Storia d’infarto, nei maschi il profilo lipidico è peggiore

I giovani sani di sesso maschile con storia familiare positiva per infarto miocardico prematuro (Phpmi) hanno gli stessi livelli di lipoproteina A (LpA) delle femmine, ma un peggiore profilo lipidico. Il dato emerge da una ricerca condotta da Silvia Barra, dell’Unità cardiologica dell’ospedale Antonio Cardarelli di Napoli, e collaboratori, su coppie di fratelli e sorelle con Phmpi. Lo scopo era quello di verificare gli effetti della differenza di genere sulla concentrazione di LpA, rispetto alla quale una storia familiare di malattia coronarica esercita un influsso accertato. Sono state coinvolte 77 coppie di giovani di ambo i sessi con Phmpi ma in buona salute (età media: 18,4 e 18,1 anni, rispettivamente, per i maschi e le femmine), sottoposti a misurazione della concentrazione ematica, oltre che di LpA, di colesterolo totale, colesterolo-Ldl, colesterolo-Hdl, trigliceridi, apolipoproteina A-I e B. I livelli di LpA non sono risultati differenti tra fratelli di sesso diverso (maschi vs femmine: 0,994 vs 0,860); inoltre, la prevalenza di concentrazioni elevate di LpA (>1.071 micromol/l) tra i due sessi si è rivelata la stessa: 29,9%. Come atteso, però, rispetto alle ragazze i maschi hanno mostrato un più elevato rapporto colesterolo totale/colesterolo Hdl (3,642 vs 3,329), minori concentrazioni di colesterolo Hdl (1,221 vs 1,343 mmol/l) e Apo-I (1,390 vs 1,474 g/l) e un più basso rapporto Apo A-I/Apo B (1,632 vs 1,830).

J Cardiovasc Med, 2011; 12(7):482-6

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Chirurgia bariatrica ed eventi cardiovascolari

È opinione comune che l’obesità sia associata ad un aumentato rischio di mortalità e morbilità cardiovascolare, ma mancano delle solide evidenze: anzi in molti studi epidemiologici la perdita di peso è accompagnata ad una maggiore incidenza di eventi cardiovascolari (forse per malattie concomitanti o per errori dietetici) e nel complesso le metodiche di dimagrimento basate su stile di vita e farmaci non sono riuscite a dimostrare un reale beneficio in termini di rischio cardiovascolare. Qualche studio retrospettivo ha evidenziato invece che buoni risultati si ottengono con la chirurgia bariatrica e in base a queste considerazioni un gruppo di ricercatori ha realizzato uno studio, lo Swedish Obese Subjects (SOS) Study. Lo studio, non randomizzato, prospettico e controllato, è stato condotto in 25 dipartimenti chirurgici e 480 centri di cure primarie in Svezia. Esso ha messo a confronto in un follow-up medio di 14.7 anni gli outcome di 2.010 soggetti obesi sottoposti a chirurgia bariatrica e di 2.037 obesi sottoposti alle cure tradizionali non chirurgiche Il criterio di inclusione era un’età compresa tra 37 e 60 anni ed un BMI di almeno 34 negli uomini ed almeno 37 nelle donne. La chirurgia bariatrica consisteva nel bypass gastrico (13.2% dei casi), bendaggio (18.7%) o gastroplastica “vertical banded” (68.1%). L’end point primario era la mortalità totale. Gli end point secondari, IMA e stroke separati o combinati. I risultati nel lungo termine hanno evidenziato che la chirurgia bariatrica è associata ad un ridotto numero di morti cardiovascolari (28 vs 49; HR 0.47; 95% CI 0.29 – 0.76; p=0.02) e di eventi primari cardiovascolari fatali e non fatali (199 vs 234; HR 0.67; 95% CI 0.54 – 0.83; p<0.001). Vedi Figura allegata. Una possibile spiegazione potrebbe ricercarsi in una riduzione di peso più drastica, costante e duratura con la chirurgia, che non si riesce a ottenere solo con le diete e con le medicine.

Sjotrom L et al. JAMA 2012; 307(1): 56-65

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A proposito dell’ASA in prevenzione primaria

Dopo le recentissime meta analisi di Bartolucci e di Raju sulla relativa efficacia dell’ASA in prevenzione primaria (Bartolucci AA et al. Meta-analysis of multiple primary prevention trials of cardiovascular events using aspirin. Am J Cardiol 2011; 107(12): 1796-1801. Raju N et al. Effect of aspirin on mortality in the primary prevention of cardiovascular disease. Am J Med 2011; 124(7): 621-629), alcuni ricercatori della Clinical Lecturer in Preventative Cardiology, Cardiac and Vascular Sciences Research Centre della St George’s University of London hanno voluto verificare con un’altra metanalisi quale potesse essere in questo ambito il beneficio netto dell’ASA. Sono stati valutati gli studi controllati e randomizzati con almeno 1.000 partecipanti ciascuno che avessero messo in relazione gli end point vascolari e non vascolari con i sanguinamenti e ne sono stati selezionati 9 per un totale di più di 100.000 soggetti reclutati e seguiti per un follow up medio di 6 anni. Questi i risultati sintetizzati nelle Figure accluse

  • il trattamento con aspirina riduce gli eventi cardiovascolari totali del 10% (OR 0.90; 95% CI 0.85-0.96; con un numero necessario di pazienti da trattare per avere beneficio di 120)
  • tale risultato si esplica grazie principalmente ad una riduzione di IMA non fatale (OR 0.80, 95% CI 0.67-0.96; con un numero necessario di pazienti da trattare di 162)
  • il trattamento in prevenzione primaria non riduce però la morte cardiovascolare (OR 0.99; 95% CI 0.85-1.15) nè la mortalità per tumore (OR 0.93; 95% CI 0.84-1.03)
  • vi è stato tuttavia un aumentato rischio di eventi emorragici non banali (OR 1,31; 95% CI 1.14-1.50; con un numero necessario per procurare 1 evento emorragico di 73).

Su questa scorta gli autori concludono così: l’efficacia dell’utilizzo dell’aspirina per la prevenzione primaria degli eventi cardiovascolari non è garantita e le decisioni di trattamento devono essere considerate caso per caso.

Sreenivasa Rao Kondapally Seshasai et al. Effect of Aspirin on Vascular and Nonvascular Outcomes Meta-analysis of Randomized Controlled Trials.Arch Intern Med published online January 9, 2012 doi:10.1001/archinternmed.2011.628

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Uso appropriato dei test di diagnosi e screening

La crescita insostenibile dei costi della sanità ha posto come priorità assoluta in molti Paesi la riduzione dei costi sanitari, pur cercando di mantenere una buona qualità della assistenza. Molti sono i fattori che aumentano la spesa sanitaria: nuovi farmaci, devices, procedure varie ed esecuzione di test con tecnologie evolute. Le innovazioni biomediche sono spesso fattori chiave per migliorare gli outcome dei pazienti; tuttavia l’utilizzo di queste tecnologie mediche va effettuato in modo giudizioso valutando se i potenziali benefici giustificano i costi.

Sotto questo aspetto è essenziale operare una distinzione tra costo e valore: un intervento di costo elevato può produrre un buon valore se il beneficio netto (quando cioè il beneficio sopravanza i potenziali danni) è sufficientemente alto da giustificare il costo. Esempi di interventi costosi ma ad elevato valore sono la terapia anti-retrovirale nelle infezioni HIV o l’impianto di un ICD in pazienti ad alto rischio se in valido stato funzionale e con prognosi superiore ad 1 anno. Esempi di interventi poco costosi ma con basso valore sono il PAP test annuale rispetto a controlli ogni 3 anni in donne a basso rischio o l’esame Rx torace pre-operatorio in soggetti asintomatici e sostanzialmente sani. In definitiva occorre riflettere più sul valore degli esami che solo sul costo. Al fine di ridurre la spesa sanitaria ed evitare un sovrautilizzo o un cattivo utilizzo di test e/o trattamenti, l’American College of Physicians ha attivato un working group di internisti (di varie estrazioni specialistiche ed operanti in differenti sedi ospedaliere degli US, espressione del ‘real world‘) con l’obiettivo di identificare i più frequenti test diagnostici o di screening ritenuti sovrautilizzati in quanto di basso valore. I principi in base ai quali veniva ritenuto appropriato o inappropriato un test erano i seguenti
1) un test diagnostico non dovrebbe essere effettuato se si sa già a priori che l’esito non modificherà il trattamento (per esempio un esame Rx torace a 4 settimane dopo la diagnosi di polmonite in un paziente che ha risposto in modo clinicamente favorevole alla terapia, in quanto la risoluzione radiologica del focolaio può richiedere anche 6-8 settimane)
2) quando la probabilità pre-test di malattia è basso, la possibilità di un risultato falso positivo è più elevata di un risultato vero positivo
3) il costo reale di un test non comprende soltanto la spesa per il test stesso, ma anche quella per eventuali ulteriori esami che possono essere richiesti successivamente. 
È stata compilata una lista di ben 37 test ritenuti non in accordo con le raccomandazioni delle principali linee guida disponibili e quindi inappropriati, che tuttavia vengono spesso utilizzati nella pratica clinica. Ecco alcuni esempi di esami inappropriati

  • controlli routinari ripetuti di un ecocardiogramma in pazienti asintomatici con lieve insufficienza mitralica e normale dimensione e funzione ventricolare sinistra
  • test di imaging cerebrale (TC e/o RMN) in pazienti con sincope e regolare esame obiettivo neurologico
  • test sierologici per la malattia di Lyme in assenza di segni/sintomi specifici
  • determinazione degli anticorpi antinucleo in soggetti con sintomi non specifici (mialgie, astenia, fibromialgia)
  • controllo annuale dell’assetto lipidico in pazienti non in terapia ipo-colesterolemizzante, in assenza di possibili cause di modificazione del profilo lipidico
  • BNP nella valutazione iniziale di pazienti con chiari segni/sintomi e referti di altri esami indicativi di scompenso cardiaco.

L’obiettivo da perseguire è di identificare situazioni cliniche frequenti che offrano l’occasione di ridurre i costi (riducendo l’uso di test non necessari) migliorando o comunque non peggiorando la qualità delle cure mediche. Le tecnologie bio-mediche vanno usate se di alto valore, con la piena consapevolezza dei costi. 

Qaseem A et al. Appropriate Use of Screening and Diagnostic Test to foster High-Value, Cost-Conscious Care. Ann Intern Med 2012; 156: 147-149

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Auto-controllo glicemico poco utile se non si usa insulina

L’auto-monitoraggio della glicemia ha dimostrato di essere poco efficace sul controllo glicemico nei pazienti con diabete di tipo 2 che non utilizzano l’insulina. A questa conclusione arriva una revisione pubblicata dalla Cochrane library, su nove studi per un totale di 2.324 partecipanti, che nei primi sei mesi non hanno ottenuto alcun effetto sui livelli di HbA1c, diminuiti dello 0,26%, e la significatività non aumentava neanche dopo 12 mesi. Secondo gli autori, pertanto l’auto-monitoraggio «ha un impatto minimo sul controllo glicemico, non ha alcun impatto sul benessere generale o la qualità della vita, ed è piuttosto costoso». È stato notato che in questi pazienti erano più frequenti, rispetto al gruppo di controllo, gli episodi di ipoglicemia, un dato spiegabile, secondo gli autori, come risultato dell’utilizzo del dispositivo di autocontrollo glicemico per confermare l’ipoglicemia percepita. Inoltre, è emerso che, rispetto al monitoraggio del glucosio nelle urine, il costo era 12 volte più alto, considerando la base di nove misurazioni alla settimana (481 dollari vs 40 dollari).

Cochrane Database Syst Rev. 2012 Jan 18

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Efficacia e sicurezza dell’automonitoraggio della coagulazione

Un’analisi di Carl Heneghan e dei suoi colleghi del Department of primary care health sciences di Oxford (UK) mostra che l’auto-valutazione e auto-gestione del trattamento con anticoagulanti orali costituiscono un’opzione sicura per pazienti di qualunque età. «In accordo con precedenti revisioni sistematiche» spiega Heneghan «i nostri risultati indicano che in questo modo i pazienti possono migliorare la qualità della propria terapia anti-coagulante». Attraverso una ricerca sui principali archivi in cui vengono registrati gli studi medico-scientifici (Embase e Medline) gli autori hanno individuato in prima battuta 1.357 abstract, per poi includere nell’analisi 11 studi, per un totale di 6.417 partecipanti e 12.800 anni-persona di follow-up. Tra le persone inserite nei gruppi di auto-monitoraggio si è riportata una riduzione significativa degli eventi tromboembolici (hazard ratio, Hr: 0,51) ma non degli eventi emorragici maggiori (Hr: 0,88) o dei decessi (Hr: 0,82). Nei partecipanti di età inferiore ai 55 anni la riduzione del rischio di eventi tromboembolici è stata impressionante (Hr: 0,33) ed è stata notevole anche nei gruppi di pazienti con valvole cardiache meccaniche (Hr: 0,52). La pratica si è dimostrata sicura anche tra le persone anziane e nei 99 soggetti con età maggiore di 85 anni non si sono avuti effetti avversi di rilievo. 

Lancet, 2012; 379(9813):322-34

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Epatite B occulta legata a maggiore rischio di Hcc

Una meta-analisi delle evidenze scientifiche pubblicate in letteratura, effettuata da un gruppo di ricercatori cinesi guidati da Yu Shi – dell’università Zhejiang a Hangzhou – avvalora l’ipotesi che l’epatite B (Hbv) occulta si associ a un aumento del rischio di carcinoma epatocellulare. In un contesto in cui questa associazione era considerata controversa, l’approfondimento, pubblicato su Liver International, calcola che i soggetti con epatite C occulta hanno un rischio relativo di contrarre un tumore maligno primitivo del fegato aumentato di oltre il doppio rispetto agli altri individui. Il risultato, in particolare, deriva dall’esame di 16 trial pubblicati sull’argomento, relativi a pazienti ospedalizzati e l’associazione si è mantenuta statisticamente significativa sia negli studi retrospettivi (Or: 6,08) che prospettici (Rischio relativo: 2,86). Inoltre l’Hbv occulto ha incrementato il rischio di Hcc sia nelle popolazioni Hcv-infette (Rischio relativo: 2,83) sia in quelle non infette (Or:10,65). Allo scopo di convalidare l’affidabilità del risultato, i ricercatori cinesi hanno avviato un’ulteriore analisi dei sottogruppi stratificati per evidenziare la presenza di eventuali fattori confondenti. In questo approfondimento, l’associazione si è confermata indipendentemente dall’età, dal sesso, dal test Hbv Dna e anche dalla qualità degli studi esaminati. Gli autori sottolineano infine un’evidenza che trovano particolarmente significativa: gli individui con una concomitante presenza di anticorpi anti-HBs e anti-HBc presentano un accresciuto rischio di infezione occulta da Hbv. 

Liver Int, 2012; 32(2):231-40

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Diabete e sclerosi multipla: novità in terapia

Si semplifica la terapia dei pazienti che soffrono di diabete o di sclerosi multipla, grazie, rispettivamente, all’approvazione Fda della combinazione linagliptin-metformina e al lancio, in Italia, della formulazione orale di fingolimod. Il nuovo trattamento ipoglicemizzante, ora disponibile negli Usa in un’unica dose da assumersi due volte al giorno, è indicato in pazienti adulti affetti da diabete di tipo 2 che necessitano di un migliore controllo glicemico. Al massimo dosaggio ha dimostrato di ottenere riduzioni dell’emoglobina glicata, rispetto al placebo, sino a 1,7%. Non va invece assunto da pazienti con diabete di tipo 1 né come terapia della chetoacidosi diabetica e non è stato studiato in associazione a insulina. È, invece, già disponibile in molte regioni italiane la formulazione orale in compresse, di fingolimod per il trattamento della sclerosi multipla. I pazienti con indicazione, residenti nelle Regioni in cui il farmaco non è ancora prescrivibile presso i centri specializzati locali, potranno ottenere il farmaco parlando con il proprio clinico e con l’Aism, ma in tutto il territorio sono in corso le procedure di approvazione a livello locale, anche se resta ancora sotto osservazione dell’Ema per i suoi possibili effetti cardiovascolari. In Europa e in Italia, ha due indicazioni: «è di prima linea per pazienti con malattia aggressiva», spiega Giancarlo Comi dell’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano «e di seconda linea per persone che non hanno risposto o non rispondono più adeguatamente all’interferone». Per queste persone sarà più facile aderire alle cure, rispetto a quelle oggi in uso che richiedono una o più iniezioni al giorno.

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Il consumo di omega-3 riduce il rischio di ictus nelle anziane

Le donne anziane che consumano regolarmente alimenti fonte di omega-3, acidi grassi polinsaturi a lunga catena, riducono in modo consistente il rischio di ictus. Al contrario il rischio aumenta con un’assunzione prolungata di colesterolo dietetico. Il dato proviene da un ampio studio effettuato da Susanna C. Larsson del Karolinska Institutet di Stoccolma (Svezia) e collaboratori, su 34.670 donne (età:49-83 anni), senza malattie cardiovascolari, alle quali era stato fatto compilare un questionario, nel 1997, relativo alla frequenza dell’alimentazione. Per calcolare i rischi relativi, si sono usati modelli di regressione di Cox. A un follow-up medio di 10,4 anni, si sono accertati 1.680 eventi ictali, compresi 1.310 infarti cerebrali, 233 ictus emorragici, e 137 ictus non specificati. Dopo aggiustamento per altri fattori di rsichio, l’assunzione di acidi grassi poliinsaturi a lunga catena è risultata inversamente proporzionale al rischio di itcus complessivo. In particolare il rischio relativo di ictus totale del quintile superiore di assunzione di omega-3 rispetto a quello inferiore si è attestato a 0,84. Il colesterolo dietetico, invece, si è associato positivamente con il rischio di ictus totale (1,20) e di infarto cerebrale (1,29). Non si sono infine rilevate associazioni con l’ictus in relazione all’assuzione di grassi totali, saturi, monoinsaturi, poliinsaturi, acido alfa-linolenico, e omega-6.

Atherosclerosis, 2012 Jan 8. [Epub ahead of print]

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Warfarin e antibiotici: più rischi di sanguinamento negli anziani

Nei pazienti più anziani che fanno uso continuativo di warfarin, l’esposizione ad antibiotici – e in particolare ad antifungini azolici – si associa a un rischio maggiore di sanguinamento. È quanto deriva da uno studio caso-controllo condotto dal gruppo di Jacques Baillargeon, del dipartimento di Medicina preventiva dell’università del Texas a Galveston (Usa), su una coorte di 38.762 pazienti di età =/>65 anni in trattamento costante con warfarin. I casi sono stati definiti come pazienti immobilizzati per diagnosi primaria di sanguinamento; ognuno di questi è stato confrontato con 3 controlli paragonabili per età, etnia, genere e indicazione al warfarin. Si è poi utilizzata un’analisi di regressione logistica per calcolare gli odds ratio (Or) per il rischio di sanguinamento associato a una pregressa esposizione ad antibiotici. In generale, l’esposizione a qualsiasi antibiotico entro 15 giorni dall’evento/data indice è risultata associata a un maggiore rischio di sanguinamento (Or: 2,01). Tutte le 6 classi di antibiotici esaminate – azoli antifungini (Or: 4,57), macrolidi (Or: 1,86), chinoloni (1,69), cotrimoxazolo (Or: 2,70), penicilline (Or: 1,92) e cefalosporine (Or: 2,45) – sono risultate associate ad aumentato di rischio di sanguinamento.

Am J Med, 2012; 125(2):183-9

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