Enzima uterino connesso a insuccesso riproduttivo

Secondo uno studio condotto all’Imperial college di Londra da un gruppo di ricercatori guidati dal team di Jan J. Brosens dell’Università di Warwick, i problemi di fertilità femminile e gli aborti spontanei potrebbero dipendere dalle concentrazioni uterine dell’enzima Sgk1, una chinasi coinvolta nella sopravvivenza delle cellule e nel trasporto di sali minerali nell’organismo. Inizialmente è stata studiata una popolazione di 106 donne con problemi di fertilità o che aveva avuto aborti spontanei ricorrenti. Da tutte è stato prelevato un campione di endometrio, sottoposto poi ad analisi di laboratorio, dalle quali è emerso che nelle donne con infertilità inspiegata i livelli dell’enzima Sgk1 erano particolarmente elevati, mentre in quelle che soffrivano di aborti ricorrenti le concentrazioni della stessa chinasi erano bassi. Per capire l’importanza funzionale di tali osservazioni, è stata condotta un’ulteriore ricerca con fecondazione assistita su modello animale. Alcune cavie sono stati modificate geneticamente in modo che fosse sovraespresso il gene che codifica l’Sgk1, e ciò ha prevenuto l’espressione di alcuni geni di ricettività endometriali, sfavorendo l’impianto dell’embrione. Al contrario, in soggetti omozigoti negativi per Sgk1 l’impianto non ha avuto ostacoli, ma la gravidanza è risultata spesso complicata da sanguinamenti a livello dell’interfaccia deciduo-placentare, con ritardo di sviluppo fetale e conseguente morte. In altre parole, è necessario che i livelli dell’enzima siano bassi nel tessuto uterino perché l’uovo fecondato possa attecchire, ma in seguito tali livelli devono aumentare nella decidua per il nutrimento del feto. Ecco perché, concludono gli autori, a seconda dei compartimenti anatomici, la scorretta regolazione dell’attività di Sgk1 nel ciclo endometriale interferisce con l’impianto dell’embrione, portando a infertilità, oppure predisponendo a complicanze della gravidanza.

Nat Med, 2011; 17(11):1509-13

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Fratture ostoporotiche d’anca nei giovani diabetici e alcolisti

Le fratture osteoporotiche del collo del femore (Ohf) non interessano solo gli anziani, e il loro studio in soggetti più giovani permette di identficare profili demografici peculari e comorbilità associate la cui conoscenza è utile ai fini della prevenzione. Così si può sintetizzare il messaggio emerso da uno studio retrospettivo, svolto da Sandra G. Pasoto e collaboratori dell’università di San Paolo del Brasile, su 232 ricoveri per frattura d’anca, di cui 51,7% (n=120) osteoporotiche, avvenute in un triennio in un ospedale universitario. Il confronto tra i 13 casi (10,8%) occorsi fino a 64 anni d’età e i 107 (89,2%) avvenuti in soggetti di età =/>65 anni ha evidenziato una predominanza maschile del fenomeno (61,5% vs 27,1%) e una distribuzione etnica caratterizzata da una minore proporzione di caucasici tra i primi (61,5% vs 86,9%). Inoltre, si è visto che tra i non anziani si aveva una frequenza maggiore di diabete melito insulinodipendente (38,5% vs 3,7%) e di alcolismo (38,5% vs 4,7%) rispetto agli over65. L’analisi di regressione logistica ha dimostrato che il diabete mellito insulinodipendente (oddrs ratio, Or: 25,4) e l’alcolismo (Or: 20,3) rimanevano fattori di rischio indipendentente per fratture osteoporotiche del collo del femore nei pazienti non anziani. Questi dati – concludono gli autori – rafforzano la necessità di diagnosi precoce e di mettere in atto azioni rigorose preventive nel caso dei pazienti diabetici o alcol-dipendenti.

Rheumatol Int, 2011 Sep 27. [Epub ahead of print]

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Talidomide: una nuova (e forse efficace) proposta terapeutica per i sanguinamenti intestinali da angiodisplasie

I pazienti con sanguinamento gastrointestinale ricorrente da malformazioni vascolari quali le angiodisplasie e/o le ectasie vascolari dell’antro gastrico rappresentano sicuramente una condizione clinica con difficile soluzione terapeutica. Attualmente le terapie convenzionali, tra cui l’embolizzazione angiografica, la ablazione endoscopica, e la resezione chirurgica, sono spesso inefficaci nel prevenire la recidiva del sanguinamento, ed i trattamenti farmacologici quali l’utilizzo degli estrogeni e della somatostatina o dei suoi analoghi quali l’octreotide, non hanno dimostrato di avere una sicura efficacia. Per tale motivo alcuni colleghi gastroenterolgi di Shanghai hanno voluto verificare se l’utilizzo di un agente antiangiogenetico come la talidomide potesse avere un ruolo nella prevenzione dei sanguinamenti da malformazioni vascolari dell’intestino. Lo studio – open-label, randomizzato – ha interessato 55 pazienti consecutivamente ricoverati per sanguinamenti dipendenti da angiodisplasie intestinali, randomizzati a ricevere 25 mg di talidomide 4 volte al giorno o 100 mg di ferro, sempre 4 volte al giorno per 4 mesi e poi seguiti per 1 anno. L’end point primario era il tasso di risposta efficace, definita come la proporzione di pazienti nei quali gli episodi di sanguinamento erano diminuiti di oltre il 50% nel periodo di follow-up (essendo il sanguinamento definito come un risultato positivo di un test di ricerca del sangue occulto fecale). Gli end points secondari includevano il tasso di cessazione del sanguinamento, il numero delle trasfusioni di sangue, l’ospedalizzazione generale e quella a causa di un sanguinamento intestinale. Sono stati ovviamente valutati anche gli effetti collaterali della talidomide (vedi tabella 1) che seppur comparsi in modo superiore rispetto al ferro non hanno comportato la cessazione della terapia. Questi i risultati

  • le percentuali di risposta nei gruppi talidomide e controllo sono state rispettivamente del 71.4% e 3.7%, (p < 0.001) con significativa riduzione degli episodi di sanguinamento (così come emerge dalla Figura 1)
  • la terapia con talidomide aveva anche efficacia significativamente superiore nei confronti di tutti gli end points secondari
  • i livelli di fattore di crescita vascolare endoteliale (Figura 2) sono stati significativamente ridotti dalla talidomide (p <0.001), a dimostrazione del meccanismo d’azione del farmaco.

La talidomide, attraverso la sua documentata azione antiangiogenetica, potrebbe quindi rappresentare una valida e relativamente sicura opzione terapeutica per la prevenzione dei sanguinamenti intestinali da malformazioni vascolari. Rimane tuttavia da verificare se trattamenti di durata maggiore ai 4 mesi possano avere negativi impatti coagulativi con insorgenza di episodi di tromboembolismo venoso. 

Ge ZZ et al. Efficacy of thalidomide for refractory gastrointestinal bleeding from vascular malformation. Gastroenterology 2011; 141(5):1629-37

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Serve abbassare il colesterolo nel grande anziano?

Un lavoro pubblicato a novembre da un gruppo di ricercatori olandesi sul Journal of American Geriatric Society ha evidenziato che livelli alti di colesterolo e di non-HDLc  sono associati con un più basso rischio di mortalità non cardiovascolare e totale. Ciò vale soprattutto per i grandi anziani. Il lavoro riguardava 5.750 adulti di età tra 55 e 99 anni, studiati per una mediana di 13.9 anni. Dai risultati si è visto che per ogni mml/L (1 mml/L = 38.61 mg/dL) di aumento del colesterolo totale c’era un rischio di mortalità non cardiovascolare minore del 12% (p<0.001), e ciò valeva soprattutto nelle età più avanzate ed era da ascrivere a valori di non-HDLc elevati, mentre l’HDLc  non era significativamente associato con la mortalità non cardiovascolare (p=0.26). (vedi Figura) Questo studio quindi si aggiunge al coro di quanti affermano che esista una relazione inversa, soprattutto nel grande anziano, tra colesterolo e mortalità totale. Il lavoro è accompagnato da un editoriale, secondo il quale è possibile che l’aumento della mortalità sia dovuto ad un abbassamento di peso, in genere presente quando si abbassa il colesterolo. Un’altra possibilità è che qualche componente del non-HDLc, come per esempio le grandi LDL, possa essere protettivo contro certe malattie e che le persone longeve possano essere ricche di questi elementi protettivi. In effetti le grandi LDL non sono aterogene e sono associate ad eccezionale longevità. Si debbono e/o si possono quindi usare le statine nei grandi anziani? Fino a quando non avremo dati su studi appositamente disegnati, l’orientamento è che nelle persone sopra gli 80 anni non vi sia una chiara evidenza che siano utili ed andrebbero quindi somministrate solo in presenza di alterazioni coronariche documentate angiograficamente. Inoltre si dovrebbero studiare le LDL di queste persone, e solo se si riscontra una preponderanza di LDL piccole e dense sarà consigliabile continuare con le statine. In pratica bisognerebbe valutare caso per caso. 

Newson RS et al. J Am Geriatr Soc 2011; 59:1779-1785

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I nuovi anticoagulanti orali come possibile terapia della trombocitopenia indotta da eparina

A dicembre è stato presentato all’Annual Meeting 2011 dell’American Society of Hematology uno studio che dimostra come i nuovi anticoagulanti orali (NAO) – dabigatran, rivaroxaban e apixaban – non interagiscono con gli anticorpi responsabili della trombocitopenia indotta da eparina (HIT), quelli cioè rivolti contro il complesso eparina-fattore piastrinico 4. Infatti, mentre l’aggiunta di enoxaparina al siero di soggetti con HIT sintomatica induceva aggregazione piastrinica e incremento del titolo degli anticorpi anti eparina-fattore piastrinico 4, apixaban, rivaroxaban e dabigatran non hanno aumentato tali anticorpi oltre 15.0 ng/mL. Inoltre, i ricercatori hanno notato che nessuno dei nuovi agenti orali ha indotto aggregazione piastrinica. Quasi il 5% dei pazienti trattati con eparina non frazionata ha un qualche tipo di effetto avverso. L’evento avverso più grave è, sicuramente, la trombocitopenia indotta da eparina, che ha esiti catastrofici. Di questi pazienti, circa il 10% sviluppa trombosi, sindrome HIT, ictus e altri danni vascolari. Anche se è rara, allorché l’HIT si verifica, le conseguenze possono essere molto gravi; avere a disposizione nuove armi terapeutiche in grado di contrastare il principale problema della HIT (la trombosi) rappresenta pertanto una valida prospettiva terapeutica per i nuovi anticoagulanti orali. 

Lewis BE, Aranda C, Lewis M, et al. Unlike heparins, newer oral anticoagulants do not interact with HIT antibodies and maybe useful in the long-term anticoagulant management of heparin-compromised patients. American Society of Hematology 2011 Annual Meeting; December 11, 2011; San Diego, CA. Abstract 2317.

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L’effectiveness dei trattamenti per il Clostridium Difficilis

Alcuni colleghi del Minneapolis Veterans Affairs Health Care System, della Medical School, dell’Evidence-based Practice Center, della School of Public Health e della School of Nursing della Università di Minneapolis in Minnesota hanno utilizzato MEDLINE, Amed, Clinical Trials.gov, e la Cochrane per una revisione bibliografia che intendeva identificare quello fra i vari trattamenti proposti per la terapia dell’infezione da Clostridium Difficilis che avesse una maggiore efficacia in termini di tempo di guarigione, sicurezza e riduzione delle recidive. Sono stati identificati 11 studi randomizzati e controllati che rispondevano agli stringenti criteri di inclusione e che riportavano i dati di oltre 1.400 pazienti trattati con i farmaci disponibili in USA. Di questi, 3 studi hanno confrontato il metronidazolo con la vancomicina ed i rimanenti 8 metronidazolo o vancomicina con un altro farmaco (fidaxomicina), con combinazioni farmacologiche o con placebo. Nessun farmaco si è dimostrato superiore agli altri nel trattamento iniziale della infezione. In un unico studio, che ha confrontato fidaxomicina (non ancora in commercio in Italia) con vancomicina, il nuovo farmaco è risultato capace di ridurre le recidive rispetto alla vancomicina (15% vs 25%, differenza -10 punti percentuali [95% CI, -17/-3 punti percentuali], p = 0.005). Nessuna differenza è stata riscontrata per ciò che riguarda la safety. 

Drekonja DM et al. Comparative Effectiveness of Clostridium difficile Treatments A Systematic Review. Ann Int Med 2011; 155 (12): 839-847

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Crollano i miti: una pressione sistolica più elevata comporta una prognosi migliore nel dolore toracico acuto

Negli USA circa 6 milioni di persone all’anno si presentano in un DEA per dolore toracico acuto; pertanto identificare i fattori di rischio diventa molto importante: tra questi l’ipertensione è uno dei principali, e tutti gli sforzi sono orientati a tenerla bassa. Ma inaspettatamente sono stati pubblicati alcuni lavori scientifici i quali suggeriscono che una pressione sistolica più elevata, nel dolore toracico acuto, è accompagnata ad una migliore prognosi. Siccome queste pubblicazioni non indicano se i pazienti erano affetti da insufficienza renale, da quanto durasse il dolore, quale fosse l’entità dello stress emodinamico, Irgan e collaboratori hanno concepito uno studio per valutare la prognosi ad un anno anche in rapporto a questi fattori. Lo studio è multicentrico, prospettico e osservazionale ed ha interessato 1.240 pazienti. La PAS alla presentazione è stata quantificata in quartili (Q1<127 mmHg; Q2 128142 mmHg; Q3 143160 mmHg; Q4>161 mmHg). I risultati hanno evidenziato che la mortalità è migliorata progressivamente dai quartili più bassi ai quartili più alti soprattutto nei pazienti che presentavano un dolore toracico da più di 12 ore. In conclusione, i pazienti con dolore toracico acuto che si presentavano in DEA mostravano un’associazione inversa tra valori di PAS e mortalità a 1 anno. Quelli con insufficienza renale preesistente si presentavano con valori pressori più bassi e quindi erano a maggiore rischio di mortalità a lungo termine, ma la relazione appariva molto più stretta nei pazienti che si presentavano in DEA con un dolore che durava da più di 12 ore. Non c’era rapporto tra mortalità a 1 anno e stress emodinamico (misurato col dosaggio del BNP). Lo studio ha molte limitazioni: è prospettico e non quantifica i potenziali effetti benefici di una stratificazione del rischio basata sulla misurazione della pressione; non è quantificato il grado di insufficienza renale perché i pazienti che richiedevano la dialisi erano stati esclusi; vanno infine esaminati con cautela i dati riguardanti la durata del dolore. Comunque è possibile che i pazienti che si presentano con una PAS più bassa siano affetti da più patologie e quindi più fragili e con una prognosi peggiore. 

Irfan A et al. European Journal of Internal Medicine 2011; 22: 495500

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Crampi notturni e uso di farmaci

Anche se è nozione comune che l’utilizzo di certi farmaci sia alla base dei crampi notturni, ad oggi non era mai stato fatto uno studio che ne oggettivasse l’evidenza. Alcuni colleghi farmaco-epidemiologi della British Columbia University di Vancouver, utilizzando i database sanitari di quello Stato dal 2000 al 2008, hanno valutato quale potesse essere il rapporto fra utilizzo dei diuretici, delle statine, dei beta2-agonisti inalatori a lunga durata d’azione (LABA) ed insorgenza dei crampi notturni, avendo come ulteriore parametro il numero di prescrizioni di chinino che in quel contesto è il farmaco maggiormente utilizzato per combatterli. L’adjusted sequence ratio (95% CI) per le 3 classi di farmaci è stata la seguente:

  • per i LABA 2.42 (2.02-2.89; p <0.001), con queste specifiche:
    • 2.17 (1.56-3.02) per il loro utilizzo singolo
    • 2.55 (2,06-3.12) quando usati in associazione con i corticosteroidi (p <0.001 per entrambi)
  • per i diuretici 1,47 (1,33-1,63 [p <0,001]), fra questi
    • 2.12 (1.61-2.78; p <0.001) per i risparmiatori di potassio
    • 1.48 (1.29-1.68; p <0.001) per tiazidici e i tiazidici-like
    • 1.20 (1.00-1.44; p = 0.07) per quelli dell’ansa
  • per le statine 1.16 (1.04-1.29; p = 0.004).

Il trattamento di questo sintomo non si è sostanzialmente modificato nel corso degli anni e prevede l’utilizzo prevalente del chinino. I dati confermano quindi la “nozione comune” e identificano nei LABA e nei diuretici le classi di farmaci che possono peggiorare i crampi notturni. 

Scott R et al. Nocturnal Leg Cramps and Prescription Use That Precedes Them: A Sequence Symmetry Analysis. Arch Intern Med. Published online December 12, 2011. doi:10.1001/archinternmed.2011.1029

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Bisfosfonati dimezzano interventi di revisione protesica

Nei pazienti sottoposti ad artroplastica agli arti inferiori, l’uso di bisfosfonati orali si associa ad almeno un raddoppio della sopravvivenza degli impianti. Lo rivela un ampio studio britannico condotto su tutti i pazienti sottoposti ad artroprotesi primaria totale di ginocchio o di anca

La ricerca è stata effettuata in Gran Bretagna sui dati dei pazienti sottoposti a chirurgia protesica d’anca (n=23.269) e di ginocchio (n=18.726) dal 1986 al 2006. Nel campione complessivo di 41.995 soggetti, Daniel Prieto-Alhambra dell’università di Oxford e i suoi colleghi ne hanno identificati 1.912 che avevano fatto uso di bisfosfonati in somministrazione orale (per almeno sei prescrizioni o per almeno sei mesi di terapia). In questo gruppo la percentuale di revisioni è stata dello 0,93% rispetto all’1,96% degli altri pazienti: dunque meno della metà per un totale di 107 interventi di revisione evitati, secondo l’analisi statistica dei ricercatori. L’effetto protettivo è stato superiore nei pazienti sottoposti ad artroprotesi di ginocchio rispetto a quelli operati all’anca, anche se questa differenza è stata piuttosto limitata. Infine, nei soggetti che avevano ricevuto una diagnosi di osteoartrosi da parte del proprio medico di base, l’utilizzo dei bisfosfonati ha avuto un effetto protettivo proporzionalmente maggiore, con un tempo di sopravvivenza incrementato almeno di tre volte. 

La spiegazione fornita dagli autori
La causa più comune di fallimento delle protesi agli arti inferiori è lo scollamento asettico, che è ritenuto responsabile del 56% di tutti gli interventi di revisione all’anca e del 41% al ginocchio. Si ritiene che lo scollamento sia da attribuire a una risposta infiammatoria cronica, che recluta macrofagi, osteoclasti e altre cellule fino a determinare un’accelerazione della perdita di osso periprotesico. Secondo gli autori dello studio, l’effetto protettivo dei bisfosfonati avverrebbe proprio agendo su questo meccanismo. Lo studio inglese si inserisce in uno scenario di dati talvolta contrastanti, ma nell’articolo, pubblicato sul British Medical Journal, si legge: «i nostri risultati sono coerenti con la maggior parte dei trial pubblicati, poiché noi abbiamo mostrato un significativo effetto protettivo adottando come punto di vista la percentuale di revisioni che si sono rese necessarie dopo l’intervento primario». Inoltre, anche se i dati statistici non sono sufficienti per un responso definitivo, i benefici maggiori sembrano verificarsi sul lungo periodo, dopo almeno cinque anni dalla terapia, proprio quando la causa più comune di fallimento è lo scollamento determinato dall’osteolisi. Naturalmente non si possono trascurare gli effetti avversi che si associano all’utilizzo dei bisfosfonati, ma Prieto-Alhambra riporta in proposito cifre molto basse: «l’osteonecrosi della mascella colpisce da 0,1 a 1 ogni 10.000 pazienti/anno, mentre sono circa 5 ogni 10.000 pazienti/anno a incorrere in fratture atipiche». 

BMJ 2011;343:d7222

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Ruolo della vitamina D nella prevenzione delle malattie

La supplementazione di vitamina D è efficace nel ridurre il rischio di fratture ossee solo se in combinazione con un’integrazione di calcio, mentre non vi sono evidenze scientifiche a confermarne un ruolo positivo nel contrastare il cancro e le malattie cardiovascolari

Due articoli distinti, comparsi sullo stesso numero degli Annals of Internal Medicine, esaminano il profilo d’azione della vitamina D, in particolare per quanto riguarda l’eventuale utilità di una sua supplementazione ai fini di prevenire l’insorgenza di determinate malattie. Le conclusioni delle ricerche citate sono a favore di un ruolo della vitamina nella salute ossea mentre, nei confronti dei tumori e delle malattie cardiovascolari, gli autori e altri esperti intervenuti in merito esprimono pareri contrastanti e comunque non definitivi. 

Fratture e densità ossea
L’analisi relativa agli effetti sulla salute delle ossa è stata condotta da Mei Chung e dai suoi colleghi del Tufts medical center di Boston, Massachusetts. La revisione della letteratura ha mostrato che, somministrata da sola, la vitamina non ha ridotto il rischio relativo di fratture (mediamente all’1.03 rispetto al placebo) che è invece sceso allo 0,88 con la contemporanea somministrazione di calcio. Tra le donne istituzionalizzate l’efficacia è stata superiore (0.71) rispetto a quelle residenti in comunità (0,89). La maggior parte delle pubblicazioni individuate sono relative a donne anziane mentre, per avere una conferma dei benefici sarà necessario, come spiega Chung, estendere le indagini alla popolazione generale, anche per individuare il dosaggio più idoneo a mantenere la salute delle ossa. Il ricercatore di Boston suggerisce di collegare la supplementazione di vitamina D con la densità minerale ossea: «in questo modo sarebbe sufficiente uno studio di breve durata che dovrebbe però essere esteso a un’ampia popolazione, in modo da mettere a confronto diversi dosaggi; l’utilizzo come outcome delle fratture richiederebbe tempi e costi ben maggiori». 

Tumori
La revisione ha anche evidenziato la scarsità e contraddittorietà delle prove a sostegno dell’efficacia della vitamina D nel prevenire il cancro. Molti studiosi si dicono però convinti degli effetti positivi, anche se ammettono l’assenza di evidenze scientifiche affidabili. Per esempio, il dottor Robert Graham, del Lenox Hill hospital di New York, che ha condotto sperimentazioni sull’argomento, ha così commentato l’articolo di Chung: «ritengo che la vitamina D offra più benefici di quanto attualmente provato e comporta danni minimi» non raccogliendo dunque le preoccupazioni relative a possibili conseguenze ai reni o alla formazione di calcoli alle vie urinarie. 

Malattie cardiovascolari
Nell’altro articolo comparso sulla rivista americana, Cora McGreevy, con il suo gruppo del Royal college of surgeons in Irlanda, ha invece evidenziato l’assenza di conferme dell’ipotesi che la somministrazione di vitamina D aiuti a prevenire le patologie cardiovascolari. La revisione dei contributi scientifici pubblicati sull’argomento dal 1985 al 2011 ha portato a risultati definiti dagli autori «contraddittori o inconcludenti». Pur confermando che la carenza di vitamina D è una condizione sempre più diffusa tra la popolazione e in particolare tra gli anziani, gli effetti di un’integrazione sistematica e giornaliera restano in gran parte da dimostrare. 

Ann Intern Med. 2011 Dec 20;155(12):820-6
Ann Intern Med. 2011 Dec 20;155(12):827-38

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