L’endocardite batterica (EB) rappresenta un evento raro, ma pericoloso per la vita nonostante i progressi della terapia antibiotica, chirurgica e delle sue complicanze. Le cure dentistiche sono tra le procedure più comuni in grado di esporre i pazienti al rischio di ED e nell’ambito delle linee guida per la sua prevenzione si è assistito ad un’evoluzione iniziata dal 1955, anno della prima pubblicazione su Circulation della raccomandazione sulla somministrazione di 600000 U di penicillina 30 minuti prima delle cure dentali, per arrivare alla revisione del 1997 in cui si consigliavano 2 g di amoxicillina due ore prima delle cure.
In questi ultimi 10 anni la profilassi antibiotica dell’EB si è diffusa nella pratica clinica a tutti i pazienti che affrontano procedure odontoiatriche minimamente invasive, in accordo con i principi guida originari, rimasti pressochè invariati per circa 30 anni, nonostante le scarse prove a supporto. Le evidenze scientifiche attuali suggeriscono che nei casi di EB riscontrati annualmente solo un piccolo numero è attribuibile a procedure dentistiche. La maggior parte dei casi di EB da microflora batterica orale è dovuta a batteriemie casualmente e banalmente determinate da attività quotidiane di routine come la masticazione di cibo, il lavaggio dei denti, l’uso di idropulsore o l’uso delle stuzzicadenti, che possono condizionare un alto rischio di batteriemia soprattutto in presenza di patologie dentali. Questo ha determinato un dibattito scientifico molto critico rispetto ai vecchi criteri per cui l’American Heart Association in collaborazione con l’American Dental Association ha definito le motivazioni per la nuova revisione e prodotto un documento che è stato recentemente pubblicato su Circulation1.
La caratteristica principale delle nuove raccomandazioni consiste in una riduzione significativa dello spettro di pazienti eleggibili per la profilassi antibiotica secondo criteri che fanno riferimento a comprovati standard di cura.
può prevenire solo un piccolissimo numero di casi di EB da procedure dentistiche.
è raccomandata in pazienti con protesi valvolari, trapianto cardiaco con valvulopatia associata, soggetti con pregressa endocardite batterica, alcuni pazienti con cardiopatie congenite (CHD) in particolare le CHD con cianosi non sottoposte a riparazione chirugica, le CHD nei 6 mesi successivi al trattamento cardiochirurgico, le CHD con difetto residuo dopo cardiochirurgia.
è indicata se le procedure odontoiatriche coinvolgono i tessuti gengivali o la regione periapicale del dente o la manipolazione traumatica della mucosa orale.
nel set di pazienti identificati sarebbe opportuno estenderla anche per procedure alle vie respiratorie, alla cute e ai tessuti muscolo-scheletrici.
non è indicata basandosi solamente sulla valutazione dell’aumentato rischio nella vita di contrarre l’EB.
non è raccomandata con il solo scopo di prevenire l’EB in pazienti che devono essere sottoposti a procedure del tratto genito-urinario o gastro-enterico.
non è raccomandata per procedure di piercing, tatuaggi, parto vaginale e isterectomia
In conclusione, per un’efficace profilassi dell’EB è necessario spostare l’enfasi finora centrata sulle problema delle procedure odontoiatriche e della terapia antibiotica al contesto della prevenzione migliorando l’accesso alle cure di prevenzione dentale e all’igiene orale in particolare dei pazienti con patologie cardiache associate ad alto rischio di EB. Questo cambiamento è attuabile nella pratica clinica considerando che le categorie di pazienti ad alto rischio di EB hanno un accesso alle cure odontoiatriche non limitato e compreso nei LEA (Livelli Essenziali di Assistenza).
Bibliografia
Wilson W et al Prevention of Infective Endocarditis Guidelines From the Amirican Heart Association Circulation 2007;115:%NA
Il dibattito. La pubblicazione delle linee-guida del National Institute for Health and Clinical Excellence (NICE) sulla tromboprofilassi, che prevedono la somministrazione di eparina per i pazienti con scompenso cardiaco, insufficienza respiratoria, patologie infiammatorie, tumori (soprattutto quelli con mobilità ridotta) con tempi di ricovero superiori ai 4 giorni e l’aggiunta di tromboprofilassi meccanica mediante calze elastiche e cuscini posti sotto alle gambe nel trattamento dei pazienti chirurgici, tranne quelli a bassissimo rischio, sta suscitando un vivo dibattito nell’ambiente medico-scientifico. La rubrica delle lettere del British Medical Journal è specchio fedele di questo dibattito.
Le lettere. Domnick F. D’Costa, primario di Gerontologia ai Royal Wolverhampton Hospitals, ha qualche perplessità: “Innanzitutto, una recente meta-analisi sulla profilassi anticoagulante per la prevenzione della trombosi venosa profonda (TVP) su 19.958 pazienti ospedalieri ha mostrato solo benefici modesti. Prima di correre a praticare una tromboprofilassi così intensiva su tutti i pazienti, si dovrebbero tenere presenti questi dati e limitarsi esclusivamente ai pazienti a rischio. In secondo luogo, non sono ancora disponibili studi che valutino costi e benefici della tromboprofilassi con farmaci anticoagulanti nel quadro della prevenzione della TVP: su questo punto ad esempio le mie perplessità sono tante”. Christian Schwiebert, anestesista al Royal Brompton Hospital di Londra, plaude invece alle nuove linee-guida, e suggerisce: “I pazienti dovrebbero esser classificati secondo i parametri suggeriti dalle linee-guida NICE al ricovero o anche prima, e al quel punto i protocolli d’intervento suggerirebbero la corretta profilassi da implementare. L’adozione di questa semplice procedura ci consentirebbe di abbattere significativamente il rischio di TVP nei pazienti”. Una procedura che è già applicata in numerose strutture, occorre precisarlo. Lucy V. Harding, reumatologa all’Hope Hospital di Salford racconta la sua esperienza: “Il nostro ospedale ha implementato un protocollo per la tromboprofilassi sin dal 2004. In linea con le recenti indicazioni delle autorità sanitarie britanniche, di ogni paziente ammesso in ospedale viene valutato il rischio di tromboembolismo venoso, con prescrizione se necessario di eparina. Quando il protocollo è stato introdotto tutto il personale dell’ospedale è stato sensibilizzato e informato”.
Le ragioni di questa impennata di infezioni restano inspiegabili
Altro che ospedali. Secondo uno studio Usa, negli ultimi anni si è assistito a un vero e proprio boom di infezioni da stafilococco aureo contratte fuori dalle corsie (CA-MRSA). Sono le cosiddette infezioni di comunità: prese in carcere, nelle residenze assistenziali, ma anche nella pratica di alcuni sport o diffuse tra i tossicodipendenti che usano droghe per via endovenosa. Infine, anche tra chi si tatua o ha scarsa cura dell’igiene personale. La ricerca statunitense, condotta dal centro medico della Rush University e dall’ospedale John Stronger Jr. di Chicago, rivela che le infezioni multiresistenti da stafilococco aureo non contratte in ospedale sono passate dai 24 casi ogni 100 mila persone del 2000 ai 164,2 casi del 2005. Al contrario – aggiungono i ricercatori sugli Archives of Internal Medicine – il numero di infezioni batteriche che ben rispondono agli antibiotici è rimasto stabile nel periodo osservato. “A riprova del fatto che le infezioni multiresistenti si aggiungono a quelle trattabili, e non le sostituiscono”. Secondo l’equipe, le ragioni di questa impennata di infezioni “restano inspiegabili. Ma certo non è più possibile, alla luce di questi dati – concludono – accusare solo gli ospedali di essere la causa delle infezioni da stafilocco”.
La retinaldeide, un metabolita della vitamina A, incrementa la generazione di tessuto adiposo e diminuisce la sensibilità all’insulina. Gli inibitori della retinaldeide, d’altro canto, diminuiscono il tessuto adiposo e l’obesità indotta dalla dieta. E’ sempre più riconosciuto che i retinoidi, quali derivati naturali della vitamina A, possono svolgere ruoli importanti e alquanto specifici nel controllo dell’espressione genica, e di conseguenza anche le risposte quali bilancio energetico, obesità e diabete. Ora che è noto che la retinaldeide può svolgere un ruolo importante a livelli diversi dall’occhio, fra cui nella localizzazione del tessuto adiposo, le vie che controllano i livelli di retinaldeide possono divenire target per la terapia farmacologica. Questi dati non indicano la necessità di un eccesso di somministrazione di vitamina A: una dieta ben bilanciata è sempre ottimale, e l’eccesso di vitamina A può essere associato a problemi per la salute.
L’Alopecia androgenetica (AGA) è la più comune condizione che provoca perdita di capelli e colpisce sia gli uomini che le donne. A causa della sua frequenza e della compromissione spesso significativa della vita percepita dai pazienti che ne sono affetti, richiede una consulenza competente del medico, per una corretta diagnosi e un appropriato trattamento. In generale l’AGA è una diagnosi clinica in cui l’anamnesi del paziente e la sua valutazione obiettiva possono orientare ad ulteriori test diagnostici. Considerando che sul problema della perdita dei capelli esistono poche linee guida basate sull’evidenza il Gruppo di Consenso Europeo ha deciso di formulare delle linee guida S1 (1) per la diagnosi di AGA pubblicate sul British Journal of Dermatology e delle linee guida S3 (2) per il trattamento di AGA pubblicate sul Journal of the German Society of Dermatology.
Il documento definisce AGA una progressiva miniaturizzazione non cicatriziale del follicolo pilifero con una distribuzione secondo uno schema caratteristico negli uomini e nelle donne geneticamente predisposti. Negli uomini, l’AGA mostra un modello di distribuzione tipico, ma a volte è possibile osservare nel maschio un modello femminile. Nelle donne, l’AGA si presenta tipicamente con una diffusa riduzione della densità dei capelli nelle aree frontale e centrale, ma possono essere coinvolte anche le regioni parietali ed occipitali. E’ possibile che l’AGA si manifesti nelle donne con un modello maschile. Poiché la diagnosi è clinica, vanno escluse altre malattie che possono coinvolgere il cuoio capelluto e la crescita dei capelli. Poiché esistono trattamenti selettivamente efficaci nell’AGA, come la finasteride, si può considerarne l’impiego per escludere il coinvolgimento di altre patologie con le stesse modalità di caduta dei capelli.
La prevalenza nel maschio di AGA è più elevata nella popolazione caucasica, raggiungendo l’80% negli uomini > 70 anni, rispetto al 60% nella popolazione asiatica. Mancano informazioni per gli uomini africani, mentre negli afro -americani la calvizie è 4 volte meno comune rispetto ai caucasici. La gravità della calvizie del maschio aumenta con l’aumentare dell’età in tutti i gruppi etnici, con i primi segni di profonda recessione frontale e alle tempie che si possono manifestare durante l’adolescenza anche se, nella maggior parte dei casi, l’esordio inizia successivamente. Dopo i 70 anni circa il 60% dei maschi caucasici è calvo. Anche nelle donne la frequenza e la gravità dell’AGA aumentano con l’età. I tassi di prevalenza variano dal 3-6% al di sotto dei 30 anni fino al 29-42% in donne di età > 70 anni, con una frequenza inferiore delle donne orientali rispetto alle europee. Mancano i dati sulle donne africane.
L’AGA è un tratto androgeno-dipendente che porta alla progressiva miniaturizzazione dei follicoli dei capelli negli uomini predisposti geneticamente e con un’aumentata densità dei recettori degli androgeni e/o aumento dell’attività della 5 alfa -reduttasi di tipo II. In questi soggetti i livelli circolanti di androgeni sono normali e l’analisi della famiglia mostra un aumento significativo del rischio di sviluppare AGA negli uomini con padre affetto. Attualmente le evidenze sono a sostegno della tesi che l’AGA sia un tratto poligenico, inoltre sono state riportate associazioni significative con la regione variabile del gene per il recettore degli androgeni sul cromosoma X ed è stato identificato un locus di suscettibilità sul cromosoma 20p11. Il ruolo degli androgeni nella donna è meno certo ed è possibile che le forme di AGA femminile ad esordio precoce e tardivo rappresentino due entità geneticamente distinte. Il Gruppo di Consenso Europeo ha cercato di definire un subset di donne con AGA associata ad alterazioni ormonali.
Sotto il profilo clinico, nella maggior parte degli uomini, l’AGA coinvolge la zona fronto -temporale e il vertice secondo il modello della scala di Hamilton -Norwood, mentre in alcuni casi si sviluppa un assottigliamento diffuso della corona con mantenimento dell’attaccatura frontale analoga al pattern di Ludwig osservato nelle donne. Nella donna si osservano essenzialmente 3 patterns di perdita di capelli: nel primo si evidenzia un diffuso assottigliamento della corona frontale con attaccatura conservata. Il processo viene rappresentato sia dalla scala di Ludwig (a 3 punti) che dalla scala di Sinclair (a 5 punti); il secondo vede un assottigliamento e ampliamento della parte centrale del cuoio capelluto con compromissione della linea frontale come nella scala di Olsen; nel terzo modello si assiste ad un diradamento associato a recessione bitemporale, secondo la scala di Hamilton -Norwood.
Nella valutazione clinica è fondamentale registrare quando si è verificata la prima manifestazione di caduta dei capelli e le sue caratteristiche (cronica o intermittente). I primi sintomi di AGA possono essere il prurito e la tricodinia. Spesso è presente una familiarità, anche se la sua negatività non esclude la diagnosi. Vanno escluse condizioni concomitanti come la carenza di ferro, che spesso determina perdita diffusa di capelli nelle donne, o altre cause di effluvium diffuso come infezioni gravi o disfuzioni della tiroide. E’ opportuno sondare il comportamento alimentare che, per diete carenti o rapida perdita di peso, può innescare l’effluvium diffuso. L’anamnesi farmacologica è importante perché molti farmaci possono indurre la perdita dei capelli (chemioterapici, steroidi anabolizzanti, ormoni con azione antitiroidea) Un ruolo significativo può esser giocato da alcuni stili di vita come acconciature speciali, fumo, esposizione a raggi UV. Le donne con AGA solitamente hanno una fisiologica funzione ormonale, ma questo non esclude un’attenta anamnesi ginecologica orientata a definire menarca, tipo di ciclo, presenza di menopausa, amenorrea, uso di contraccezione ormonale orale o sistemica, fertilità, gravidanze, chirurgia ginecologica, segni di iperandrogenismo. Negli adolescenti è fondamentale discriminare una perdita di capelli congenita da un’acquisita. L’AGA è una perdita di capelli di tipo acquisito con una distribuzione caratteristica e differisce dall’effluvium diffuso da fattori nutrizionali, dall’alopecia indotta o dal’ipotricosi simplex (congenita). L’AGA senza segni di pubertà precoce comunque non deve esimere dall’acquisire il parere dell’endocrinologo pediatra.
La valutazione clinica comprende l’esame del cuoio capelluto che nell’AGA di solito è normale. Può essere associata una dermatite seborroica che potenzialmente è un fattore aggravante. E’ importante la ricerca dei segni di flogosi, seborrea e di cicatrici. L’alopecia areata e l’alopecia cicatriziale possono mimare un AGA specialmente frontale. E’ possibile che il cuoio capelluto sia atrofico in AGA di lunga durata. Si raccomanda di esaminare la distribuzione dell’alopecia confrontando le aree frontale occipitale e temporale. In alcune donne con AGA è possibile osservare un’atrichia focale di pochi millimetri di diametro. Nei maschi l’AGA si presenta con una distribuzione di tipo maschile per recessione bitemporale e/o recessione e diradamento di vertice e talvolta anteriore. Nel 10% degli uomini l’AGA si presenta con un modello femminile. La distribuzione della perdita nelle donne è più diffusa, accentuata nel cuoio capelluto frontale, ma con conservazione dell’attaccatura. Le scale di valutazione più usate nella pratica clinica sono per l’uomo la scala di Hamilton -Norwood e per la donna le scale di Ludwig e di Olsen. Nella donna che consulta il medico in una fase precoce di perdita dei capelli la scala di Sinclair offre più possibilità di categorizzare la paziente rispetto alle altre scale. L’esame della peluria del viso e del corpo, la sua densità e la sua distribuzione orientano verso un’alopecia areata in assenza o netta riduzione delle ciglia e sopracciglia, reperto che può far pensare anche all’alopecia frontale fibrotica. Una crescita di peluria con distribuzione nelle aree terminali del corpo orienta all’ipertricosi etnica, o farmacologica, o all’irsutismo. Acne, seborrea e obesità sono suggestivi di iperandrogenismo. Le alterazioni ungueali possono essere presenti nell’alopecia areata, nel lichen planus e in alcune forme di carenza.
Tra gli esami di laboratorio Ferritina e TSH trovano indicazione solo se supportati dalla storia del paziente e in presenza di un effluvium diffuso. Nei maschi non c’è indicazione all’esecuzione di esami di laboratorio per la diagnosi di AGA. Nei soggetti > 45 anni è raccomandabile il dosaggio del PSA prima di iniziare la terapia con finasteride, farmaco in grado di ridurne la concentrazione sierica e potenzialmente ritardare la diagnosi in caso di neoplasia prostatica. Nelle donne non è necessario esegire un work up endocrinologico e una valutazione interdisciplinare (ginecologo, endocrinologo, dermatologo). E’ necessaria solo se esiste un sospetto clinico di eccesso di androgeni (es. s. ovaio policistico). Sono considerati solo due test di screening: il testosterone totale e la SHBG, utili per l’identificazione dell’iperandrogenismo, ricordando che i dosaggi vanno eseguiti solo in donne che non assumono ormoni come ad esempio i contraccettivi orali per almeno due mesi. Nei bambini e negli adolescenti con un’insorgenza precoce di AGA si impone un approccio multidisciplinare tra dermatologo, pediatra ed endocrinologo. Diversi test possono essere impiegati per confermare la diagnosi di AGA come il pull test, la dermatoscopia, la fotografia globale, il tricoscan, il tricogramma, la biopsia, ma l’AGA è essenzialmente una diagnosi clinica e queste linee guida offrono al medico pratico le raccomandazioni essenziali per un rapido e corretto inquadramento.
Bibliografia (1) U. Blume -Peytavi; A. Blumeyer; A. Tosti; A. Finner; V. Marmol; M. Trakatelli; P. Reygagne; A. Messenger S1 Guideline for Diagnostic Evaluation in Androgenetic Alopecia in Men, Women and Adolescents Br J Derm 2011;164(1):5 -15 (2) A. Blumeyer, A. Tosti, A. Messenger, P. Reygagne,V. del Marmol, P. I. Spuls, M. Trakatelli, A.Finner, F. Kiesewetter, R.Trüeb, B.Rzany, U. Blume -Peytavi Evidence -based (S3) guideline for the treatment of androgenetic alopecia in women and in men
Il tempo che intercorre tra la visita iniziale e l’intervento chirurgico non influenza in modo negativo l’outcome per il cancro della cervice, in uno studio retrospettivo giapponese. Secondo la International federation of gynecology and obstetrics, il trattamento primario standard per i tumori in questi stadi iniziali consiste nell’isterectomia radicale o nella radioterapia; uno studio sull’argomento non ha evidenziato una differenza fra le due opzioni in termini di sopravvivenza media. È stato consigliato di iniziare tempestivamente la terapia, ma non esistevano dati a supporto di questa raccomandazione basata sul buon senso. I ricercatori giapponesi hanno esaminato retrospettivamente le cartelle cliniche di 117 pazienti con tumore cervicale allo stadio IA o IIA che erano stati sottoposti a chirurgia radicale, con l’obiettivo di identificare i fattori prognostici e di chiarire se il tempo atteso prima dell’intervento influenzasse la frequenza di recidive o le percentuali di sopravvivenza. Il tempo intercorso dalla prima visita ginecologica alla data dell’intervento è variato dai 20 ai 92 giorni, con una media di 48. Le pazienti sono state suddivise in base alla durata di questo periodo ed è stata poi condotta un’analisi statistica univariata in base a diversi fattori, da cui risulta che le metastasi ai linfonodi e l’invasione dello spazio linfovascolare sono effettivamente predittori pronostici della sopravvivenza senza progressione, mentre il tempo d’attesa non presenta nessuna correlazione di questo tipo.
È possibile che esista una associazione tra le modificazioni del pH vaginale correlate all’età e il grado di infezione da Papillomavirus umano (Hpv) e che, in particolare, alterazioni del microambiente cervicale modifichino il comportamento dell’Hpv nello sviluppo di lesioni precancerose e del cancro della cervice uterina. È quanto sembrerebbero indicare i dati di un ampio studio di popolazione condotto a Guanacaste (Costa Rica) su 9.165 donne (età: 18-97 anni) per un totale di 28,915 visite e un follow-up medio di 3,4 anni da un’equipe guidata da Megan A. Clarke, dei National institutes of health di Bethesda (Usa). Nelle partecipanti si è valutato il rapporto tra pH vaginale, eventuali infezioni da Hpv e lesioni intraepiteliali squamose a basso grado, Lsil (manifestazioni citomorfiche dell’infezione dal Hpv) e infezioni da C. trachomatis. Il rilievo dell’Hpv è apparso positivamente associato con il pH vaginale, soprattutto nelle donne di età inferiore ai 35 anni. Un elevato pH vaginale è risultato associato a un rischio aumentato del 30% di infezione con sierotipi multipli di Hpv e di Lsil, in modo predominante nelle donne di età inferiore ai 35 anni o superiore ai 65. Il riscontro di Dna di C. trachomatis si è associato a un incremento del pH vaginale nelle donne di età inferiore a 25 anni. La ricerca in futuro, concludono gli autori, dovrebbe comprendere studi sul pH vaginale nell’ambito di una più complessa valutazione di come modificazioni ormonali e del microbioma cervicovaginale siano in relazione alla storia naturale della neoplasia cervicale.
Disparità di accesso per screening mammografico e cervicale in Italia. A lanciare l’allarme uno studio italiano pubblicato su Bmc public health sui dati registrati dal Servizio sanitario nazionale nel biennio 2004-2005. Due i campioni presi in esame: un gruppo di 15.486 donne tra i 50 e i 69 anni per la mammografia e un secondo gruppo di 35.349 tra i 25 e i 64 anni per lo screening cervicale. In entrambi i casi è emerso che le donne con più difficoltà di accesso ai programmi di prevenzione sarebbero quelle con una scolarità e un livello occupazionale più bassi. Per quanto riguarda lo screening mammografico, secondo lo studio, appena il 40,5% delle donne con un’istruzione di base vi si sottoporrebbe regolarmente, contro il 49,5% delle donne con un livello intermedio di scolarità e il 57% titolare di un’istruzione superiore. Copione simile anche nel caso del Pap test, con percentuali rispettivamente del 44%, 50,5% e 56,7%. Anche la posizione lavorativa sembra coprire un ruolo fondamentale: tra le donne disoccupate solamente il 35,4% del campione si sottoporrebbe a screening mammografico regolare, contro il 47,9% con un’attività lavorativa di basso profilo, il 59,9% del gruppo intermedio e il 57,5% che ricopre una carica lavorativa di alto livello. Situazione, invece, più equilibrata per i dati che si riferiscono al Pap test: 63,3% per le disoccupate, 52,8% per le afferenti al secondo gruppo, 62,3% per le donne che ricoprono un ruolo lavorativo intermedio e 62,7% per l’ultimo campione.
Il consumo anche contenuti di alcool è associato a un, seppur piccolo, aumento di rischio di cancro del seno e il massimo impatto in tal senso è determinato dall’assunzione cumulativa di alcool durante l’età adulta. È una delle evidenze principali di uno studio osservazionale prospettico, coordinato da Wendy Y. Chen, del Brigham and Women’s hospital di Boston (Usa), condotto su 105.968 donne, arruolate nel Nurses’ health study, e seguite dal 1980 al 2008 con una valutazione precoce dell’assunzione di alcool e 8 controlli successivi. Nel corso di un follow-up pari a 2,4 milioni di anni-persona, sono stati diagnosticati 7.690 casi di cancro mammario invasivo. Un maggiore consumo di alcool è apparso associato a un aumentato rischio di cancro mammario; la correlazione è risultata statisticamente significativa già a livello di 5,0-9,9 g/die, equivalenti a 3-6 drink alla settimana (rischio relativo: 1,15). Dopo controllo per l’intake cumulativo di alcool, è risultato associato al rischio di cancro mammario non tanto la frequenza di assunzione, quanto il consumo compulsivo (binge drinking). Infine, è emerso che l’assunzione in età adulta precoce o tardiva è, in entrambi i casi, associata al rischio in modo indipendente.
Per far chiarezza sui fattori di rischio e sulle conseguenze della posizione errata del dispositivo intrauterino (Iud), in vista di future gravidanze, Kari P. Braaten e colleghi del Brigham and women’s hospital di Boston (Usa) hanno svolto uno studio retrospettivo caso-controllo, in cui sono state confrontate 182 donne con Iud malposizionato con 182 donne in cui era posizionato correttamente. Le valutazioni sono state eseguite tra il 2003 e il 2008, e nel 10,4% delle donne con Iud in posizione scorretta, questa è stata notata in seguito a ecografia pelvica prescritta per qualsiasi indicazione. Nella maggior parte dei casi (73,1%) il dispositivo si trovava nel segmento inferiore uterino o nella cervice. Fra i fattori di rischio teorici presi in considerazione, è stato escluso l’inserimento dello Iud nel corso delle 6-9 settimane postpartum, in quanto è non è risultato associato a malposizionamento (odds ratio, Or: 1,46). Una sospetta adenomiosi, invece, è apparsa maggiormente correlata (Or: 3,04), inoltre, un precedente parto per via vaginale (Or: 0,53) o la disponibilità di un’assicurazione privata (Or: 0,38) sono risultati elementi protettivi. Circa due terzi degli Iud malposizionati sono stati rimossi da personale sanitario. Si sono avute più gravidanze in 2 anni nei casi che nei controlli (19,2% vs 10,5%). Tutte le gravidanze sono state il risultato di un’espulsione o di una rimozione del dispositivo intrauterino, e nessuna gravidanza si è verificata con uno Iud malposizionato in situ. Le maggiori probabilità di rimanere gravide con uno Iud non posizionato correttamente, infine, sarebbero legate al fatto che, dopo la rimozione del dispositivo, non viene avviato un altro metodo contraccettivo altamente efficace.