Aver fuorviato e ingannato i fumatori sulla sicurezza degli additivi usati nelle sigarette. È questa l’accusa rivolta all’industria del tabacco dal Centro di ricerca per il controllo sul tabacco dell’università della California a San Francisco, che ha rilevato come la Philip Morris «dieci anni fa abbia oscurato i risultati sulla tossicità degli additivi». Secondo la ricerca pubblicata sulla rivista Plos Medicine, lo studio Project Mix effettuato dall’azienda aveva sostenuto l’assenza «di prove di una sostanziale tossicità associata agli additivi studiati» (sono più di 300) mentre avrebbe dovuto «rivelarne i pericoli». Dopo aver condotto le loro analisi, come specificato nel protocollo iniziale di Project Mix, poi modificato, i ricercatori hanno infatti riscontrato un aumento medio del 20% del livello di 15 additivi carcinogeni. Hanno inoltre scoperto che, per quelle che definiscono «ragioni incomprensibili», la multinazionale del tabacco non aveva messo in rilievo 19 dei 51 additivi testati nella presentazione dei loro risultati. «Mettere queste sostanze nelle sigarette» spiega Stanton Glantz, coordinatore dello studio californiano «aumenta la quantità di particelle sottili e di conseguenza la risposta infiammatoria. Se l’azienda avesse interpretato correttamente i suoi dati, avrebbe potuto usarli per bandire gli additivi». Sul fumo anche dall’Italia parte una campagna capitanata da Silvio Garattini, direttore dell’Istituto Mario Negri, e da Franca Fossati Bellani, presidente della Lega tumori di Milano (Lilt), che hanno inviato una lettera aperta al presidente del Consiglio Mario Monti: «Perché rinunciare all’aumento della tassazione delle sigarette che, secondo una ricerca Doxa, la maggioranza degli italiani avrebbe accolto favorevolmente?» è l’accorato appello. «Perché rinunciare a consistenti risorse e a un’azione significativa anche se non risolutiva nella lotta al fumo (in Italia sono 11 milioni i fumatori)?».
La risonanza magnetica cardiovascolare (Crm) costituisce una tecnica altamente accurata per lo studio delle coronaropatie, è superiore alla Spect e dovrebbe essere adottata subito in modo più ampio nei reparti di imaging diagnostico. È il verdetto di “Ce-Marc”, il più ampio trial prospettico di valutazione “nel mondo reale” della Cmr, compiuto da John P. Greenwood e colleghi dell’università di Leeds (UK). I ricercatori hanno coinvolto 752 pazienti con sospetta angina pectoris e almeno un fattore di rischio cardiovascolare, sottoponendoli all’esecuzione di una Cmr, una Spect e un’angiografia coronarica Rx, tecnica invasiva impiegata come standard di riferimento. L’esame Cmr ha compreso test di perfusione a riposo e sotto stress farmacologico con adenosina, cine imaging, enhancement tardivo con gadolinio, e coronarografia Rm. L’esame Spect gatizzato rest e stress con adenosina è stato svolto con (99m)Tc-tetrofosmina. Il 39% dei partecipanti ha evidenziato una malattia coronarica significativa, dimostrata mediante angiografia. La Cmr multiparametrica ha fatto registrare una sensibilità dell’86,5%, una specificità dell’83,4%, un valore predittivo positivo del 77,2% e negativo del 90,5%. I corrispondenti valori della Spect sono stati, nell’ordine, 66,5%, 82,6%, 71,4% e 79,1%. I valori di sensibilità e predittività negativa di Cmr e Spect sono dunque risultati differenti in modo significativo; non così quelli di specificità e predittività positiva.
I pazienti affetti da artrite reumatoide trattati con antagonisti del fattore di necrosi tumorale alfa (anti-Tnf-alfa) sembrano correre un rischio lievemente maggiore di sviluppare un linfoma, in particolare a cellule B. Quest’ultimo farebbe parte di una delle nuove entità diagnostiche definite dall’Oms nel 2008 come “disordini linfoproliferativi associati a immunodeficienza iatrogena”, ossia insorti in pazienti trattati con agenti immunosoppressivi per malattie autoimmuni. Il dato deriva da una meta-analisi – effettuata da Anna K. Wong, della Ucsd school of medicine di San Diego (Usa), e collaboratori – di tutti i trial randomizzati controllati, pubblicati tra il 2000 e il 2009, relativi a soggetti con artrite reumatoide trattati con farmaci biologici. In tutto hanno soddisfatto pienamente i criteri di inclusione 14 studi, per un totale di 5.179 pazienti trattati con anti-Tnf-alfa (in particolare con etanercept, adalimumab e infliximab) e 2.306 controlli. Nel gruppo controllo è stato rilevato lo sviluppo di neoplasie ematolinfoidi in 4 soggetti (0,17%), mentre tra i pazienti trattati con anti-Tnf-alfa si sono registrati 7 linfomi (0,21%). I tassi complessivi aggiustati sono risultati pari a 0,36 linfomi per 1.000 anni-persona nei pazienti non in terapia con farmaci biologici vs 1,65 linfomi per 1.000 anni-persona nei soggetti in cura con anti-Tnf-alfa. Le cifre suggeriscono pertanto un aumento della frequenza di linfomi nel gruppo trattato, anche se la differenza aggiustata fra tassi, pari a 1,29 linfomi per 1.000 persone-anno, non è statisticamente significativa.
Clin Rheumatol, 2011 Nov 18. [Epub ahead of print]
Sui farmaci di fascia C che, in base a quanto prevede la Manovra di dicembre, usciranno dalla farmacia perdendo l’obbligo di ricetta l’Aifa non pubblicherà nessuna lista, ma si limiterà a definire i criteri che guideranno la selezione. E’ quanto ha precisato l’Agenzia del farmaco in risposta alle dichiarazioni rilasciate ieri da Federfarma, il sindacato dei titolari di farmacia, nel corso del convegno organizzato a Roma sulle liberalizzazioni del governo Monti. «I farmaci che verranno “delistati” dall’Aifa» ha detto il presidente di Federfarma, Annarosa Racca «saranno parecchi, me ne sono fatta un’idea scorrendo la lista sulla base di quanto prevede la Manovra». Di qui la precisazione dell’Agenzia, affidata a una nota diffusa nel pomeriggio: «Raggiunto a margine di un incontro con il ministro della Salute Balduzzi, il direttore generale dell’Aifa Luca Pani ha precisato che l’Agenzia non produrrà ne diffonderà alcuna lista, ma sta solo lavorando ai criteri relativi ai farmaci di Fascia C che saranno disponibili nelle parafarmacie, criteri che verranno sottoposti al Ministero come previsto dalla normativa».
No a riforme “dimezzate” nelle liberalizzazioni: i farmacisti «aprano a un vero cambiamento». A chiederlo è Ignazio Marino, senatore del Pd e presidente della Commissione d’inchiesta sul Servizio Sanitario Nazionale. «Il nostro paese» sottolinea «ha bisogno di una evoluzione decisa sulle liberalizzazioni. Posso comprendere le preoccupazioni dei farmacisti e ritengo positive le aperture al confronto che si sono registrate in queste ore. Sono convinto però che dovrebbero dare la disponibilità a eliminare ciò che blocca sul serio lo sviluppo del servizio». La possibilità di tramandare la farmacia per diritto ereditario di padre in figlio, prosegue il senatore del Pd, «è un fatto evidente che però non ci possiamo più permettere: è necessario passare a un sistema moderno di libera competizione che dia a tutti i laureati in farmacia l’opportunità non solo di gestire ma anche di diventare proprietari di una farmacia». Non è d’accordo Annarosa Racca che intervenendo al convegno organizzato da Federfarma Lazio sul futuro delle farmacie, sottolinea come si debba «smetterla» con la polemica sull’ereditarietà delle farmacie, perché sono «solo circa il 20%» a livello nazionale quelle che passano di padre in figlio. «Ho fatto fare una verifica di quello che è successo a Milano e dintorni negli ultimi anni» ha spiegato «e il risultato è stato che il 70% delle farmacie sono passate attraverso transazioni commerciali, il 15% sono state vinte con concorso e solo il restante 15% è passata per via familiare». Racca ha comunque dato la disponibilità della categoria a «confrontarsi per una modernizzazione» e una maggiore «qualità del sistema», che secondo i farmacisti titolari deve passare per l’apertura di nuove farmacie, ma anche per concorsi più veloci, revisione della remunerazione delle farmacie e «riportando in farmacia» medicinali ora dispensati dagli ospedali, come quelli innovativi.
Ior e Malacalza non hanno presentato un’offerta dai notai Chiodi e Daelli entro il termine della gara per il San Raffaele, rinunciando così a rilanciare a 405 milioni di euro, cifra messa sul piatto da Giuseppe Rotelli. Quest’ultimo si aggiudica così il gruppo ospedaliero fondato da don Luigi Verzé. Si chiude in questo modo la vicenda cominciata nel febbraio del 2011 quando è esplosa la crisi finanziaria della Fondazione Monte Tabor, di cui don Verzé (scomparso il 31 dicembre scorso all’età di 91 anni) era presidente con poteri amministrativi. La crisi è dovuta a un indebitamento insostenibile: oltre all’esposizione verso le banche per circa 300 milioni, con l’ipoteca di tutti gli immobili, risulta un debito verso i fornitori dell’ordine di 500-600 milioni; il totale del debito, secondo alcune stime, supera il miliardo. La crisi peggiora con il passare dei mesi: i creditori chiedono decreti ingiuntivi per decine di milioni, visto anche il deficit di 60 milioni nel conto economico 2010. Il 23 marzo la Fondazione chiede e riceve dal consulente esterno Borghesi Colombo & Associati la formulazione di un “piano di risanamento”, secondo il quale le banche forniscono ulteriori prestiti per almeno 150 milioni, mentre gli asset aziendali vengono suddivisi in core (ospedale, ricerca e didattica) e non core come un albergo in Sardegna, piantagioni ortofrutticole in Brasile, una società neozelandese proprietaria di un aeromobile. L’accettazione del piano da parte delle banche è però condizionata dal ricambio dei vertici operativi. A giugno: la Fondazione avvia la ricerca di un partner economico forte. Si mostra interessata a intervenire anche la Santa Sede, tramite l’intermediazione di Giuseppe Profiti, presidente dell’Ospedale Bambino Gesù di Roma. Il 30 giugno il Cda della Fondazione sceglie di affidarsi al Vaticano che pochi giorni dopo insedia il nuovo consiglio di amministrazione, in cui la Santa Sede detiene la maggioranza dei posti (Profiti insieme con il presidente di Ior Ettore Gotti Tedeschi, l’ex presidente della Corte costituzionale Giovanni Maria Flick e l’imprenditore Vittorio Malacalza); del vecchio consiglio, rimane soltanto don Verzé. Il 15 settembre: la Procura di Milano valuta di chiedere il fallimento del San Raffaele. La bozza del piano di salvataggio da 250 milioni, targato Ior e Vittorio Malacalza, non sembra convincere i Pm Luigi Orsi e Laura Pedio, che, al termine di un incontro con i consulenti della Fondazione davanti al presidente del Tribunale fallimentare, Filippo Lamanna, manifestano l’intenzione di chiedere che venga accertata l’insolvenza dell’ente fondato da Don Luigi Verzè. Il 29 settembre: presentazione dell’istanza fallimentare per la Fondazione, con un’udienza fissata per il 12 ottobre. Il 31 dicembre si chiude l’asta per rilevare l’ospedale con la presentazione di una sola offerta, quella di Giuseppe Rotelli per 305 milioni, rilanciata a inizio gennaio a quota 405 milioni. Il finale è noto: vince Rotelli con 405 milioni e l’accollo di altri 320 di debiti.
Riconoscere l’attività usurante anche ai medici della continuità assistenziale e dell’emergenza territoriale-118, con i connessi benefici previdenziali. Questa la richiesta che lo Smi ha indirizzato, attraverso una lettera, al ministro del Welfare, Elsa Foriero, chiedendo un incontro per affrontare il nodo. «I medici di continuità assistenziale» è la denuncia di Giuseppina Onotri, responsabile Smi della Continuità assistenziale «lavorano, almeno 96 notti l’anno e quelli di emergenza convenzionata almeno 84 notti. Tuttavia nonostante queste caratteristiche, questi professionisti non rientrano nelle categorie previste dai i lavori usuranti, in quanto non sono dipendenti». Si tratta invece di medici che «hanno caratteristiche equiparabili ai loro colleghi ospedalieri, perché prestano il loro servizio in strutture pubbliche e con un orario stabilito dalle Asl, lavorano di notte e in condizioni di stress evidenti, a contatto con le emergenze (talvolta anche straordinarie), e purtroppo, spesso anche in condizione di scarsa agibilità dal punto di vista delle strutture e di quello della sicurezza». Per di più, con un paradosso: «All’interno della stessa postazione di emergenza, operano fianco a fianco medici dipendenti che rientrano tra le categorie del lavoro notturno e usurante e altri, solo perché parasubordinati, che ne sono esclusi. Crediamo che questa sia una palese disparità di trattamento: nei fatti abbiamo medici di Serie A, portatori di diritti, e altri di Serie B senza tutele».
Ai medici ha fruttato poco più di un miliardo di euro, ad Asl e ospedali circa 74 milioni. È la contabilità dell’intramoenia 2010 così come emerge da uno studio pubblicato da Il Sole-24 Ore Sanità sulla base dei dati che arrivano dalla Relazione 2010 della situazione economica del paese, licenziata dal ministero delle Finanze soltanto a fine dicembre. Ne emerge un bilancio che riconferma il segno meno degli ultimi anni: l’attività libero professionale è costata nel 2010 agli italiani 1,13 miliardi, per una spesa procapite di 18,64 euro. Rispetto al 2009 fa circa un milione di euro in meno, mentre se il confronto si fa con il 2007 la differenza arriva addirittura a 122 milioni. Rispetto al primo quadriennio di vita dell’intramoenia l’inversione di tendenza è netta: nel 2004 la spesa totale ammontò a 89 milioni e nei quattro anni successivi crebbe costantemente fino al miliardo e 200 milioni del 2007. Va peraltro detto che i medici la fase declinante manco l’anno sentita: nel quadriennio 2007-2010, infatti, i loro introiti sono aumentati di 59 milioni grazie all’incremento progressivo della loro quota parte, che dall’87% del 2004 è oggi salita al 94%. Significative, infine, anche le differenze regionali in termini di spesa procapite: nel 2010, gli emiliani hannoi speso in attività libero professionale 32,5 euro a testa, sette centesimi in meno dei toscani. I calabresi, invece, hanno speso in intramoenia 4,7 euro ciascuno e i molisani 5 euro.
Molti fattori di rischio, che avrebbero potuto essere riconosciuti al momento della conferma diagnostica della gravidanza, sono associati al rischio di avere bambini nati morti. Ogni elemento, però, rende conto soltanto di una piccola quota della varianza nell’ambito di questo possibile outcome. Lo ha stabilito uno studio di popolazione multicentrico caso-controllo condotto tra il 2006 e il 2008 dai ricercatori del Stillbirth collaborative research network writing group con la collaborazione di 59 ospedali statunitensi in grado di accedere ad almeno il 90% dei parti nel paese. Il team ha arruolato i residenti con almeno un parto di un bambino nato morto, e ha raccolto un campione rappresentativo di bambini nati vivi come gruppo controllo. La ricerca è stata condotta su 614 casi e 1.816 parti normali. All’analisi multivariata sono risultati associati in modo indipendente alla natimortalità un’ampia serie di fattori: l’etnia, un pregresso parto di un bambino nato morto, una condizione di nulliparità con o senza pregresse perdite del feto precedenti alle 20 settimane di gestazione, la presenza di diabete (odds ratio, Or vs assenza di diabete: 2,50), un’età della madre > 40 anni (Or vs 20-34 anni: 2,41), il gruppo sanguigno AB della madre (Or vs gruppo 0: 1,96), una storia di tossicodipendenza (Or vs nessun precedente uso di sostanze d’abuso: 2,08), l’abitudine al fumo di sigaretta nei 3 mesi precedenti la gravidanza (Or vs nessuna sigaretta: 1,55), l’obesità o il sovrappeso (Or vs normopeso: 1,72), il fatto di non convivere con un partner (Or vs convivenza con il coniuge: 1,62), la molteplicità di partner (Or vs monogamia: 4,59).
I pazienti con fibrillazione atriale hanno un significativo rischio di ictus. L’entità di tale rischio dipende dalla presenza o assenza di altre condizioni che sono state utilizzate per sviluppare degli schemi di stratificazione del rischio. Lo schema più comune è il CHADS2. Questo strumento prende in considerazione 5 variabili per la definizione dello score: Scompenso cardiaco, Ipertensione, Età >= 75 anni, Diabete, Precedente ictus o TIA –con questo ultimo dato che vale doppio. Secondo questo schema i pazienti sono stratificati in alto, medio e basso rischio, destinando alla terapia con anticoagulanti orali quelli ad alto rischio, ad anticoagulanti o aspirina quelli a rischio intermedio mentre, per quelli a basso rischio, c’è l’indicazione ad utilizzare l’aspirina. Recenti studi hanno evidenziato che per i pazienti a rischio intermedio l’uso degli anticoagulanti orali riduce il numero di eventi senza aumentare gli effetti collaterali, viceversa nei pazienti a basso rischio sembrerebbe che l’aspirina non riduca il rischio di eventi tromboembolici. Da qui la necessità di identificare i pazienti “realmente a basso rischio”, che non necessitano di terapia antitrombotica, a differenza di tutti gli altri che dovrebbero essere avviati alla terapia anticoagulante orale.
Un ampio studio di coorte è stato realizzato in Danimarca analizzando 121.280 pazienti con fibrillazione atriale non valvolare ricoverati in ospedale e non trattati con antagonisti della vitamina K nel periodo compreso fra il 1997 ed il 2006. In particolare si è voluto confrontare il valore dello schema predittivo CHADS2 con il CHA2DS2-VASc che utilizza nella valutazione anche la presenza di malattie vascolari, l’età compresa fra i 65 e i 74 anni ed il sesso. Già nel 2006 le linee guida ACC/AHA/ESC avevano considerato come fattori di rischio addizionali (anche se meno validati o più deboli) il sesso femminile, l’età compresa fra i 65 e i 74 anni, le coronaropatie e l’ipertiroidismo. Dal 2006 si sono però accumulate evidenze più forti per questi fattori di rischio (ad eccezione che per l’ipertiroidismo) per cui si è ritenuto che debbano essere utilizzate nella valutazione del rischio. L’età maggiore o uguale a 75 anni e precedenti eventi ischemici hanno un valore doppio.
I risultati di questo studio (il più ampio studio di coorte mai realizzato sulla fibrillazione atriale non valvolare) hanno portato alla conclusione che lo score CHA2DS2- VASc sia più efficace nell’identificare i pazienti ad alto, medio e basso rischio di eventi tromboembolici rispetto allo CHADS2. In particolare uno score =0 del CHA2DS2-VASc era associato ad un rischio “realmente basso” e nessuna riduzione nell’incidenza di tromboembolismo era apportata dall’utilizzo degli anticoagulanti orali, mentre ciò avveniva nei pazienti con score=1 o con score 0-1 del CHADS2. L’analisi dei dati di questo studio ha inoltre evidenziato come il peso dei vari fattori di rischio non sia uguale all’interno dello stesso score. Per esempio nello score=1 del CHADS2, l’età maggiore o uguale a 75 anni era associata ad una più alta incidenza di eventi, mentre nello score=1 del CHA2DS2-VASc si registravano più eventi nei pazienti diabetici o di età fra i 65 e i 74 anni (quelli di età superiore avevano uno score=2).
Dallo studio emerge che l’utilizzo del nuovo score CHA2DS2-VASc potrebbe semplificare la profilassi antitrombotica, perché sarà possibile discriminare tra pazienti che non ne beneficeranno, in quando a rischio realmente basso (score=0), e quelli che potrebbero trarne beneficio (score=1), considerando le limitate evidenze riguardo l’efficacia in questi casi dell’aspirina ed il potenziale rischio di sanguinamento. Infatti questo ultimo aspetto deve essere preso in considerazione nella pratica clinica assieme al rischio tromboembolico prima di decidere di iniziare una terapia anticoagulante o antiaggregante; a tal fine le linee guida Europee sulla fibrillazione atriale comprendono un nuovo schema predittivo del rischio di sanguinamento.