di Medicina Interna alla Hopkins e prima autrice dello studio. L’AMERICAN DIABETES ASSOCIATION SUGGERISCE AI SOGGETTI PREDIABETICI IL 7% DI PERDITA DI PESO E 150 MINUTI A SETTIMANA DI ATTIVITÀ FISICA MODERATA, RISERVANDO LA METFORMINA AI PAZIENTI AD ALTISSIMO RISCHIO. MA LA DOMANDA È: COME VALUTARE TEMPESTIVAMENTE LA RISPOSTA ALLA STRATEGIA PREVENTIVA DEL DIABETE INDIVIDUANDO PER TEMPO I CANDIDATI ALLA METFORMINA? PER RISPONDERE I RICERCATORI HANNO ANALIZZATO I DATI DEL DPP, UNO STUDIO RANDOMIZZATO CONTROLLATO SVOLTO IN 27 CENTRI STATUNITENSI SU OLTRE3000 prediabetici assegnati in modo casuale a ricevere un intervento intenso sullo stile di vita, metformina per ridurre i livelli ematici di glucosio, oppure placebo. L’IPOTESI DI MARUTHUR E COLLEGHI ERA CHE PESO E GLICEMIA A 6 E 12 MESI DALLA MODIFICA DELLO STILE DI VITA NEI PREDIABETICI POTESSERO PREDIRE IL RISCHIO DI DIABETE PRIMA DEI CANONICI 3 ANNI. DAI DATI RACCOLTI EMERGE CHE DOPO 6 MESI DI FOLLOW UP 604 PARTECIPANTI AVEVANO SVILUPPATO DIABETE: 140 NEL BRACCIO STILE DI VITA, 206 NEL GRUPPO METFORMINA E 258 IN QUELLO PLACEBO. NEL BRACCIO DI STILE DI VITA, LA PERDITA DI PESO A 6 MESI PREDICEVA IN MODO SIGNIFICATIVO IL RISCHIO DI DIABETE. MA LE PROBABILITÀ PIÙ BASSE DI AMMALARSI LE AVEVANO I PAZIENTI CHE AL CALO PONDERALE ABBINAVANO LA RIDOTTA GLICEMIA. «IN PRATICA, SE DOPO SEI MESI DAL CAMBIO DI STILE DI VITA IL PAZIENTE perde poco peso e il glucosio resta alto, è il momento di usare la metformina» conclude Maruthur.
La prima colazione è il pasto più importante della giornata? Sembra proprio di sì, visto che, a giudicare da uno studio appena pubblicato su Circulation, gli uomini che la saltano rischiano di più una cardiopatia o addirittura una malattia coronarica fatale. «I risultati del National Health and Nutrition Examination Survey (Nhanes) del 2002 indicano che il 18% degli americani adulti salta la prima colazione. Questa tendenza, tuttavia, può avere conseguenze negative a livello di popolazione, perché i risultati di studi clinici di breve durata, studi trasversali preliminari, e piccoli studi prospettici dimostrano che saltare i pasti si associa a fattori di rischio cardiometabolici come ipercolesterolemia, obesità, ipertensione o diabete, che a loro volta possono condurre a un attacco di cuore nel corso del tempo» premette Leah Cahill, ricercatrice presso il Dipartimento di Nutrizione della Harvard School of Public Health di Boston, sottolineando tuttavia che non esistevano in letteratura studi sulle possibili relazioni tra abitudini alimentari degli adulti, intese come frequenza e tempistica di pasti e spuntini, e frequenza di malattia coronarica (Chd). Da qui l’obiettivo dello studio: stabilire in modo prospettico se le abitudini alimentari, tra cui saltare la prima colazione, aumentano il rischio di Chd. Per chiarire l’argomento Cahill e colleghi hanno analizzato l’alimentazione, prima colazione compresa, di 26.902 uomini americani tra 45 e 82 anni liberi da malattie cardiovascolari e cancro. Al termine di 16 anni di follow-up hanno rivelato come gli uomini che saltano la prima colazione hanno un rischio di Chd del 27% più alto rispetto a chi invece il breakfast se lo gusta tutti i giorni. «Fare una prima colazione con cibi sani non solo riduce il rischio di attacchi di cuore, ma è anche un modo semplice e salutare per garantire all’organismo energia sufficiente con un sano equilibrio di nutrienti, quali proteine, carboidrati, vitamine e minerali. Per esempio, l’aggiunta di noci e frutta a pezzi in una ciotola di cereali integrali al mattino è un ottimo modo di iniziare la giornata» conclude Cahill.