Buon anno 2012
Auguri e Felice anno 2012
da tutto lo staff del Centro Medico Athena
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Vi sono evidenze (non conclusive ma suggestive) che la lobectomia, rispetto alla resezione parziale, si associ a una maggiore sopravvivenza a lungo termine nei casi di cancro polmonare in stadio precoce. Sembra dunque confermarsi la prima tecnica come gold standard rispetto alla seconda, comunemente praticata. In ogni caso, la scelta del tipo di operazione è determinata da fattori clinici, chirurgici ed socioeconomici. Sono le conclusioni di uno studio – condotto da Sarah E. Billmeier, del Brigham and women’s hospital di Boston, e collaboratori – nel quale sono stati esaminati i fattori dipendenti dal paziente e dal chirurgo associati alla scelta tra resezione lobare o sublobare, e i relativi esiti a lungo termine. I soggetti arruolati nello studio erano pazienti con nuova diagnosi di Nsclc di stadio I o II ricevuta tra il 2003 e il 2005, seguiti per un tempo mediano di 55 mesi, fino al 2010. 155 partecipanti (23%) furono sottoposti a resezione parziale, 524 (77%) a lobectomia. Analizzando i fattori paziente-specifici, gli elementi risultati maggiormente associati alla scelta della resezione limitata sono risultati: i tumori di minori dimensioni, la copertura dei costi dai sistemi Medicare o Medicaid, l’assenza di un’assicurazione oppure la copertura assicurativa con una compagnia sconosciuta, una malattia polmonare di maggiore gravità e una storia di ictus. Secondo l’analisi delle caratteristiche del chirurgo, i fattori associati a una maggiore probabilità di resezione parziale sono stati: specializzazione in chirurgia toracica, retribuzione non a prestazione (non-fee-for-service), designazione di un centro del National cancer institute. La mortalità non aggiustata a 30 giorni è apparsa superiore con la resezione parziale rispetto alla lobectomia (7,1% vs 1,9%), mentre le complicanze postoperatorie non sono risultate diverse con l’una o l’altra tecnica. Nel corso dello studio si è reso evidente un trend statisticamente non significativo verso una migliore sopravvivenza a lungo termine dopo lobectomia, rispetto alla resezione parziale.
J Natl Cancer Inst, 2011 Sep 29. [Epub ahead of print]
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Occhio a tutto ciò che è naturale: è acquistabile facilmente dai pazienti, scevri però di nozioni su possibili interazioni con farmaci. A puntare l’attenzione su questo aspetto è Alessandro Nobili a capo del Laboratorio valutazione della qualità delle cure e dei servizi per l’anziano – dipartimento di Neuroscienze – dell’Istituto Mario Negri, nel corso di una tavola rotonda organizzata nei giorni scorsi a Milano dalla Mniaa (Mario Negri institute alumni association). «Integratori alimentari, farmaci a base di estratti vegetali, fitoterapici, miscele erboristiche, indipendentemente dalla categoria merceologica cui appartengono» ha spiegato Nobili «sono comunque prodotti dotati di una certa attività e, quasi sempre, acquistabili senza la prescrizione del medico». La pericolosità non è necessariamente intrinseca, ma può nascere proprio «dall’autogestione che ne fa il paziente» ha continuato l’esperto «senza informarne il proprio medico, associandoli a terapie farmacologiche, ignorando la possibilità di interazioni negative o reazioni avverse». Tra le segnalazioni più recenti, per esempio, l’Iperico: come induttore degli enzimi epatici riduce l’efficacia di ciclosporina e contraccettivi orali, o peggiora per effetto additivo gli effetti avversi di alcuni antidepressivi. Il Ginkgo biloba può dare emorragie perché agisce in sinergia con i farmaci antiaggreganti, mentre la Liquirizia potenzia la tossicità della digossina perché riduce i livelli di potassio nel sangue. «Sembra anche» ha aggiunto Nobili «che Ginseng, Ginkgo biloba o aglio, assunti nel periodo pre-operatorio possono aumentare il rischio di emorragie in corso d’interventi chirurgici; mentre valeriana e altri sedativi potrebbero potenziare l’azione degli anestetici». Per migliorare le conoscenze e l’uso di questi prodotti, il Centro nazionale di epidemiologia e sorveglianza e promozione della salute (Cnesps) dell’Istituto superiore di sanità (Iss) ha attivato dal 2002 un sistema di raccolta delle segnalazioni di reazioni avverse da prodotti di origine naturale. «È importante» ha sottolineato l’esperto «che tutti, medici, farmacisti e cittadini diano il loro contributo alla fitosorveglianza».
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Gli acidi eicosapentaenoico (Epa) e docosaesaenoico (Dha), entrambi contenuti negli integratori di omega-3, possiedono uguale capacità di ridurre i trigliceridi nel sangue, ma hanno effetti divergenti sulla colesterolemia-Ldl e Hdl. È quanto risulta da una revisione sistematica con metanalisi, effettuata da due ricercatori della Emory university di Atlanta (Usa), Melissa Y. Wei e Terry A. Jacobson, con lo scopo di verificare gli effetti diversificati sulle lipoproteine sieriche delle due molecole somministrate in monoterapia. Gli autori hanno preso in considerazione trial randomizzati e controllati con placebo di monoterapie con Epa (10 studi), con Dha (17), oppure basati sul confronto Epa-Dha. Rispetto al placebo, il Dha ha rivelato di causare un aumento delle Ldl pari a 7,23 mg/dL, laddove l’Epa le riduceva, seppure non in modo significativo. Negli studi di confronto diretto, il Dha è risultato determinare un aumento delle Ldl di 4,63 mg/dL in più rispetto all’Epa. E se entrambi gli acidi grassi essenziali hanno confermato il loro potere ipotrigliceridemizzante, si è comunque notato in tal senso un effetto più marcato per il Dha. Quest’ultimo, inoltre, paragonato al placebo, si è dimostrato in grado di innalzare i livelli delle Hdl di 4,49 mg/dL, mentre l’Epa non ha indotto alcuna variazione.
Curr Atheroscler Rep, 2011 Oct 6. [Epub ahead of print]
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A tutti i lettori del sito,
il Centro Medico Athena augura un Buon Natale.
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Alle donne in menopausa affette da artrite reumatoide (Ar), se sottoposte a terapia corticosteroidea <7,5 mg/die per almeno 3 mesi e con T-score < -2,0, dovrebbero essere sempre prescritti bisfosfonati e calcio/vitamina D per la prevenzione e il trattamento dell’osteoporosi. È la conclusione – coerente a quanto stabilito dalle linee guida tedesche sull’osteoporosi – di una multicentrica condotta in Germania sotto la guida di Heiner Raspe, della Clinica universitaria dello Schleswig-Holstein, a Lubecca. Lo studio ha riguardato 523 pazienti affetti da Ar (di cui 98 uomini e 434 donne) valutati – nell’arco di 2 annni – in 9 centri di reumatologia mediante assorbimetria a raggi X a doppia energia (Dxa) a livello lombare e del collo femorale. Il 29% dei soggetti aveva una normale densità minerale ossea (Bmd), il 49% mostrava osteopenia e il 22% osteoporosi. Quanto ai trattamenti, il 60% assumeva farmaci per la profilassi o la terapia dell’osteoporosi: solo calcio con vitamina D nel 38% dei casi, combinazioni principalmente calcio/vit.D e un bisfosfonato nel 20%, solo un bisfosfonato nell’1% e ormonoterapia sostitutiva nell’1%. Nonostante la frequenza dell’osteoporosi fosse simile tra maschi e femmine, le donne con Ar facevano un uso maggiore di farmaci rispetto agli uomini (63% vs 49%). Un gruppo di 101 pazienti con Ar (composto da 83 donne in menopausa, 6 in premenopausa, e da 12 uomini) era trattato con una dose giornaliera pari o inferiore a 7,5 mg di corticosteroidi per almeno 3 mesi e aveva un T-score Dxa inferiore a -2.0 in uno dei due settori anatomici esaminati. In questo gruppo, le donne in premenopausa, in menopausa e gli uomini assumevano trattamenti a base di calcio/vit.D e bisfosfonato, rispettivamente, nel 41%, 17% e 42% dei casi; percentuali che divenivano, nell’ordine, del 35%, 0% e 50% se si consideravano gli utilizzatori di calcio/vit.D. Nel 18%, 67% e 8% dei casi, infine, non effettuava profilassi o trattamento per l’osteoporosi.
Z Rheumatol. 2011 Sep 30. [Epub ahead of print]
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La presenza di frequenti vampate in menopausa si associa al rilievo di elevati livelli di proconvertina (fattore VIIc) e di antigeni dell’attivatore tissutale del plasminogeno (tPA-ag). Si ritiene pertanto che le vie dell’emostasi possano aiutare a comprendere meglio la fisiologia degli “hot flashes” e costituiscano un ponte tra questi ultimi e il rischio cardiovascolare. Lo sostengono Rebecca C. Thurston, dell’Università di Pittsburgh, e collaboratori, in uno studio longitudinale di coorte effettuato su 3.199 donne partecipanti allo Study of women’s health across the nation, di età compresa tra 42 e 52 anni al reclutamento. Obiettivo di questa ricerca: analizzare le associazioni tra vampate e/o sudori notturni, da un lato, e biomarker infiammatori e della coagulazione, dall’altro, tenendo in considerazione i fattori di rischio cardiovascolare e le concentrazioni sieriche di estradiolo. Ogni 12 mesi, per 8 anni, le donne sono state sottoposte a interviste dettagliate sulla sintomatologia (assenza di disturbi vasomotori, presenza di vampate variabile da 1 a 5 giorni oppure da 6 giorni in su nelle precedenti 2 settimane), rilevazioni fisiche (peso, altezza, pressione arteriosa) e prelievi ematici (sono stati dosati anche: proteina C-reattiva, inibitore-1 dell’attivatore del plasminogeno, fibrinogeno e glucosio). Rispetto a chi dichiarava assenza di vampate, coloro che lamentavano sintomi vasomotori sono risultate associate ai maggiori livelli sia di tPA-ag (variazione del 3,88% in caso di 1-5 giorni su 14 interessati da hot flashes, e di 4,11% nei casi di disturbi più frequenti) sia di fattore VIIc (2,13% con 6 o più giorni interessati in 2 settimane). Questi risultati non sono stati alterati dall’introduzione di correzioni per il dosaggio di estradiolo.
Menopause, 2011; 18(10):1044-51
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I Personal Computer (PC) e le cartelle cliniche elettroniche (EHR) dovrebbero consentire ai medici percorsi più facili e rapidi nei processi di diagnosi e cura. Nell’ambito dei sistemi informatici applicati alla medicina sempre di più vengono implementati dei Sistemi di Supporto alla Decisione Clinica (SSDC), che sono programmi per computer interattivi in grado di assistere direttamente i medici e altri operatori sanitari con compiti decisionali. Queste applicazioni rappresentano un potente strumento in grado di promuovere la medicina basata sull’evidenza e l’appropriatezza delle cure erogate, ma spesso l’analisi della realtà clinica si rivela molto lontana dalle premesse.
Alcuni spunti di riflessione sono riportati in un articolo apparso sul News England Journal of Medicine 1 in cui viene descritto il caso clinico di una donna di 51 anni con una sepsi da pneumococco complicata da una coagulazione intravascolare disseminata. Dieci anni prima, aveva subito la splenectomia, dopo un incidente automobilistico e non c’era alcuna prova che avesse ricevuto la vaccinazione pneumococcica dopo l’intervento chirurgico. La paziente, terminata la convalescenza, ha presentato una denuncia contro il suo medico di fiducia per malpractice .
Il caso in analisi presenta aspetti familiari e non controversi. La splenectomia chirurgica è spesso il risultato comune di un trauma e porta ad un’incidenza di sepsi variabile dal 0,9 al 4,4%. I soggetti splenectomizzati sono suscettibili di infezioni gravi da molti patogeni, tra cui il più comune è lo Streptococcus pneumoniae. La sepsi post-splenectomia ha un decorso progressivo e ingravescente, associato a coagulazione intravascolare disseminata, shock e spesso morte. Le regole di buona pratica clinica raccomandano nei soggetti splenectomizzati la somministrazione di due dosi di vaccino pneumococcico polisaccaridico purificato a 5 anni di distanza.
La EHR utilizzata dal medico della paziente disponeva di un promemoria in grado di raccomandare la vaccinazione ogni 5 anni nei soggetti splenectomizzati, ma nella cartella della paziente la splenectomia non era registrata tra i “problemi”. Questo non modificava comunque le scarse probabilità di essere vaccinata. Infatti i dati sulle EHR del sistema sanitario analizzato dagli autori era in linea con i dati disponibili in letteratura, che documentavano la vaccinazione antipneumococcica solo nel 60% dei pazienti splenectomizzati con “problema” registrato in cartella e il fallimento nel 40% dei casi dell’impatto del promemoria computerizzato. Un’ulteriore analisi del caso hanno rivelato che il medico della paziente aveva adottato la EHR un anno dopo il suo incidente automobilistico, per cui la splenectomia non avrebbe potuto essere incluso nella sua lista elettronica dei problemi. Questo ha indotto il team di controllo e verifica del caso alla analisi delle registrazioni ambulatoriali di più di 1,7 milioni di pazienti del sistema sanitario. Il termine “splenectomia” era evidenziabile in 7125 pazienti, ma non registrato come problema in 5028 pazienti (71%). Tra questi ultimi il tasso di vaccinazione pneumococcica era del 17%, rispetto al 54% tra i pazienti in cui la splenectomia era nella lista “problemi”. Quindi c’erano almeno due problemi che contribuivano a cure incomplete e interventi inappropriati: molti pazienti avevano registrata la splenectomia come problema, ma il promemoria appropriato non era stato seguito dai medici; in molti soggetti operati la splenectomia non era mai stata inserita in EHR tra i problemi.
Una soluzione potrebbe essere nell’inserimento del vaccino preoperatorio nei protocolli e nelle checklist integrate nei flussi di lavoro in modo che, quando i pazienti sono prenotati per la splenectomia elettiva, i medici possono richiedere il vaccino con due settimane di anticipo, ma comunque rimane aperto il problema di strategie post-operatorie più efficaci per chi non riesce a fare il vaccino. Un’altra possibilità potrebbe essere l’educazione e la formazione di chirurghi, ematologi, medici di famiglia e altri clinici circa l’importanza di mantenere aggiornate le liste dei problemi sulle EHR dei propri pazienti, aderendo alle raccomandazioni di vaccinazione. Infine gli autori ipotizzano la creazione di collegamenti tra le note operative dei chirurghi e le EHR dei medici di famiglia, che dovrebbero essere maggiormente attenti alle informazioni provenienti da altri operatori della rete assistenziale.
In conclusione dall’analisi del processo di cura di questo caso clinico è emerso che, sebbene la tecnologia informatica offra strumenti apparentemente semplici per risolvere problemi nell’erogazione delle cure e nel miglioramento della qualità e sicurezza dei pazienti, può essere sorprendentemente complesso riprogettare i sistemi e processi di cura, in particolare nelle loro componenti umane, per evitare gli errori più comuni. La creazione di metodi per identificare una popolazione di pazienti e fornire assistenza di alta qualità può migliorare migliorando la percezione nei medici del valore dei dati registrati nelle EHR dei propri pazienti, ma anche sviluppando sistemi di comunicazione e di trasmissione dei dati più efficaci nel mettere in condivisione tra i medici e tutti gli altri operatori sanitari le informazioni, i percorsi diagnostici e le raccomandazioni utili ad una migliore sicurezza e qualità delle cure.
Bibliografia
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Il fatto
Il direttore sanitario di una struttura privata, pur avendo svolto l’attività a titolo di collaborazione professionale, ha impugnato il licenziamento e ha chiesto l’accertamento della natura subordinata del rapporto di lavoro con la condanna del datore di lavoro alle differenze retributive.
Il diritto
Relativamente alla individuazione del rapporto di lavoro subordinato e alla distinzione di esso dal rapporto di lavoro autonomo, proprio con riferimento alla posizione del direttore sanitario di una clinica privata, è stato precisato che elemento caratterizzante è il vincolo di soggezione personale del lavoratore al potere organizzativo, direttivo e disciplinare del datore di lavoro, con conseguente limitazione della sua autonomia e inserimento nell’organizzazione aziendale, mentre altri elementi, quali l’assenza di rischio, la continuità della prestazione, l’osservanza di un orario e la forma della retribuzione, pur avendo natura meramente sussidiaria e non decisiva, possono costituire indici rivelatori della subordinazione, idonei anche a prevalere sull’eventuale volontà contraria manifestata dalla parti, ove incompatibili con l’assetto previsto dalle stesse.
Esito del giudizio
Anche la Corte di Cassazione, come i precedenti giudici di merito, ha ritenuto rigettare il ricorso proposto dal direttore sanitario.
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Tra i pazienti infettati dall’Hiv la tubercolosi (Tb) rimane un’importante causa di morte. Una delle questioni aperte riguarda la tempistica ideale dell’inizio della terapia antiretrovirale in relazione all’inizio di quella antitubercolotica. Un vasto team internazionale, coordinato da François-Xavier Blanc dell’Harvard medical school di Boston e comprendente medici cambogiani, ha condotto uno studio prospettico, randomizzato e multicentrico per rilevare gli effetti di una somministrazione precoce di antiretrovirali sulla sopravvivenza di adulti sieropositivi con difese immunitarie già molto compromesse. Lo studio, denominato Camelia, è stato effettuato tra il 2006 e il 2009 in alcuni centri ospedalieri in Cambogia, su un totale di 661 pazienti adulti Hiv-positivi non trattati in precedenza con antiretrovirali, con CD4 < 200 per mm3 e con Tb di nuova diagnosi. Dopo l’inizio della terapia standard contro la Tb, i pazienti sono stati assegnati in modo randomizzato a due gruppi trattati con stavudina, lamivudina ed efavirenz. Il primo gruppo ha iniziato l’assunzione degli antiretrovirali dopo due settimane e l’altro dopo otto settimane. Al termine di un follow-up durato mediamente 25 mesi, si è verificato che la mortalità è stata inferiore nel gruppo trattato più precocemente, con 59 decessi su 332 pazienti (18%) contro i 90 decessi su 329 (27%) verificatisi nell’altro gruppo.
N Engl J Med, 2011; 365(16):1471-81
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