Nelle donne la comparsa di artrite reumatoide può essere predetta da un ingresso precoce in menopausa. Questa evidenza proviene da uno studio condotto da un’équipe di reumatologi dell’Ospedale universitario della Scania, a Malmö (Svezia), guidata da Mitra Pikwer. Verrebbe così dimostrato l’influsso delle modificazioni ormonali in età fertile sullo sviluppo della malattia autoimmune nel periodo postmenopausale. La ricerca si è basata sui dati relativi a 30.447 individui (di cui 18.326 donne) coinvolti, tra il 1991 e il 1996, in un’indagine di carattere sanitario nella comunità. Mediante la compilazione autonoma di un questionario venivano ottenute informazioni relative alle variazioni ormonali femminili e ai fattori correlati allo stress. Le cartelle cliniche relative a persone con diagnosi di artrite reumatoide sono state sottoposte a verifica e soltanto le pazienti che soddisfacevano i criteri dell’American college of rheumatology del 1987 sono state inserite in uno studio caso-controllo (1 paziente correlato a 4 soggetti sani). L’entrata in menopausa a un’età pari o inferiore ai 45 anni è risultata associata al successivo sviluppo di artrite reumatoide, con un odds ratio pari a 2,42. Tale valore è rimasto significativo (1,92) anche dopo l’apporto di correzioni per abitudine al fumo, livello d’istruzione e durata dell’allattamento al seno.
Si calcola che negli Stati Uniti, in Giappone e in Finlandia dal 55% al 75% dei pazienti ipertesi abbia un apparecchio per la misurazione domiciliare della pressione ed ormai molti studi epidemiologici hanno dimostrato che la rilevazione domiciliare della pressione (HBPM) predice meglio della rilevazione nell’ambulatorio del medico la prognosi cardiovascolare. Inoltre è meno costosa e di più facile utilizzo della rilevazione delle 24 ore (ABPM), anche se la superiorità di quest’ultima per certe condizioni è fuori discussione. Informazioni importanti possono venire dall’HBPM anche per la variabilità pressoria che, insieme alla variabilità della frequenza cardiaca (HR), è un indice di prognosi cardiovascolare. A questo proposito, uno studio finlandese ha sfruttato il notevole numero di dati forniti dalla HBPM per valutare la variabilità pressoria e dell’HR in rapporto ai disturbi del sonno. Classificando come “short sleepers” i soggetti che dormono meno di 6 h per notte, come “long sleepers” quelli che dormono più di 9 h e considerando quelli che dormono 7-8 h come riferimento, si è visto che:
la variabilità della PA e della FC (intesa come deviazione standard dei valori mattino-sera, day-by-day, mattino day-by-day e prima-seconda misurazione) è significativamente maggiore nei pazienti con insonnia persistente rispetto a quelli senza insonnia
la variabilità mattino-sera, day-by-day, e del mattino day-by-day della pressione sistolica (PAS) è significativamente più alta nei long sleepers
la PAS mattino day-by-day, la pressione diastolica (PAD) day-by-day e la PAD prima vs seconda misurazione sono più elevate negli short sleepers
l’insonnia combinata con gli short sleepers aumenta ancora la variabilità.
Come si vede è un sistema a costo zero che può dare delle indicazioni aggiuntive sulla variabilità sia della PA che della HR che, ripetiamo, sono indicatori importanti della prognosi nei pazienti ipertesi.
Johansson JK. Journal of Hypertension 2011, 29:1897-1905
La recidiva di pericardite è probabilmente la più comune e preoccupante complicanza della pericardite acuta. Si verifica dal 10 al 30% dei casi in pazienti che abbiano avuto un primo episodio di pericardite acuta. Dopo una prima recidiva il tasso di ricorrenza può raggiunge il 50%. Le linee guida europee del 2004 raccomandano la colchicina nel trattamento della pericardite ricorrente (classe I) e nella pericardite acuta (classe II a) sulla base di studi non randomizzati (gli studi COPE e CORE erano studi open label e su pazienti provenienti da un singolo centro). Lo studio CORP, trial italiano recentemente pubblicato sugli Annals, ha valutato l’efficacia e la sicurezza di uso della colchicina aggiunta alla terapia convenzionale nella prevenzione secondaria della ricorrenza di pericardite in pazienti che abbiano già avuto una prima recidiva. Si tratta di un trial prospettico, randomizzato in doppio cieco verso placebo, che ha arruolato in quattro ospedali italiani 120 pazienti in cui l’episodio di recidiva di pericardite era documentato dalla presenza di dati clinici, laboratoristici e strumentali. I pazienti erano randomizzati a ricevere colchicina in aggiunta al trattamento convenzionale con aspirina 800-1000 mg (o 600 mg di ibuprofene) per os ogni 8 ore per 7-10 gg, con terapia a scalare per 3-4 settimane. La dose di colchicina era da 1.0 a 2.0 mg il primo giorno, seguiti da 0.5/1.0 mg/die per sei mesi. Nei pazienti con peso corporeo inferiore a 70 kg o con intolleranza alle dosi maggiori di colchicina, veniva somministrato il dosaggio inferiore (0.5 mg ogni 12 ore seguiti da 0.5 mg/die). I pazienti con intolleranza all’aspirina (allergia, ulcera peptica o rischio di sanguinamento GE) o con un inaccettabile rischio emorragico, assumevano prednisone da 0.2 a 0.5 m/kg per 4 settimane con successiva riduzione a scalare del dosaggio del farmaco. Tutti i pazienti hanno completato lo studio. A 18 mesi il tasso di recidiva era del 24% nel gruppo colchicina e del 55% nel gruppo placebo (riduzione del rischio assoluto 0.31 [95% CI, 0.13 to 0.46], riduzione del rischio relativo 0.56 [CI 0.27-0.73] con un NNT di 3. La colchicina inoltre ha ridotto la persistenza dei sintomi a 72 ore (riduzione del rischio assoluto 0.30 [CI 0.13-0.45] e riduzione del rischio relativo 0.56 [CI 0.27-0.74]) ed il numero medio delle recidive; ha inoltre aumentato il tasso di remissione alla prima settimana ed ha allungato l’intervallo di recidiva. Durante i 20 mesi di osservazione non si sono avuti casi di pericardite restrittiva. Non è noto il meccanismo specifico con cui la colchicina previene la pericardite; esso è probabilmente da collegare alle concentrazioni che il farmaco raggiunge nei leucociti e specie nei granulociti, che sono circa 16 volte superiori alle concentrazioni plasmatiche. Inoltre se la colchicina si è dimostrata efficace nella prevenzione della pericardite ricorrente è necessario chiarire se tale terapia abbia indicazione anche nella fase iniziale della pericardite acuta (a questo riguardo siamo in attesa dei dati dello studio ICAP). I criteri di esclusione dello studio CORP non consentono di estendere i risultati a pazienti con pericarditi infettive, come quelle virali. Un ultimo punto in sospeso riguarda la durata ottimale della terapia dal momento che alcuni autori, avendo descritto la comparsa di recidiva alla sospensione del farmaco, propongono una estensione della durata del trattamento fino a 12-24 mesi dopo l’ultima recidiva, personalizzandola per ciascun paziente (nei casi più gravi con lentissima riduzione dei dosaggi dei farmaci).
Imazio M. Annals of Internal Medicine 2011; 155: 409-414
Le maggiori Linee Guida, con qualche differenza, raccomandano l’uso dell’aspirina in prevenzione primaria degli eventi cardiovascolari (CV) se sussiste un rischio a 10 anni > 10% o, secondo alcune, > 20%. Numerose metanalisi non hanno però fornito dati definitivi e recentemente 3 metanalisi pubblicate da 3 gruppi, utilizzando gli stessi trials randomizzati vs placebo (9 trials), sono giunte a conclusioni non perfettamente sovrapponibili. Abbiamo provato a confrontare in una tabella questi lavori, tutti recentissimi e pubblicati su 3 riviste diverse. Bertolucci e coll. (Am J Cardiol 2011; 107: 1796-1801) hanno riscontrato che l’aspirina diminuisce il rischio di eventi CV e di IM non fatale ma non è stata riscontrata significativa riduzione di stroke, mortalità CV, mortalità totale e malattia coronarica. Berger e coll. (Am Heart J 2011; 162: 115-124.e2) sono giunti a conclusioni ancora più negative: raggruppando l’IM fatale e non fatale non hanno trovato significativa riduzione nel gruppo aspirina; l’aspirina in prevenzione primaria fornisce solo un modesto beneficio che però è controbilanciato dai suoi rischi (per ogni 1.000 soggetti trattati per un periodo di 5 anni l’aspirina previene 2.9 eventi cardiovascolari maggiori ma causa 2.9 sanguinamenti maggiori). Raju e coll (The American Journal of Medicine 2011; 124: 621-629) sono invece lievemente più ottimisti: l’aspirina in prevenzione primaria previene gli eventi CV, l’IM non fatale, lo stroke ischemico ma a prezzo di un aumento significativo dello stroke emorragico e dei sanguinamenti maggiori (occorre sottolineare che sul rischio sanguinamenti tutti gli AA sono concordi). La questione rimane aperta, anche perché un’altra metanalisi (Butalia et al. Cardiovascular Diabetology 2011; 10: 25) eseguita su pazienti diabetici non cardiopatici – utilizzando 7 dei trials presi in esame dagli altri studi – mostra una riduzione significativa del rischio di eventi cardiovascolari maggiori a fronte di un sostenibile rischio di sanguinamento; in termini assoluti, per ogni 10.000 pazienti diabetici trattati con aspirina, 109 eventi cardiovascolari maggiori possono essere evitati a fronte di 19 sanguinamenti maggiori (rimane naturalmente aperta la questione se considerare il diabete di per se stesso una condizione di malattia cardiovascolare).
Quanto emerge dai risultati dell’ARISTOTLE (Apixaban for Reduction in Stroke and Other Thromboembolic Events in Atrial Fibrillation) Trial, ponderoso Studio Multicentrico randomizzato a doppio cieco che ha coinvolto più di 18.000 pazienti con FA per un follow up medio di 1.8 anni (vedi Tabella acclusa), è molto incoraggiante: apixaban, un nuovo inibitore diretto del fattore Xa utilizzabile per via orale che non richiede il controllo coagulativo, si è dimostrato più efficace e sicuro del warfarin nel prevenire il cardioembolismo cerebrale e sistemico in questa tipologia di pazienti. Di seguito vengono riportati i risultati dello studio in estrema sintesi
il tasso di comparsa dell’outcome primario (stroke ischemico o emorragico o tromboembolismi periferici) è stato pari a
1.27% per anno nel gruppo apixaban, rispetto a
1.60% per anno nel gruppo warfarin (HR con apixaban 0.79; 95% IC 0.66-0.95, p <0.001 per non-inferiorità, p = 0.01 per superiorità)
la percentuale di sanguinamenti maggiori è stata pari a
2.13% per anno nel gruppo apixaban, rispetto a
3.09% per anno nel gruppo Warfarin (HR 0.69; IC 95% 0.60-0.80, p <0.001)
il tasso di morte per qualsiasi causa è stato pari a
3.52% e 3.94%, rispettivamente per i due trattamenti (HR 0.89; 95% CI 0.80-0.99, p = 0.047)
Il tasso di ictus emorragico è stato pari a
0.24% per anno nel gruppo apixaban, rispetto a
0.47% per anno nel gruppo warfarin (HR 0.51; 95% CI 0.35-0.75, p <0.001)
il tasso di ictus ischemico o di incerta origine è stato pari a
0.97% per anno nel gruppo apixaban
1.05% per anno nel gruppo warfarin (HR 0.92; IC 95% 0.74-1.13, p = 0.42).
Gli AA concludono che ‘nei pazienti con fibrillazione atriale, apixaban si è dimostrato superiore al warfarin nella prevenzione dell’ictus o dell’embolia sistemica ed è risultato anche più sicuro causando un numero inferiore di sanguinamenti; ha inoltre ridotto la mortalità per tutte le cause’. Molto interessanti anche le conclusioni dell’Editoriale di accompagnamento ‘Le conclusioni dell’ARISTOTLE, in concomitanza con le prove fornite dagli Studi RE-LY e ROCKET AF, suggeriscono che apixaban, dabigatran, e rivaroxaban hanno avuto risultati più lusinghieri di quelli che si erano ripromessi (sono tutti studi di non inferiorità). Nei tre grandi trials che hanno interessato diverse popolazioni di pazienti con fibrillazione atriale, gli inibitori diretti della trombina e gli inibitori del fattore Xa hanno dimostrato non solo di essere ugualmente o più efficaci del warfarin, ma anche di essere più sicuri, determinando un minor numero di sanguinamenti. Dopo tanto tempo, sembra oggi emergere una nuova era della terapia anticoagulante nei pazienti con fibrillazione atriale’.
Granger CB et al for the ARISTOTLE Committees and Investigators. Apixaban versus Warfarin in Patients with Atrial Fibrillation. NEJM August 28, 2011 (doi: 10.1056/NEJMoa1107039)
Istituita dalle Autorità sanitarie nazionali in vista dell’epidemia influenzale del 2009, la rete italiana di 14 unità di terapia intensiva, selezionate per la possibilità di trattare casi di sindrome da distress respiratorio (Ards) mediante ossigenazione extracorporea a membrana (Ecmo), è stata all’altezza del compito, garantendo un alto tasso di sopravvivenza ai pazienti con grave Ards da sospetta infezione H1N1. Il bilancio dell’attività svolta tra l’agosto del 2009 e il marzo del 2010 è fornito da un articolo firmato da Nicolò Patroniti, dell’università di Milano – Bicocca (Monza), insieme a 14 intensivisti, anestesisti e rianimatori coprotagonisti dell’esperienza del cosiddetto EcmoNet, caratterizzato da un call center nazionale e dalla capacità di indirizzare tutti i pazienti gravi nei centri della rete, con la garanzia di un trasferimento sicuro alle strutture. Nel periodo considerato, sono stati ricoverati complessivamente 153 pazienti gravemente malati con sospetta infezione da H1N1 (il 53% dei quali proveniente da altri ospedali). Di questi, 60 pazienti (49 con infezione da H1N1 confermata) sono stati sottoposti a Ecmo sulla base dei criteri stabiliti dalla commissione istitutrice di EcmoNet. In questi ultimi soggetti, la sopravvivenza fino alla dimissione ospedaliera è risultata del 68%, mentre quella entro 7 giorni dall’inizio della ventilazione meccanica si è attestata sul 77%. La durata della ventilazione meccanica precedente all’Ecmo si è dimostrata un fattore predittivo indipendente di mortalità.
L’orticaria è composta da un gruppo di malattie eterogeneo per eziologia, fattori scatenanti e presentazione clinica. L’orticaria può essere confusa con una varietà di altre malattie dermatologiche che sono simili per l’aspetto e per la presenza di prurito. Tra queste ricordiamo la dermatite atopica (eczema), le eruzioni maculo papulari da farmaci, la dermatite da contatto, le punture di insetti, l’eritema multiforme, la pitiriasi rosea. Tutte forme che il clinico esperto è in grado di distinguere, per l’aspetto distintivo delle lesioni da orticaria, per il suo intenso prurito e per la tendenza a schiarire alla compressione. L’orticaria in fase acuta è una malattia che di solito viene diagnosticata sulla base di una dettagliata storia del paziente e con l’esame obiettivo. Questi due momenti rappresentano il passaggio fondamentale per orientare verso ulteriori indagini di approfondimento diagnostico. Nei casi di orticaria acuta è possibile identificare un’eziologia specifica nel 50% dei pazienti, nei quali brevi episodi di orticaria possono essere associati temporalmente con cause identificabili e con il metodo di esposizione. Nell’orticaria cronica, che persiste per più di 6 settimane, l’identificazione eziologica è più difficile, nonostante la completezza delle procedure diagnostiche attuate. Pertanto ci troviamo di fronte a una patologia, che considerando ogni sottotipo di orticaria, ha una prevalenza life-time del 20% ed è in grado di provocare una diminuzione della qualità della vita, di influenzare le prestazioni sul lavoro e a scuola come una grave patologia allergica.
Allo scopo di migliorare l’approccio clinico di questi pazienti, un’iniziativa congiunta di esperti allergologi, immunologi clinici e dermatologi europei ha portato alla pubblicazione, su Allergy1, delle linee guida e di un documento di consenso per la gestione dei pazienti con orticaria. Si è partiti dalla bozza delle raccomandazioni, che ha tenuto conto di tutte le prove disponibili in letteratura, oltre che delle relazioni di consenso dei simposi 2000 e 2004. Questi suggerimenti sono stati poi discussi in dettaglio dai membri del board scientifico con oltre 200 specialisti internazionali, per raggiungere il consenso mediante un semplice sistema di voto sulle raccomandazioni e i passaggi decisionali di un algoritmo di gestione dell’orticaria cronica.
Il management dell’orticaria è stato affrontato considerando due aspetti iniziali entrambe basilari da considerare in ogni paziente: il primo relativo all’identificazione ed eliminazione delle cause e/o dei fattori scatenanti; il secondo rispetto a un trattamento efficace sui sintomi. Trattare la causa sarebbe l’opzione migliore, ma spesso nell’orticaria questo non è possibile nella maggior parte dei pazienti, specialmente quando l’orticaria inducibile è prevalentemente idiopatica. Evitare i fattori o gli stimoli scatenanti può essere praticabile in quei rari pazienti con un orticaria IgE mediata e in parte nelle orticarie da stimolo fisico. Ci sono poi casi selezionati di orticaria associata a processi infiammatori come l’infezione da Helicobacter Pylori, le malattie parassitarie o le intolleranze alimentari. Oppure le orticarie da stress in cui lo stress psicologico può causare o aumentare il prurito. In tutti i casi comunque dovrebbe essere considerato il trattamento dei sintomi durante la ricerca della causa di orticaria. La terapia sintomatica è attualmente l’approccio gestionale più diffuso e come e quando scegliere le opzioni terapeutiche dell’algoritmo di gestione dell’orticaria è stato il core del documento di consenso.
L’obiettivo terapeutico primario per migliorare i sintomi è quello di ridurre l’effetto dei mediatori delle mast-cell sugli organi target. Considerando che la maggior parte dei sintomi dell’orticaria sono mediati principalmente dai recettori H1 dell’istamina localizzati nelle cellule endoteliali (ponfi) e nelle fibre sensitive (rossore e prurito) è chiara l’importanza in questi casi della terapia con antistaminici. Dal documento è emersa l’indicazione a utilizzare antistaminici di nuova generazione senza effetto sedativo e privi di effetti anticolinergici, in sostituzione a quelli di prima generazione che, pur disponibili da circa 60 anni, sono fortemente non raccomandati per gli spiccati effetti anticolinergici e una prevalente azione sedativa (>12 ore) sul sistema nervoso centrale (SNC) rispetto all’effetto contro il prurito (4-6 ore). Così come è sconsigliato l’uso nella pratica clinica dell’astemizolo e della terfenadina, per i noti effetti cardiotossici in concomitanza con l’assunzione di ketoconazolo o eritromicina.
Il profilo di sicurezza raggiunto dai nuovi antistaminici (desloratidina, citerizina ecc) li pone come farmaci di prima scelta nel trattamento dell’orticaria, anche a dosaggi quattro volte superiori al dosaggio giornaliero raccomandato, permettendo un buon controllo dei sintomi nella maggior parte dei casi riscontrabili nella pratica clinica. Nei soggetti non responders vanno considerate alternative terapeutiche dopo un periodo variabile di attesa da 1 a 4 settimane. Questa variabilità è consigliabile tenendo conto che la severità dell’orticaria è fluttuante e, in ogni momento, sono possibili periodi di remissione spontanei. In caso di sintomi non controllati con H1 antistaminici è importante rivalutare la terapia in atto associando in uno step successivo gli anti-leukotrienici, che hanno dimostrato indicazioni favorevoli all’uso in recenti studi clinici randomizzati.
Gli steroidi sistemici, frequentemente usati nelle malattie allergiche, trovano un razionale d’impiego nell’orticaria acuta e nelle riacutizzazioni dell’orticaria cronica per tempi limitati non superiori a 7 giorni. Si sconsiglia fortemente l’uso prolungato di steroidi senza la supervisione di un medico specialista. L’impiego della ciclosporina, condizionata dai costi elevati e dagli effetti collaterali, non è raccomandabile come trattamento standard, ma solo in soggetti con malattia severa e refrattaria alla terapia convenzionale. Stesso approccio vale per l’Omalizumab, farmaco anti IgE, che ha dimostrato una buona efficacia in soggetti con orticaria cronica spontanea, orticaria colinergica, orticaria da freddo e solare, ma per la gestione in centri specialistici.
Infine una raccomandazione forte contro l’impiego degli antistaminici di prima generazione nei bambini e nei ragazzi. Il messaggio vuole essere particolarmente incisivo perché molti clinici ritengono che il trattamento di prima scelta in età pediatrica sia a favore degli antistaminici più vecchi perché si assume che il profilo di sicurezza di queste molecole sia conosciuto meglio rispetto a quello degli antistaminici di seconda generazione. Questo approccio non considera, che gli antistaminici di prima generazione siano stati testati con regole e un codice di buona pratica clinica molto meno stringenti degli attuali. Le raccomandazioni del panel di consenso per l’età pediatrica sono quindi le stesse degli adulti per una prima linea di trattamento con antistaminici di seconda generazione non sedativi a dosaggio corretto per il peso, ma con limitazione d’uso solo per i soggetti sopra i 6 anni. Stesse indicazioni di principio valgono per le donne in gravidanza o in allattamento dove, da una parte va’ evitato qualsiasi trattamento sistemico nel primo trimestre di gravidanza e dall’altra la donna gravida ha diritto al miglior trattamento possibile. Dai dati disponibili non ci sono report su difetti alla nascita in donne in terapia con antistaminici di seconda generazione durante la gravidanza. Considerando che questi farmaci sono utilizzati sia per la rinite che per l’orticaria si può assumere che un numero rilevante di donne abbia assunto antistaminici di seconda generazione all’inizio della gravidanza o comunque prima che questa fosse confermata. Poiché in gravidanza è obbligatorio il maggior grado di sicurezza l’indicazione all’uso di antistaminici di seconda generazione dovrebbe essere limitato alla loratadina con possibilità di estrapolarlo alla desloratadina. Quindi è importante garantire una buona qualità di vita a questi pazienti e questo obiettivo è raggiungibile attraverso una stretta collaborazione tra medico e paziente, condizione che consente di attuare, nella pratica clinica, una strategia terapeutica efficace per la risoluzione e la prevenzione dei sintomi dell’orticaria.
I costi diretti sostenuti dal Ssn italiano per l’assistenza ai pazienti diabetici sono 4 volte superiori a quelli per i non diabetici, e sono principalmente dovuti ai soggetti anziani e ospedalizzati. Il dato emerge uno studio condotto sulla popolazione residente nel capoluogo piemontese da Graziella Bruno, del dipartimento di Medicina interna dell’università di Torino, e collaboratori. Le persone affette da diabete abitanti in città sono state identificate mediante il Registro regionale del diabete e gli archivi delle dimissioni e prescrizioni ospedalieri. Queste sorgenti di dati sono state collegate ai database amministrativi per stabilire i servizi assistenziali utilizzati dalle persone diabetiche (n=33.792) e da quelle non diabetiche (n=863.123). Dall’analisi è risultato che i costi diretti stimati per persona/anno ammontano a 3.660,80 euro nel caso dei diabetici e a 895,60 euro nei non diabetici, determinando un rapporto di costo pari a 4,1. Il diabete da solo ha rappresentato l’11,4% delle spese totali per cure sanitarie. I costi sono stati attribuiti a ospedalizzazoni (57,2%), farmaci (25,6%), assistenza ai pazienti non ospedalizzati (11,9%), beni di consumo (4,4%) e cure d’emergenza (0,9%). I costi stimati aumentavano da 2.670,80 euro nelle persone diabetiche di età <45 anni a 3.724,10 euro in quelli con età >74 anni, queste ultime corrispondenti a 2/3 dell’intera coorte dei soggetti diabetici; le cifre corrisponenti per le persone non diabetiche erano 371,60 euro e 2.155,9 euro. In tutte le categorie di spesa i raporti di costo di diabetici vs non diabetici sono state più alte nelle persone <45 anni, sia nel diabete di tipo 1 sia in quello di tipo 2 trattato con insulina.
Un’elevata percentuale di pazienti ricoverati per pancreatite acuta ha fatto in precedenza uso di farmaci che possono indurre pancreatite. È quindi necessaria una maggiore consapevolezza tra i medici sulla possibilità di riscontrare una pancreatite indotta da farmaci (Dip), altrimenti inspiegabile, e agire appropriatamente sospendendo la terapia. Lo rivela uno studio osservazionale e multicentrico condotto da Hans A. Tuynman e collaboratori, del dipartimento di Gastroenterologia ed epatologia presso il Rijnstate hospital, ad Arnhem (Olanda). Questa ricerca ha preso in esame, in 168 pazienti, l’eziologia, il decorso della malattia, l’impiego di farmaci associati alla pancreatite al momento del ricovero ospedaliero e la sospensione del trattamento. Considerando l’intero campione arruolato, è emerso che 70 soggetti (41,6%) assumevano farmaci associati alla pancreatite quando sono stati ammessi in una struttura clinica. Nel 26,2% dei casi (44 pazienti), veniva impiegato almeno un farmaco di classe I associato alla pancreatite. Una probabile Dip si è evidenziata in 21 soggetti (12.5%) e in 9 di questi i farmaci prescritti sono stati sospesi, senza che in seguito si fosse manifestata una recidiva della patologia. Tra i rimanenti 12 soggetti che non hanno sospeso il trattamento e in assenza di una causa eziologica alternativa di pancreatite acuta, 8 hanno assunto un farmaco di classe I associato alla pancreatite.
Am J Gastroenterol, 2011 Sep 13. [Epub ahead of print]
Nei soggetti con diabete di tipo 2 ad alto rischio, l’inibizione piastrinica esercitata dall’acido acetilsalicilico (Asa) è potenziata se lo stesso basso dosaggio viene somministrato due volte al giorno (bid) piuttosto che una sola volta al giorno (od); ulteriori studi dovranno confermare se questi risultati laboratoristici potranno migliorare gli outcome clinici dei pazienti. Sono le conclusioni di Gaila Spectre, dell’Ospedale universitario Karolinska di Stoccolma, e collaboratori, autori di uno studio randomizzato incrociato in cui sono stati confrontati – in 25 pazienti con diabete di tipo 2 e complicanze micro- e macrovascolari – tre diversi trattamenti (della durata di 2 settimane ciascuno) basati su 75 mg di Asa od, 75 mg di Asa bid o 320 mg di Asa od. Le risposte piastriniche sono state valutate mediante aggregometria a impedenza (Wba) e il test Impact-R su sangue intero, l’aggregometria a trasmissione di luce su sangue ricco di piastrine (Lta) e il dosaggio urinario dell’11-diidro-trombossano B2 (TxM). L’Asa 75 mg bid ha diminuito l’aggregazione piastrinica indotta dall’acido arachidonico (misurata mediante Wba) in modo maggiore rispetto all’Asa 75 mg od o 320 mg od. Le risposte Wba al collagene sono risultate similmente attenuate dall’Asa bid o ad alto dosaggio. L’Impact-R ha mostrato una migliore risposta all’Asa 75 mg bid rispetto al 75 mg od, ma non al 320 mg od. L’aggregazione indotta dall’acido arachidonico valutata mediante Lta è risultata <6,5% in tutti i casi, senza differenze tra i vari dosaggi di Asa. Il TxM si è ridotto dopo la somministrazione di 320 mg di Asa od, ma non di 75 mg bid. I reticolociti sono apparsi altamente correlati con il volume piastrinico medio. Entrambi i marker di turnover piastrinico sono risultati correlati all’aggregazione indotta da acido arachidonico (Wba), ma nessuno dei due ha permesso di identificare i pazienti che beneficiavano dal dosaggio bid in modo affidabile.