Nei pazienti Hiv-positivi, subito all’inizio della somministrazione di una terapia antiretrovirale si ha un aumento dei marker ossei, sia di formazione che di riassorbimento osseo. Ciò induce a ritenere utile il monitoraggio della salute ossea nei pazienti più vulnerabili (anziani, soggetti con valori elevati d Hiv-Rna o con ridotta funzione renale), in modo da intervenire proattivamente in caso di necessità. Sono le conclusioni che Emanuele Focà dell’università di Brescia, e collaboratori, hanno tratto da uno studio prospettico su 75 pazienti svolto per valutare l’evoluzione – prima e dopo la somministrazione di un regime antiretrovirale standard – del paratormone, della 1,25-(OH)2 vitamina D e di alcuni marker ossei, quali il telopeptide C-terminale del collagene di Tipo 1 (Ctx), l’osteocalcina, l’osteoprotegerina e l’attivatore del recettore del ligando nucleare fattore–kB (Rankl). I partecipanti, naïve a terapie antiretrovirali, sono stati randomizzati a un trattamento con tenofovir + emtricitabina associato ad atazanavir/ritonavir (Atv/r) oppure a efavirenz (Efv), con un follow-up di 48 settimane. Sono stati rilevati significativi aumenti di tutti i marker, fatta eccezione per Rankl. Si è evidenziata una associazione diretta e significativa tra l’incremento dei valori di Ctx e osteocalcina (marker, rispettivamente, di riassorbimento e formazione ossea). È inoltre emerso che i più elevati tassi di filtrazione glomerulare erano predittivi di maggiori aumenti di osteoprotegerina, mentre l’età avanzata, il rilievo di alti valori di Hiv-Rna al basale e il ricorso al regime Atv/r erano predittivi di un maggiore innalzamento di Ctx. Un significativo aumento del paratormone ha infine seguito l’evoluzione dei marker ossei, mentre la 1,25-(OH)2 vitamina D è rimasta stabile, al di là di una variazione stagionale.
Secondo uno studio greco condotto su 23 pazienti cirrotici con trombocitopenia, la rifaximina ha mostrato di produrre miglioramenti che potrebbero essere legati alla riduzione di endotossiemia. I ricercatori, guidati da Georgios N. Kalambokis, dell’Ospedale universitario di Ioànnina, hanno rilevato il conteggio delle piastrine, i livelli plasmatici di endotossina e i valori sierici di interleuchina-1 (Il-1), interleuchina-6 (Il-6) e fattore di necrosi tumorale á (Tnf-á) in 13 pazienti prima e dopo un trattamento di 4 settimane con 1.200 mg/die di rifaximina, in altri 10 che non hanno ricevuto alcun trattamento e, alla baseline, in ulteriori 10 pazienti cirrotici che non presentavano trombocitopenia. L’endotossina e l’Il-6 hanno evidenziato livelli più elevati nei pazienti con trombocitopenia rispetto agli altri, con valori medi che si sono attestati, rispettivamente, a 2,76 contro 0,64 EU/ml e a 24,26 vs 2,66 pg/ml. Inoltre, nei soggetti con trombocitopenia, la conta piastrinica è apparsa correlata in modo inverso con i livelli di endotossina e di Il-6, con lo score di Child-Pugh (che valuta la gravità e la prognosi della malattia epatica) e con le dimensioni della milza. Dopo il trattamento con rifaxamina, il conteggio piastrinico è aumentato in modo statisticamente significativo, in media da 83.100 a 99.600, parallelamente alla riduzione dell’endotossina (da 2,54 a 1,28 EU/ml), dell’Il-1 (da 4,4 a 3,1 pg/ml), e del Tnf-á (da 5,8 a 3,6). La conta delle piastrine è risultata correlata con la variazione dell’endotossina, dell’Il-6 e del Tnf-á.
La sindrome da intolleranza multipla a farmaci è in parte iatrogena e interessa soprattutto donne anziane in sovrappeso che fanno elevato impiego di medicinali. Si associa all’ansia ma non ad allergie IgE-mediate o patologie pericolose per la vita, e può essere gestita attraverso l’evitamento ai farmaci che danno disturbi e a una loro giudiziosa sostituzione. È la conclusione di due ricercatori (Eric Macy e Ngoc J. Ho) del Department of Allergy presso il San Diego Medical Center, in California, che hanno effettuato uno studio epidemiologico per individuare le caratteristiche comuni tra i pazienti che soffrono di allergie multiple ai farmaci. Grazie alle cartelle cliniche elettroniche registrate negli archivi dell’assicurazione sanitaria Kaiser Permanente Southern California, sono stati esaminati i dati di 2.375.424 persone che erano state sottoposte ad almeno un controllo medico e avevano una copertura sanitaria di almeno undici mesi nel corso del 2009. Il piano di salute del 20,1% dei soggetti riportava una o più volte la parola “allergia”. Coloro che avevano segnalato precedenti allergie ne avevano fatto registrare più spesso di nuove; inoltre le percentuali di nuove allergie sono risultate più elevate nelle donne rispetto agli uomini. La sindrome da intolleranza multipla ai farmaci è stata definita tale se relativa ad almeno tre classi di medicinali ed è risultata presente nel 2,1% dei casi. L’età di questi 49.582 soggetti è risultata piuttosto elevata, con una media di 62,4 anni; in gran parte si trattava di donne (84,9%) tendenzialmente sovrappeso, con un indice di massa corporea medio di 29,3. Questo gruppo di persone si caratterizzava anche per un ricorso più frequente ai farmaci e per l’abitudine di rivolgersi spesso al medico anche per condizioni non strettamente patologiche.
Il funzionamento difettoso di una proteina, che agisce come sensore per monitorare i grassi assunti con il cibo, potrebbe essere una delle cause dell’obesità e di patologie epatiche, secondo uno studio condotto da ricercatori dell’Imperial College di Londra guidati da Philippe Froguel. Si tratta della proteina Gpr120, che si trova sulla superficie delle cellule dell’intestino, del fegato, del tessuto adiposo, ed è un recettore che si lega alle molecole di acidi grassi, in particolare a quelli insaturi a lunga catena, come gli Omega-3, e che ha un ruolo critico in vari meccanismi fisiologici omeostatici, quali l’adipogenesi, la regolazione dell’appetito e la preferenza per gli alimenti. La sperimentazione effettuata ha evidenziato che i topi di laboratorio con carenza della proteina Gpr120, quando vengono alimentati con cibi ad alto contenuto di grassi, sviluppano con maggiore frequenza obesità, intolleranza al glucosio e steatosi epatica. Negli esseri umani l’espressione di Gpr120 nel tessuto adiposo è significativamente superiore nei soggetti obesi rispetto a quelli magri; ma anche chi presenta certe mutazioni nel gene che codifica per la Gpr120 tende a essere più frequentemente obeso. I ricercatori hanno analizzato il gene che codifica per la Gpr120 in 6.942 persone obese e in 7.654 individui non obesi che hanno costituito il gruppo di controllo; hanno così constatato che una mutazione genica, che provoca una disfunzione nella proteina, si associa a un incremento del 60% del rischio di obesità. La mutazione ha un effetto simile a quello prodotto da una cattiva alimentazione, in cui non vengono assunti acidi grassi omega-3 in quantità sufficiente. Si prospetta dunque un target promettente per nuovi farmaci contro l’obesità e altre malattie metaboliche.
Una quota significativa di mancata aderenza alla terapia antipertensiva ècausata da sospensioni del trattamento in seguito a una sola dispensazione di farmaco. Lo rivela uno studio di coorte retrospettivo condotto dal team di Charity D. Evans, della university of Saskatchewan, a Saskatoon (Canada); i ricercatori hanno utilizzato i dati amministrativi provinciali relativi a soggetti di età pari o superiore a 40 anni che avevano ricevuto la prescrizione di una nuova terapia antipertensiva tra il 1994 e il 2002. Nell’analisi sono stati inclusi 52.039 individui (età media: 59,4 anni; maschi: 42%). Complessivamente i soggetti non aderenti alla terapia a 1 anno sono risultati il 50%; tra questi, il 39,1% era costituito da pazienti che avevano cessato il trattamento dopo la prima prescrizione. Approssimativamente il 20% di tutti i partecipanti allo studio ha smesso di assumere qualsiasi terapia antipertensiva dopo una singola ricetta medica. Un più elevato chronic disease score e l’uso di un farmaco antidepressivo durante il periodo di osservazione di 1 anno sono apparsi associati a un maggiore rischio di cessazione del tattamento dopo la prima prescrizione. Al contrario sono risultati associati a un minore rischio in tal senso un’età più avanzata, il ricorso a frequenti visite dal medico, l’uso di statine, acido acetisalicilico, warfarin o antiiperglicemici.
Raccomandazioni utili per la gestione competente dei pazienti che manifestano perdita di capelli
L’Alopecia androgenetica (AGA) è la più comune condizione che provoca perdita di capelli e colpisce sia gli uomini che le donne. A causa della sua frequenza e della compromissione spesso significativa della vita percepita dai pazienti che ne sono affetti, richiede una consulenza competente del medico, per una corretta diagnosi e un appropriato trattamento. In generale l’AGA è una diagnosi clinica in cui l’anamnesi del paziente e la sua valutazione obiettiva possono orientare ad ulteriori test diagnostici. Considerando che sul problema della perdita dei capelli esistono poche linee guida basate sull’evidenza il Gruppo di Consenso Europeo ha deciso di formulare delle linee guida S1 (1) per la diagnosi di AGA pubblicate sul British Journal of Dermatology e delle linee guida S3 (2) per il trattamento di AGA pubblicate sul Journal of the German Society of Dermatology.
Il documento definisce AGA una progressiva miniaturizzazione non cicatriziale del follicolo pilifero con una distribuzione secondo uno schema caratteristico negli uomini e nelle donne geneticamente predisposti. Negli uomini, l’AGA mostra un modello di distribuzione tipico, ma a volte è possibile osservare nel maschio un modello femminile. Nelle donne, l’AGA si presenta tipicamente con una diffusa riduzione della densità dei capelli nelle aree frontale e centrale, ma possono essere coinvolte anche le regioni parietali ed occipitali. E’ possibile che l’AGA si manifesti nelle donne con un modello maschile. Poiché la diagnosi è clinica, vanno escluse altre malattie che possono coinvolgere il cuoio capelluto e la crescita dei capelli. Poiché esistono trattamenti selettivamente efficaci nell’AGA, come la finasteride, si può considerarne l’impiego per escludere il coinvolgimento di altre patologie con le stesse modalità di caduta dei capelli.
La prevalenza nel maschio di AGA è più elevata nella popolazione caucasica, raggiungendo l’80% negli uomini > 70 anni, rispetto al 60% nella popolazione asiatica. Mancano informazioni per gli uomini africani, mentre negli afro -americani la calvizie è 4 volte meno comune rispetto ai caucasici. La gravità della calvizie del maschio aumenta con l’aumentare dell’età in tutti i gruppi etnici, con i primi segni di profonda recessione frontale e alle tempie che si possono manifestare durante l’adolescenza anche se, nella maggior parte dei casi, l’esordio inizia successivamente. Dopo i 70 anni circa il 60% dei maschi caucasici è calvo. Anche nelle donne la frequenza e la gravità dell’AGA aumentano con l’età. I tassi di prevalenza variano dal 3-6% al di sotto dei 30 anni fino al 29-42% in donne di età > 70 anni, con una frequenza inferiore delle donne orientali rispetto alle europee. Mancano i dati sulle donne africane.
L’AGA è un tratto androgeno-dipendente che porta alla progressiva miniaturizzazione dei follicoli dei capelli negli uomini predisposti geneticamente e con un’aumentata densità dei recettori degli androgeni e/o aumento dell’attività della 5 alfa -reduttasi di tipo II. In questi soggetti i livelli circolanti di androgeni sono normali e l’analisi della famiglia mostra un aumento significativo del rischio di sviluppare AGA negli uomini con padre affetto. Attualmente le evidenze sono a sostegno della tesi che l’AGA sia un tratto poligenico, inoltre sono state riportate associazioni significative con la regione variabile del gene per il recettore degli androgeni sul cromosoma X ed è stato identificato un locus di suscettibilità sul cromosoma 20p11. Il ruolo degli androgeni nella donna è meno certo ed è possibile che le forme di AGA femminile ad esordio precoce e tardivo rappresentino due entità geneticamente distinte. Il Gruppo di Consenso Europeo ha cercato di definire un subset di donne con AGA associata ad alterazioni ormonali.
Sotto il profilo clinico, nella maggior parte degli uomini, l’AGA coinvolge la zona fronto -temporale e il vertice secondo il modello della scala di Hamilton -Norwood, mentre in alcuni casi si sviluppa un assottigliamento diffuso della corona con mantenimento dell’attaccatura frontale analoga al pattern di Ludwig osservato nelle donne. Nella donna si osservano essenzialmente 3 patterns di perdita di capelli: nel primo si evidenzia un diffuso assottigliamento della corona frontale con attaccatura conservata. Il processo viene rappresentato sia dalla scala di Ludwig (a 3 punti) che dalla scala di Sinclair (a 5 punti); il secondo vede un assottigliamento e ampliamento della parte centrale del cuoio capelluto con compromissione della linea frontale come nella scala di Olsen; nel terzo modello si assiste ad un diradamento associato a recessione bitemporale, secondo la scala di Hamilton -Norwood.
Nella valutazione clinica è fondamentale registrare quando si è verificata la prima manifestazione di caduta dei capelli e le sue caratteristiche (cronica o intermittente). I primi sintomi di AGA possono essere il prurito e la tricodinia. Spesso è presente una familiarità, anche se la sua negatività non esclude la diagnosi. Vanno escluse condizioni concomitanti come la carenza di ferro, che spesso determina perdita diffusa di capelli nelle donne, o altre cause di effluvium diffuso come infezioni gravi o disfuzioni della tiroide. E’ opportuno sondare il comportamento alimentare che, per diete carenti o rapida perdita di peso, può innescare l’effluvium diffuso. L’anamnesi farmacologica è importante perché molti farmaci possono indurre la perdita dei capelli (chemioterapici, steroidi anabolizzanti, ormoni con azione antitiroidea) Un ruolo significativo può esser giocato da alcuni stili di vita come acconciature speciali, fumo, esposizione a raggi UV. Le donne con AGA solitamente hanno una fisiologica funzione ormonale, ma questo non esclude un’attenta anamnesi ginecologica orientata a definire menarca, tipo di ciclo, presenza di menopausa, amenorrea, uso di contraccezione ormonale orale o sistemica, fertilità, gravidanze, chirurgia ginecologica, segni di iperandrogenismo. Negli adolescenti è fondamentale discriminare una perdita di capelli congenita da un’acquisita. L’AGA è una perdita di capelli di tipo acquisito con una distribuzione caratteristica e differisce dall’effluvium diffuso da fattori nutrizionali, dall’alopecia indotta o dal’ipotricosi simplex (congenita). L’AGA senza segni di pubertà precoce comunque non deve esimere dall’acquisire il parere dell’endocrinologo pediatra.
La valutazione clinica comprende l’esame del cuoio capelluto che nell’AGA di solito è normale. Può essere associata una dermatite seborroica che potenzialmente è un fattore aggravante. E’ importante la ricerca dei segni di flogosi, seborrea e di cicatrici. L’alopecia areata e l’alopecia cicatriziale possono mimare un AGA specialmente frontale. E’ possibile che il cuoio capelluto sia atrofico in AGA di lunga durata. Si raccomanda di esaminare la distribuzione dell’alopecia confrontando le aree frontale occipitale e temporale. In alcune donne con AGA è possibile osservare un’atrichia focale di pochi millimetri di diametro. Nei maschi l’AGA si presenta con una distribuzione di tipo maschile per recessione bitemporale e/o recessione e diradamento di vertice e talvolta anteriore. Nel 10% degli uomini l’AGA si presenta con un modello femminile. La distribuzione della perdita nelle donne è più diffusa, accentuata nel cuoio capelluto frontale, ma con conservazione dell’attaccatura. Le scale di valutazione più usate nella pratica clinica sono per l’uomo la scala di Hamilton -Norwood e per la donna le scale di Ludwig e di Olsen. Nella donna che consulta il medico in una fase precoce di perdita dei capelli la scala di Sinclair offre più possibilità di categorizzare la paziente rispetto alle altre scale. L’esame della peluria del viso e del corpo, la sua densità e la sua distribuzione orientano verso un’alopecia areata in assenza o netta riduzione delle ciglia e sopracciglia, reperto che può far pensare anche all’alopecia frontale fibrotica. Una crescita di peluria con distribuzione nelle aree terminali del corpo orienta all’ipertricosi etnica, o farmacologica, o all’irsutismo. Acne, seborrea e obesità sono suggestivi di iperandrogenismo. Le alterazioni ungueali possono essere presenti nell’alopecia areata, nel lichen planus e in alcune forme di carenza.
Tra gli esami di laboratorio Ferritina e TSH trovano indicazione solo se supportati dalla storia del paziente e in presenza di un effluvium diffuso. Nei maschi non c’è indicazione all’esecuzione di esami di laboratorio per la diagnosi di AGA. Nei soggetti > 45 anni è raccomandabile il dosaggio del PSA prima di iniziare la terapia con finasteride, farmaco in grado di ridurne la concentrazione sierica e potenzialmente ritardare la diagnosi in caso di neoplasia prostatica. Nelle donne non è necessario esegire un work up endocrinologico e una valutazione interdisciplinare (ginecologo, endocrinologo, dermatologo). E’ necessaria solo se esiste un sospetto clinico di eccesso di androgeni (es. s. ovaio policistico). Sono considerati solo due test di screening: il testosterone totale e la SHBG, utili per l’identificazione dell’iperandrogenismo, ricordando che i dosaggi vanno eseguiti solo in donne che non assumono ormoni come ad esempio i contraccettivi orali per almeno due mesi. Nei bambini e negli adolescenti con un’insorgenza precoce di AGA si impone un approccio multidisciplinare tra dermatologo, pediatra ed endocrinologo. Diversi test possono essere impiegati per confermare la diagnosi di AGA come il pull test, la dermatoscopia, la fotografia globale, il tricoscan, il tricogramma, la biopsia, ma l’AGA è essenzialmente una diagnosi clinica e queste linee guida offrono al medico pratico le raccomandazioni essenziali per un rapido e corretto inquadramento.
Bibliografia (1) U. Blume -Peytavi; A. Blumeyer; A. Tosti; A. Finner; V. Marmol; M. Trakatelli; P. Reygagne; A. Messenger S1 Guideline for Diagnostic Evaluation in Androgenetic Alopecia in Men, Women and Adolescents Br J Derm 2011;164(1):5 -15 (2) A. Blumeyer, A. Tosti, A. Messenger, P. Reygagne,V. del Marmol, P. I. Spuls, M. Trakatelli, A.Finner, F. Kiesewetter, R.Trüeb, B.Rzany, U. Blume -Peytavi Evidence -based (S3) guideline for the treatment of androgenetic alopecia in women and in men
Il fatto In un giudizio tra un medico specialista in dermatologia e il condominio nel quale svolgeva l’attività, la Corte d’appello di Napoli rigettava l’impugnazione proposta contro la sentenza del Tribunale, che aveva dichiarato illegittima la destinazione dell’appartamento di proprietà a suo studio professionale. Il giudice d’appello, premessa la necessità d’interpretare restrittivamente le norme del regolamento condominiale, che stabilivano divieti e imponevano limitazioni all’uso delle unità immobiliari di proprietà individuale, riteneva corretta l’interpretazione fornita dal Tribunale relativamente alla disposizione del regolamento che vietava di destinare gli appartamenti condominiali a gabinetti di diagnosi e cura di malattie infettive o contagiose, includendovi anche l’attività svolta dal sanitario, quale medico specializzato in dermatologia. Osservava, al riguardo, che la branca della dermatologia includeva anche la diagnosi e cura di malattie parassitarie, provocate da insetti, da funghi microscopici e da microbi, distinguendo, dal punto di vista epidemiologico, tra malattie infettive contagiose e malattie infettive non contagiose, e all’interno di quest’ultima categoria tra malattie altamente o scarsamente diffusive. Veniva anche richiamato un precedente della Suprema Corte, che, nel tenere distinte le malattie contagiose da quelle infettive, aveva individuato nelle prime quelle che notoriamente possono trasmettersi da un individuo all’altro mediante contatto diretto o indiretto e aveva ritenuto che queste ultime rientrassero senz’altro fra quelle di competenza dello specialista dermatologo. La Corte d’appello di Napoli perveniva così alla conclusione che, dall’espresso richiamo alle “malattie infettive o contagiose” contenuto nel regolamento condominiale, conseguisse senz’altro l’illegittimità della destinazione dell’unità immobiliare di proprietà dell’appellante a studio medico dermatologico.
Il diritto La Corte di Cassazione ha accolto il ricorso proposto dal medico, ritenendo che nella sentenza impugnata non era stato adoperato il canone interpretativo letterale in maniera conforme ai principi di legge e non sussisteva sufficiente motivazione, in ordine alla concreta destinazione dell’immobile a un uso contrario alla regola condominiale, anch’essa insufficientemente indagata.
Esito della controversia La vicenda è stata rimessa alla valutazione di altra sezione della Corte d’appello di Napoli.
Uno studio della Terza università di Pechino identifica una popolazione di donne dalla costituzione metabolica svantaggiata, più colpite da sindrome metabolica, preeclampsia e malattie cardiovascolari a lungo termine. E si evidenzia l’importanza di controllare il peso subito dopo la gravidanza
Le donne con storia di preeclampsia hanno un rischio raddoppiato di sviluppare malattie cardiovascolari (Cvd), e vi è una relazione lineare tra la gravità della preeclampsia e il rischio di malattie cardiache. La preeclampsia e le Cvd, del resto, hanno molti fattori di rischio in comune (diabete, obesità, ipertensione) che sono associati ai criteri identificativi della sindrome metabolica (Sm). Finora però non è stato chiarito il rapporto tra preeclampsia e Sm. Per sciogliere questo nodo è stato condotto da Jie Lu e colleghi della Terza università di Pechino uno studio trasversale su 62 donne con storia di preeclampsia grave subito dopo una gravidanza indice nei tre anni precedenti.
Utilizzati i criteri Ncep III 2001 e Idf 2005 Le partecipanti (di età compresa tra 27 e 45 anni) sono state sottoposte a misurazione della pressione arteriosa e degli indici di composizione corporea, oltre che di glicemia a digiuno, colesterolemia totale, Hdl e Ldl, trigliceridemia e insulinemia, ed è stato fatto loro compilare un questionario per raccogliere dati demografici, tra i quali il peso prima della gravidanza. Come criteri per la diagnosi di Sm si sono usati quelli stabiliti dal National cholesterol education program adult treatment panel III (Ncep III) nel 2001 e dall’International diabetes federation (Idf) nel 2005.
La predittività di pressione arteriosa e circonferenza vita Sulla base degli standard Ncep III e Idf sono state identificate, rispettivamente, 17 (27%) e 24 (39%) donne con Sm: valori molto al di sopra della media, che indicano come, subito dopo una gravidanza complicata da preeclampsia, le donne sono ad alto rischio di Sm. Delle 24 pazienti con Sm secondo l’Idf, 22 avevano alti livelli pressori e 15 erano ipertese. Sono risultati fattori di rischio per Sm sia il sovrappeso prima della gravidanza (odds ratio, Or: 5,00) sia il sovrappeso attuale (Or: 14,25). Il clustering di differenti componenti di Sm con la maggiore incidenza (25,81%) è risultato costituito da: obesità addominale, elevata pressione arteriosa e riduzione della colesterolemia Hdl, mentre la combinazione dei valori di pressione arteriosa e circonferenza vita è apparsa predittiva di Sm con una sensibilità del 91,67% e una specificità del 94,74%.
Il controllo del peso subito dopo la gravidanza Mettendo insieme questi dati con gli esiti di altri studi che indicano i punteggi di Sm in gravidanza predittivi di preeclampsia, i ricercatori ritengono che la vulnerabilità clinica alla Sm possa predisporre alla preeclampsia e che quest’ultima acceleri la disfunzione metabolica, portando subito dopo la gravidanza alla manifestazione della Sm stessa. Si identifica dunque una costituzione metabolica sfavorevole che può portare alcune donne a Sm, preeclampsia e Cvd a lungo termine. Per limitare l’innesco di tali associazioni, in caso di grave preeclampsia occorre controllare il peso subito dopo la gravidanza, specie in caso di pregresso sovrappeso, ed effettuare uno screening basato sulla misura di pressione arteriosa e circonferenza vita.
Fluoruro di sodio e ibandronato per via endovenosa migliorano l’osteoporosi nei pazienti con morbo di Crohn. A segnalare l’efficacia di queste due molecole è un recente studio compiuto dall’équipe di Jochen Klaus, del dipartimento di Medicina interna presso l’università di Ulm (Germania). La ricerca ha coinvolto 66 pazienti con morbo di Crohn e osteoporosi lombare (T-score < -2.5) suddivisi in due gruppi trattati con colecalciferolo (1.000 IU), citrato di calcio (800 mg) e fluoruro di sodio a rilascio sostenuto intermittente (50 mg) (gruppo A) o ibandronato i.v. 1 mg tre volte al mese (gruppo B). I pazienti sono stati sottoposti a Dexa della colonna lombare e del femore destro e a raggi X della colonna al baseline e dopo 1, 2,25 e 3,5 anni. La valutazione delle fratture ha incluso lettura visiva e morfometria quantitativa delle radiografie. Nel dettaglio, 55 pazienti (83,3%) hanno completato almeno il primo anno disponibile per l’analisi intention to treat (Itt), 42 (63,6%) il secondo e 35 (53,0%) il terzo per l’analisi per-protocollo. Il T-score lombare è aumentato di +0,23+/-0,43, +0,71+/-1,05 e +0,73+/-0,82 nel gruppo A, di +0,28+/-0.41, +0.43+/-0.55 e +0.51+/-0.74 nel gruppo B durante i follow up a 1, 2,25 e 3,5 anni. Nei 2,71 anni di follow up, con l’analisi Itt, il T-score lombare è aumentato dello +0,66+/-0,97 nel gruppo A e dello +0,46+/-0.67 in quello B. Una sola frattura vertebrale con il trattamento a base di fluoruro di sodio non è stata sufficiente per individuare differenze tra i due gruppi. Le terapie sono risultate ben tollerate e sicure.
Nei pazienti con fibrillazione atriale non valvolare (Nvaf) di età inferiore a 65 anni, il rischio di ictus/tromboembolismo viene aumentato in modo indipendente dalla presenza di scompenso cardiaco, stroke pregresso o malattia vascolare. I soggetti con Nvaf di età pari o superiore a 65 anni, invece, hanno tassi di eventi tali da giustificare comunque un’anticoagulazione orale. Come proposto con lo score Cha2Ds2-Vasc, la stratificazione del rischio tramite score Chads2 può essere migliorata aggiungendo tra i parametri l’età compresa tra 65 e 74 anni e la presenza di malattia vascolare. Sono questi, in sintesi, i risultati del Loire Valley atrial fibrillation project, coordinato da Jonas Bjerring Olesen, del centro per le Scienze cardiovascolari dell’università di Birmingham (UK). Nella ricerca sono stati coinvolti 6.438 pazienti – dei quali il 31,1% di età <65 anni – con diagnosi di Nvaf ricevuta tra il 2000 e il 2010 in una delle quattro istituzioni ospedaliere partecipanti allo studio. Tra i soggetti non scoagulati senza fattori di rischio Chads2 (n=1.035), il tasso di eventi ictus/tromboembolici per 100 anni-persona si è attestato su 0,23, 2,05 e 3,99, rispettivamente, nelle classi di età <65 anni, tra 65 e 74 anni, e =/>75 anni. Uno scompenso cardiaco, un ictus pregresso e la presenza di malattia vascolare sono risultati associati in modo significativo a un rischio maggiore di ictus/tromboembolismo, sia all’analisi univariata sia a quella multivariata; infine, l’inserimento di una patologia vascolare tra i criteri di rischio ha migliorato in modo significativo la capacità predittiva dello score Chads2 (miglioramento netto di riclassificazione, Nri: 0,40; miglioramento di discriminazione integrata, Idi: 0,031).