OSAS nelle donne: pericolosa come negli uomini

La sindrome da apnee notturne (OSA) è ormai conosciuta come un importante fattore di rischio cardiovascolare (cv), ma gli studi riguardano prevalentemente gli uomini. Se sia un fattore di rischio cv anche per lo donne non era ancora ben sicuro e ciò ha importanza rilevante sia perché le donne russatrici sono più numerose di quanto si pensi, sia perché bisogna valutare se la CPAP (continuous positive airway pressure) è associata anche per loro ad un miglioramento del rischio. A tale riguardo un gruppo spagnolo ha raccolto i dati, in uno studio prospettico osservazionale, di due cliniche del sonno che hanno esaminato tutte le donne presentatesi per sospetta OSA (1.116) nel periodo dal 1998 al 2007, per un follow-up mediano di 72 mesi. Il gruppo di controllo era costituito da donne con un indice apnea-ipopnea inferiore a 10 e l’OSA veniva diagnosticata quando l’indice era superiore a 10. Se la CPAP veniva utilizzata per più di 4 ore le pazienti venivano classificate come CPAP-treated, se meno di 4 h CPAP untreated. L’end point era molto forte: la morte cardiovascolare. I risultati sono stati nettamente a favore delle donne con un basso indice apnea/ipopnea, a dimostrazione che l’OSA è un fattore di rischio anche per le donne, e stesso discorso vale per il trattamento: le donne con OSA severa non trattata avevano un HR di 3.50 contro 0.55 delle donne trattate con CPAP. Ma anche per le pazienti con OSA lieve moderata, se non trattate, la prognosi era peggiore di quelle trattate (HR1.60 vs 0.19). Non sembrano quindi esserci dubbi: nonostante lo studio non sia randomizzato e sia solo osservazionale, l’OSA è associata con un maggiore rischio di morte cardiovascolare anche nelle donne ed un’adeguata terapia con CPAP può ridurre questo rischio. 

Campos-Rodriguez F et al. Cardiovascular mortality in women with obstructive sleep apnea with or without continuous positive airway pressure treatment: a cohort study. Ann Intern Med. 2012; 156(2):115-122

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Mortalità ed ipoglicemizzanti orali: la saga delle sulfoniluree

Lo studio prospettico UKPDS ha riportato un aumentato (96%) rischio di morte diabete-correlata in pazienti trattati con l’associazione sulfonilurea e metformina, rispetto alla terapia con sulfonilurea da sola, risultato questo peraltro mai completamente spiegato. Successivi studi osservazionali hanno prodotto risultati contrastanti, suggerendo alcuni un aumentato rischio di mortalità, altri indicando un rischio ridotto ed altri ancora nessuna differenza di rischio. A motivare queste discrepanti segnalazioni viene riportata la differenza nella scelta del gruppo di confronto, che varia tra questi studi (sulfonilurea, metformina o dieta). Peraltro, una recente meta-analisi che includeva tutti questi studi non ha segnalato alcun effetto significativo sulla mortalità cardiovascolare o generale della combinazione sulfoniluree -metformina (Rao AD et al. Is the combination of sulfonylureas and metformin associated with an increased risk of cardiovascular disease or all-cause mortality? a meta-analysis of observational studies. Diabetes Care 2008; 31: 1672- 1678). Un recente studio di coorte retrospettivo ha voluto verificare se un eventuale aumentato rischio di mortalità fra i consumatori dell’associazione SU/M fosse da correlare non tanto alla “classe” SU, quanto alla differenza fra le varie SU che potevano incidere sull’incidenza degli episodi ipoglicemici e/o sul pre-condizionamento ischemico del miocardio, condizioni entrambe potenzialmente negative sulla mortalità. Allo scopo sono stati selezionati più di 7.300 pazienti diabetici in trattamento con le diverse combinazioni di SU/M e fra di loro confrontati. Come emerge dalla Tabellaacclusa, nessuna differenza statisticamente significativa del rischio di mortalità generale è stato osservata tra le diverse combinazioni di sulfoniluree e metformina, ed in particolare

  • glimepiride e metformina vs glipizide e metformina (HR 1.03; IC 95% 0.89-1.20)
  • glimepiride e metformina vs gliburide (glibenclamide) e metformina (HR 1.08; IC 95% 0,90-1,30)
  • glipizide e metformina vs gliburide (glibenclamide) e metformina (HR 1,05, IC 95% 0.95-1.15).

In sintesi, nelle loro conclusioni gli AA (che pure riconoscono alcuni limiti metodologici del loro lavoro) sostengono la validità dei dati raccolti in quanto fotografano il mondo reale: ‘i nostri risultati non hanno evidenziato un aumentato rischio di mortalità tra le diverse combinazioni di sulfoniluree e metformina, suggerendo che la mortalità totale non è sostanzialmente influenzata dalla scelta della sulfonilurea’. 

Pantalone KM et al. The risk of overall mortality in patients with Type 2 diabetes receiving different combinations of sulfonylureas and metformin: a retrospective analysis.Diabet Med. 2012 Jan 16. doi: 10.1111/j.1464-5491.2012.03577

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La stimolazione cerebrale profonda nel morbo di Parkinson resistente

Da qualche anno viene utilizzata la stimolazione cerebrale profonda (deep brain stimulation:DBS), in particolare del nucleo subtalamico, nel trattamento dei pazienti con m. di Parkinson resistenti alla terapia medica. Si tratta dell’impianto di elettrodi a livello subtalamico collegati ad una batteria posta all’altezza del cuore, come una sorta di pace-maker. Gli impianti possono essere monolaterali o bilaterali e  le stimolazioni vengono effettuate generalmente con corrente variabile. Sono stati utilizzati anche dei devices a corrente costante, che pare abbia dei vantaggi, ma gli effetti della stimolazione costante non erano ancora stati studiati in trials controllati. Okun e coll. hanno pubblicato uno studio randomizzato sulla  neurostimolazione subtalamica con corrente costante e i risultati confermano il marcato beneficio che questa metodica esercita sui sintomi motori del Parkinson. Lo studio di Okun ha anche un’altra novità: siccome era sorto il dubbio che il beneficio fosse dovuto al solo intervento chirurgico di impianto, gli AA hanno utilizzato uno studio di controllo con stimolazione ritardata: tutti i pazienti avevano gli elettrodi impiantati, ma nel gruppo di controllo la stimolazione veniva iniziata solo dopo 3 mesi. Entrambi i gruppi hanno ottenuto un miglioramento, più marcato però nel gruppo sottoposto a stimolazione immediata (P=0.003). Nel complesso, la Unified Parkinson’s Disease Rating Scale motor scores (UPDRS) è migliorata del 39%, anche se si sono avute delle importanti complicazioni dopo l’impianto del DBS, quali infezioni (4%) ed  emorragie intracraniche (3%). Spesso la stimolazione era  accompagnata da disartria, parestesie ed edema, ma i risultati sulla motilità sono stati positivi e duraturi. Questi dati sono molto promettenti ma certamente la metodica va ancora affinata: sono necessarie innovazioni tecnologiche quali patterns più intelligenti della stimolazione continua ad alta frequenza, vie migliori di controllo e stimolazioni selettive di particolari elementi neurali, e niente di tutto questo è stato affrontato dallo studio.

Okun MS et al. The Lancet Neurology 2012; 11: 140-149

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Test fertilità maschile, troppi errori in laboratori privati

I laboratori presso cui ci si rivolge per eseguire lo spermiogramma, effettuano male la conta degli spermatozoi vivi, valutano non correttamente la loro vitalità e qualità e le indagini morfologiche risultano spesso sbagliate, con il risultato che la valutazione della fertilità maschile risulta errata nell’80% dei casi. La denuncia è stata sollevata da Andrea Lenzi, ordinario di endocrinologia e direttore della sezione di fisiopatologia medica all’università’ Sapienza di Roma nel corso di un congresso dedicato alle patologie andrologiche al Ministero della Salute. «Gli operatori dei laboratori fanno molti errori e arrivano perfino a certificare un numero così elevato di atipie o difetti totali nell’analisi del liquido seminale in realtà impossibili da trovare. E questo avviene perfino in giovani sani di 18 anni di età» ha affermato Lenzi «e se non ci si rende conto degli errori si rischia di fare accedere alle tecniche di procreazione assistita chi è sano e invece di trascurare chi invece dovrebbe ricorrervi o sottoporsi a terapie specifiche perché affetto da infezioni o patologie che incidono sulla fertilità ma che non vengono individuate correttamente». Secondo l’esperto la maggior parte degli errori si fanno  nei laboratori privati dove ci sono picchi di errori fino al 90% dei casi. «I pochi laboratori istituiti presso i centri di andrologia delle università italiane sono gli unici di cui fidarsi perché i biologi e i medici sono formati per svolgere questo tipo di indagini così complesse e sensibili e i centri dotati di apparecchiature all’avanguardia». I possibili errori si fanno nella valutazione del pH, del volume del liquido, della motilità, dei difetti e della quantità di spermatozoi sani, insieme ad altri importanti e complessi parametri.

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La “IgG4-Related Disease”: una nuova realtà patologica

Nella sezione Mechanism of Disease del primo numero di Febbraio del NEJM di questo anno compare una interessante messa a punto su una patologia relativamente nuova che merita l’attenzione dei clinici perché implicata in una serie notevole di situazioni patologiche che fino a poco tempo orsono passavano come “non definibili” o idiopatiche (vedi Tabella acclusa): si tratta della “IgG4-Related Disease”. La patologia è correlata ad una condizione fibro-infiammatoria caratterizzata da lesioni espansive che si caratterizzano per un denso infiltrato di linfo-plasmacellule con presenza di cellule ricche di IgG4 le cui concentrazioni plasmatiche risultano particolarmente elevate. Tale patologia dal 2003 viene riconosciuta come malattia sistemica, potendo colpire quasi tutti gli organi: l’albero biliare, le ghiandole salivari, i tessuti periorbitali, i reni, i polmoni, i linfonodi, le meningi, l’ aorta, il seno, la prostata, la tiroide, il pericardio e la pelle. Indipendentemente dal sito della malattia le caratteristiche istopatologiche sono del tutto simili e per tale motivo la “IgG4-Related Disease” viene accostata alla sarcoidosi, un’altra malattia sistemica in cui le manifestazioni d’organo sono legate dalle stesse caratteristiche istopatologiche. L’articolo si sofferma non solo sugli aspetti clinico-istopatologici ma offre gli spunti per l’impostazione terapeutica che vede il cortisone come agente di prima linea eventualmente affiancato dagli immunosoppressori.

Stone JH et al. IgG4-Related Disease. N Engl J Med 2012; 366: 539-551

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Duplice terapia antiaggregante dopo stent medicato: 6 o 12 mesi?

Alcuni colleghi cardiologi coreani hanno voluto verificare quale fosse il periodo di durata “ideale” della duplice terapia antiaggregante (DAPT) dopo il posizionamento di uno stent medicato: 6 o 12 mesi? Per farlo hanno valutato come endpoint primario il Target Vessel Failure (TVF), definito come endpoint composito di morte cardiaca, infarto miocardico o rivascolarizzazione del vaso ischemia-guidata a 12 mesi, in due gruppi di pazienti che avevano rispettivamente effettuato la duplice antiaggregazione per 6 o 12 mesi dopo l’impianto dello stent. La percentuale di TVF a 12 mesi  è stata pari al

  • 4,8% nel gruppo in cui la DAPT è durata per 6 mesi 
  • 4,3% nel gruppo in cui la DAPT è stata prolungata per 12 mesi (dato indicativo di non inferiorità, visto che il limite superiore di 1 intervallo di confidenza bilaterale al 95% è risultato del 2.4%, p = 0.001 per la non-inferiorità, essendo il margine di non inferiorità predefinito del 4.0%).

Da segnalare però che le trombosi dello stent tendevano a verificarsi con maggiore frequenza nel gruppo nel quale la  DAPT era stata di 6 mesi  rispetto a quello di 12 mesi (0.9% versus 0.1%, hazard ratio 6.02; IC 95% 0.72-49.96, p=0.10). Nonostante ciò il rischio di morte o infarto miocardico non differiva nei due gruppi (2.4% vs 1.9%, hazard ratio 1.21; IC 95% 0.60-2.47, p=0.58). Nell’analisi dei sottogruppi, quando si estrapolavano i pazienti diabetici, il TVF si è verificato più frequentemente nel gruppo con 6 mesi di DAPT rispetto al gruppo di 12 mesi (hazard ratio 3.16; IC 95% 1.42-7.03, p=0.005). In conclusione, i dati di questo studio che ha interessato una popolazione di oltre 1.400 pazienti porterebbero a concludere che 6 mesi di DAPT non ha aumentato il rischio di TVF a 12 mesi dopo l’ impianto di stent medicati, rispetto ai 12 mesi di DAPT. Tuttavia, il margine di non inferiorità era stato predefinito come molto “largo” e lo studio non aveva una potenza sufficiente per valutare l’endpoint morte o infarto miocardico. Purtroppo quindi questi risultati dovranno essere confermati in studi di più ampia dimensione. 

Hyeon-Cheol  G et al. Six-Month Versus 12-Month Dual Antiplatelet Therapy After Implantation of Drug-Eluting Stents: The Efficacy of Xience/Promus Versus Cypher to Reduce Late Loss After Stenting (EXCELLENT) Randomized, Multicenter Study. Circulation 2012; 125: 505-513

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L’auto-monitorizzazione della TAO

Gli antagonisti della vitamina K sono stati usati con successo per più di 50 anni nella terapia anticoagulante orale (TAO) dei pazienti a rischio di tromboembolismo venoso o arterioso, però la loro gestione non è semplice. Esistono  a tale proposito gli ambulatori dedicati ma un notevole interesse ha destato l’introduzione di sistemi computerizzati che, previo addestramento, permettono al paziente stesso di gestire la sua coagulazione. Heneghan e collaboratori hanno fanno il punto su queste nuove metodiche con una metanalisi di 11 studi che avevano confrontato la TAO auto-monitorizzata con la TAO controllata in modo convenzionale. Ebbene, l’auto-monitorizzazione è risultata superiore alla “usual care”, con una riduzione del rischio del 49% di eventi tromboembolici. I sanguinamenti sono stati simili in entrambi i gruppi e l’auto-monitorizzazione non ha avuto maggiori effetti sulla mortalità (ma neanche minori, in contrasto con altri report). Questi risultati sono migliori dell’auto-testing, in cui il test viene eseguito dal paziente ma la terapia viene regolata dal medico, però non si sono dimostrati uguali per tutti: infatti sono stati più evidenti nei soggetti di età inferiore a 55 anni e con protesi valvolari meccaniche, rispetto a quelli con fibrillazione  atriale (FA) e più anziani, forse per la maggiore coscienza che questi pazienti hanno della loro malattia. Certamente bisogna considerare l’alternativa dei nuovi anticoagulanti (dabigratan,  rivaroxiban, apixaban) che non necessitano di monitoraggio ed hanno risultati pari o superiori ai dicumarolici, ma ancora ci sono delle incertezze: per esempio vengono filtrati dal rene e quindi non vanno bene nell’insufficienza renale, non hanno antidoti e sono costosi.  Inoltre non sono ancora chiari i loro outcomes nei pazienti con protesi meccaniche e FA. Come si vede non c’è, per ora, una soluzione unica: vanno valutati i singoli casi (accessibilità ai controlli, protesi meccaniche, età e affidabilità del paziente) e sarà il medico a decidere quale sarà la soluzione più razionale per il suo paziente.

Heneghan C et al. The Lancet 2012; 379: 322-334

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Attenzione all’uso del dabigatran nei pazienti con fibrillazione atriale candidati all’ablazione

Dopo l’alert degli inizi di gennaio (Dabigatran Association With Higher Disk of Acute Coronary Events. Meta-analysis of Noninferiority Randomized Controlled Trials. Ken Uchino et al. Arch Intern Med. Published online January 9, 2012. doi:10.1001/archinternmed.2011.1666), ecco un’altra segnalazione riguardante un potenziale svantaggio nell’utilizzo del dabigatran. Un gruppo di cardiologi americani ha segnalato sul numero di JACC del 24 gennaio che, in pazienti sottoposti ad ablazione di fibrillazione atriale (FA), l’uso periprocedurale di dabigatran aumenta significativamente il rischio di sanguinamento e/o di complicanze tromboemboliche rispetto all’utilizzo di warfarin. In questo studio prospettico multicentrico sono stati inclusi 290 pazienti con FA parossistica (età media 60 anni, 79% maschi), provenienti da 8 diversi centri degli USA, di cui 145 randomizzati ad assumere dabigatran ed altri 145 ad assumere warfarin nel periodo peri-procedurale. Come è possibile evincere dalle due Tabelleaccluse

  • 3 complicanze tromboemboliche (2,1%) si sono verificate nel gruppo dabigatran e nessuna nel gruppo warfarin (p=0.25),
  • il gruppo dabigatran ha presentato inoltre una incidenza significativamente più alta di sanguinamenti maggiori (6% vs 1%; p=0.019) e di sanguinamenti totali (14% vs 6%; p=0.009) rispetto al gruppo warfarin,
  • inoltre, ad un’analisi di regressione multivariata, il dabigatran si è confermato un predittore indipendente di sanguinamento o complicanze tromboemboliche (odds ratio 2.76; 95% IC 1.22 a 6.25; p=0,01).

Tanto che gli AA hanno così concluso l’articolo: “In patients undergoing AF ablation, continuation of dabigatran during the periprocedural period is associated with an increased risk of bleeding and composite of bleeding or embolic complications compared with uninterrupted warfarin therapy. Further studies are needed to identify the optimal periprocedural anticoagulation strategies in patients on dabigatran undergoing AF ablation”. 

Lakkireddy D et al. Feasibility and Safety of Dabigatran Versus Warfarin for Periprocedural Anticoagulation in Patients Undergoing Radiofrequency Ablation for Atrial Fibrillation Results From a Multicenter Prospective Registry. 
J Am Coll Cardiol 2012; doi:10.1016/j.jacc.2011.12.014 (Published online 1 February 2012)

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Alte dosi di vitamina D per ridurre le esacerbazioni nel paziente con BPCO?

Bassi livelli sierici di 25-idrossivitamina D sono stati associati a più bassi livelli di FEV1, ad un alterato controllo immunologico ed a aumentato rischio di infiammazione delle vie aeree. Poiché molti pazienti con broncopneumopatia cronica ostruttiva (BPCO) presentano carenza di vitamina D, gli effetti della supplementazione di vitamina D potrebbe andare ben oltre la prevenzione dell’osteoporosi. L’obiettivo di un recente studio belga (randomizzato, monocentrico, in doppio cieco, controllato con placebo), è stato quello di valutare se la supplementazione con alte dosi di vitamina D potesse ridurre l’incidenza delle riacutizzazioni della BPCO. Sono stati arruolati nell’ospedale universitario di Leuven 182 pazienti con BPCO (da moderata a molto grave) e con una storia di recente esacerbazione, a cui sono stati somministrati 100.000 UI di vitamina D o di placebo ogni 4 settimane per 1 anno. L’esito primario era il tempo alla prima esacerbazione. Gli outcome secondari erano: tempo alla prima esacerbazione, tempo alla prima ospedalizzazione, tempo alla seconda esacerbazione, FEV1, qualità della vita e mortalità. Si è osservato un significativo aumento medio dei livelli di vitamina D nel gruppo trattati rispetto al gruppo placebo (media differenza tra i gruppi 30 ng/mL [95% CI, 27-33 ng/ml], p <0.001 ). Non vi è stata differenza significativa tra i due gruppi (hazard ratio 1.1 [CI 0.82-1.56], p = 0.41) nel tempo medio alla prima esacerbazione, tassi di riacutizzazione, FEV1, ospedalizzazione, qualità della vita e mortalità. Tuttavia un’analisi post hoc, effettuata in 30 partecipanti con grave deficit di vitamina D (livelli sierici di 25-[OH] D livelli inferiori a 10 ng/ml) al basale, ha mostrato una significativa riduzione delle esacerbazioni nel gruppo trattato con vitamina D (rate ratio 0.57 [CI 0.33-0.98], p = 0.042). La principale limitazione dello studio è costituita dall’essere stato condotto in un singolo centro con un piccolo campione di pazienti. Questo studio in cui il deficit severo di vitamina D è risultato essere un prerequisito per la risposta alla supplementazione nei pazienti BPCO ha sollecitato una discussione interessante tra gli editorialisti, in particolare sulla necessità di chiarire – anche con studi successivi – il rapporto tra rischi e benefici nella supplementazione con vit. D nei pazienti con disfunzione respiratoria.

Leohuck A et al. Ann Intern Med 2012; 156: 105-114
Gold DR and Manson JE. Ann Intern Med 2012; 156: 156-157

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Menopausa: cambia il metabolismo ma non quello cardiaco

Le donne in transizione menopausale, anche se non obese, possono andare incontro a modificazioni rilevanti della composizione corporea e della distribuzione del grasso. In ogni caso, tali cambiamenti non sono accompagnati da deterioramento cardiometabolico. Sono le conclusioni di uno studio osservazionale di 5 anni su 102 donne in transizione menopausale effettuato da gruppo di ricercatori canadesi coordinati da Joseph Abdulnour dell’università di Ottawa. Le donne coinvolte nel trial (in premenopausa al basale; età media: 49,9 anni; Bmi: 23,3 kg/m2) sono state sottoposte a ripetute misurazioni di vari parametri: studio della composizione corporea mediante assorbimetria a raggi X a doppia energia (massa grassa totale, massa grassa del tronco, massa magra totale), rilievo della circonferenza vita, del grasso sottocutaneo viscerale e addominale, della glicemia a digiuno e dei livelli di insulina, valutazione del modello omeostatico di insulinoresistenza (Homa-Ir), dosaggio dei livelli lipidici plasmatici (trigliceridi, colesterolo totale, colesterolo Hdl e Ldl) e rilevazione della pressione arteriosa a riposo. Le analisi di queste misure hanno rivelato al follow-up significativi incrementi della massa grassa totale, del suo valore percentuale, della massa grassa del tronco, della glicemia a digiuno e del colesterolo Hdl, e una significativa riduzione dei livelli plasmatici di glucosio. Le donne che si trovavano in perimenopausa o in postmenopausa entro 3 anni dallo studio hanno mostrato un significativo aumento di grasso viscerale rispetto alla baseline. Nonostante alcuni cambiamenti significativi nel profilo metabolico lungo i vari stati menopausali, le partecipanti non hanno comunque evidenziato alcuna forma di deterioramento cardiometabolico entro la fine dello studio.

Menopause, 2012 Mar 5. [Epub ahead of print]

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