Attenti ai fulmini!

Gli effetti delle scariche elettriche e i consigli per evitarli

 

L’autunno è la stagione ideale per adulti e bambini per organizzare escursioni nei boschi, scampagnate, gite in montagna o al lago ma è anche il periodo in cui più frequentemente si determinano temporali e fulmini.
I fulmini sono delle scariche elettriche che si verificano nell’atmosfera, ad alta intensità di corrente. Si originano nelle nuvole e solo nel 10% dei casi si scaricano al suolo, con potenziali effetti distruttivi su uomini e cose.
Per questo motivo, la Società Italiana di Pediatria Preventiva e Sociale (SIPPS), rielaborando le indicazioni dell’Istituto Superiore di Sanità, ha ritenuto opportuno mettere a punto alcune regole di comportamento, finalizzate alle attività che coinvolgono maggiormente i bambini e gli adolescenti. “I danni più gravi sono determinati dalla fulminazione diretta, che può provocare anche la morte – sostiene il Dottor Milazzo Pediatra del del Direttivo SIPPS Sicilia. “Se la corrente passa per il cuore, si può determinare un arresto cardiaco; se passa per i centri respiratori, un arresto della respirazione. Danni minori possono consistere in paralisi, amnesie, perdita della coscienza, danni all’udito, danni indiretti, causati da incendi o crolli”.
Ecco come comportarsi in casa o all’aperto:
– Se ci si trova all’aperto: bisogna evitare di stare sotto un albero, oppure accanto ad oggetti appuntiti o metallici, nonché accanto a strutture che potrebbero crollare, quali pali, ecc. Nei campeggi, è raccomandabile rimanere al di fuori delle tende. È sempre meglio stare rannicchiati, piuttosto che distesi, o in piedi. Grotte e anfratti costituiscono condizioni di protezione.
– Se ci si trova in prossimità di fiumi o di laghi, è pericoloso stare sulla riva, e soprattutto fare il bagno poiché l’acqua conduce bene la corrente elettrica. Inoltre bisogna ricordare che l’acqua dolce, specie se a basse temperature, rappresenta un particolare pericolo per gli annegamenti.
– Se si naviga in barca, è preferibile attraccare, oppure andare al largo, poiché le zone interessate sono solitamente circoscritte. Bisognerebbe stare lontano dall’albero e cercare di creare un collegamento diretto tra l’albero ed il mare. A pericoli analoghi è esposto chi fa il bagno a mare, o soggiorna sulla riva.
– Se si sta in casa, si è abbastanza sicuri, purché si abbia un impianto elettrico a norma. È però sempre preferibile non fare il bagno, staccare dalle prese di corrente le apparecchiature elettroniche, informatiche e gli elettrodomestici non indispensabili in quei momenti, staccare il cavo dell’antenna tv, evitare di parlare al telefono fisso e non stare accanto ai camini.
– I mezzi di trasporto (auto, roulotte, treni, funivie) sono sicuri, in quanto si comportano da “gabbia di Faraday”, scaricando la corrente al suolo. Gli aerei solitamente volano al di sopra delle nubi temporalesche.
Consigli utili per evitare spiacevoli conseguenze, fra cui una per fortuna rara ma inquietante. Una ricerca pubblicata sul Journal of Neurology, Neurosurgery and Psychiatry ha evidenziato la possibilità che si verifichino casi di sindrome del motoneurone indotte proprio da un fulmine o da un shock elettrico di altra natura.
La sindrome del motoneurone è una malattia dall’eziologia sconosciuta, progressiva, che provoca una fatale degenerazione dei neuroni con paralisi totale. Attualmente non esiste alcuna cura. Gli autori descrivono 6 casi che coinvolgono pazienti di età compresa tra i 6 e i 67 anni, ognuno dei quali vittima di uno shock elettrico (380 volts) o di fulmine. Una donna in particolare, morta dopo 2 anni dall’inizio dei sintomi, era stata colpita dalla malattia dopo 18 anni anni dall’evento elettrico. Al contrario negli altri casi i sintomi erano comparsi dopo 10 giorni o 33 mesi dall’incidente. In tutti i pazienti la malattia ”ha avuto inizio dove si era verificato lo shock, ed è progredita lentamente, per coinvolgere tutti gli arti”.

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Pre e probiotici nella sindrome dell’intestino irritabile

Nel management della sindrome dell’intestino irritabile (Ibs) alcuni probiotici mostrano un considerevole potenziale. I benefici sono probabilmente specifici per i singoli ceppi. Gli studi preliminari suggeriscono che basse dosi di prebiotici possano migliorare i sintomi di Ibs, sebbene siano necessari robusti trial clinici per la conferma. Questo il verdetto di un’analisi delle più recenti review sistematiche e dei trial clinici condotta da Kevin Whelan, del King’s college di Londra. L’aumentato rischio di Ibs conseguente a gastroenterite e la coesistenza di disbiosi, elevata produzione di gas nel lume intestinale e attivazione immunologica, indicano che i microbiota gastrointestinali possono essere un target terapeutico nella Ibs. La maggior parte delle review sistematiche sostengono che i probiotici sono dotati di un impatto benefico sui sintomi globali di Ibs, dolore addominale e flatulenza. Comunque, trial recenti rivelano che diversi probiotici possono migliorare, non avere alcun effetto o addirittura peggiorare i sintomi, confermando l’ipotesi che i benefici sono probabilmente specifici per il ceppo e il sintomo. Non sono disponibili invece trial clinici recenti sui prebiotici nella Ibs, sebbene studi precedenti indichino un potenziale beneficio a dosi più basse.

Curr Opin Clin Nutr Metab Care, 2011 Sep 1. [Epub ahead of print]

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Legame tra carie dentali ed esposizione al fumo di tabacco

Nei bambini di 10-15 anni che frequentano ambienti in cui è presente fumo di tabacco si nota un’associazione con una più elevata prevalenza di carie nella dentatura decidua e permanente. Lo dimostra uno studio descrittivo trasversale – firmato da Smara Carbajosa Garcia e Carmen Llena Puy della Agencia valenciana de salud di Valencia (Spagna) – nel quale stati esaminati 380 bambini selezionati in modo casuale (ma secondo i criteri di inclusione) sottoponendoli a indagine clinica e invitandoli a rispondere a un questionario auto-somministrato per raccogliere le opinioni dei partecipanti sul fumo di tabacco e sull’intenzione di consumarlo in futuro. Sono stati inoltre ricavati gli indici Dmf-T e df-t (relativi all’estensione della carie), gli indici di placca e gengivali ed esplorata la frequenza di esposizione al fumo, a domicilio e non. I bambini che vivevano con parenti fumatori hanno mostrato una media di deterioramento dei denti pari a 1,9 + 2,34 contro 1,03 + 1,46 di chi non viveva con fumatori. La media degli indici df e DMF per i bambini esposti e non esposti al fumo di tabacco si è attestata rispettivamente su 0,27 + 0,78 (df) e 1,62 + 2,21 (DMF) e 0,10 + 0,47 (df) e 0,92 + 1,40 (DMF).

Rev Esp Salud Publica, 2011; 85(2):217-25

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Sinoviti e osteiti nell’artrite reumatoide in remissione

Nella maggior parte dei pazienti con artrite reumatoide in remissione clinica o a basso stato di attività si ha una progressione radiografica, indicativa di processi di infiammazione subclinica (quali sinovite e osteite)  identificabili nella maggior parte dei casi solo mediante Rm, tecnica maggiormente sensibile. L’accertamento di tale fenomeno può dunque spiegare la frequente progressione clinica della malattia in tali soggetti. Queste le conclusioni di una ricerca internazionale condotta da Frédérique Gandibakhch e collaboratori, basata sui dati provenienti dagli archivi di 6 coorti provenenti da 5 centri internazionali. Sono stati selezionati 213 soggetti con artrite reumatoide in remissione clinica in accordo al Disease Activity Score28C-reactive protein (Das28-Crp < 2,6) e 81 pazienti con patologia a basso livello di attività (2,6 =/< Das28-Crp < 3,2), tutti con disponibili dati di Rm, analizzati secondo il sistema del punteggio Omeract Ra Mri (Ramris). Il 70% dei pazienti studiati era di sesso femminile, con età media pari a 55 anni, durata di malatta di 2,3 anni, Das 28-Crp pari a 2,2, Sdai (Simplified disease activity index) pari a 3,9, Cdai (Clinical disease activity index) di 3,1, positività al fattore reumatoide/peptide ciclico citrullinato 57%/54%, e presenza di erosioni radiografiche nel 66%. Erano disponibili i dati Rm riguardanti il polso e l’area metacarpofalangea, rispettivamente, in 287 e in 241 pazienti. Un’attività infiammatoria si è osservata con Rm al polso o metacarpofalangea si è osservata nella maggior parte de i pazienti (sinoviti: 95%; edema ossea/osteiti: 35%). Il punteggio medio Ramris si è attestato a 6 per le sinoviti e a 0 per le osteiti. Entrambi i processi infiammatori non erano meno frequenti nei soggetti in remissione clinica (96%/35%, nell’ordine) rispetto a quelli con bassa attività di malattia (91%/36%). Si è notato invece un trend verso una minore frequenza di osteite nei soggetti con remissioni Sdai e Cdai. 

J Rhematol, 2011; 38(9):2039-44

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Sedute ripetute di sauna (Waon Therapy) nello scompenso cardiaco

La Waon Therapy in pazienti con insufficienza cardiaca cronica migliora la tolleranza all’esercizio fisico e contribuisce a migliorare la funzione endoteliale. Queste sono le conclusioni a cui sono giunti Takashi Ohori e collaboratori che, in considerazione del fatto che ripetute sedute di sauna nota come Waon Therapy hanno dimostrato di migliorare la funzione cardiaca e la tolleranza all’esercizio fisico nei pazienti con insufficienza cardiaca cronica, hanno voluto indagare i meccanismi che ne sono alla base. A tal proposito sono stati seguiti 41 pazienti con insufficienza cardiaca cronica (età media 68.3 ± 13.5 anni) sottoposti a Waon terapia 5 volte alla settimana per 3 settimane. Prima e dopo il trattamento tutti i soggetti venivano valutati con il “6-minute walking test” e l’ecocardiogramma; venivano inoltre determinati alcuni parametri neuroumorali ed il numero di cellule CD34+ circolanti e veniva testata la funzione endoteliale mediante valutazione della vaso-dilatazione flusso-mediata (FMD). Dai dati dello studio è emerso che la Waon terapia ha aumentato la frazione di eiezione ventricolare sinistra (dal 30.4 ± 12.6% al 32.5% ± 12.8%, p=0.023), ha ridotto i livelli plasmatici di noradrenalina (da 400 ± 258 a 300 ± 187 pg/ml, p=0.015) e di peptide natriuretico cerebrale (da 550 ± 510 a 416 ± 431 pg/ml, p=0.035), ha aumentato la distanza percorsa al “6-minute walking test” (da 337 ± 120 a 379 ± 126 m, p<0.001), in associazione con un miglioramento della FMD (da 3.5 ± 2.3% al 5.5% ± 2.7%, p<0.001) e con un aumento del numero di cellule CD34+ circolanti (p=0.025). I cambiamenti ottenuti al “6-minute walking test” sono stati correlati positivamente con quelli della frazione di eiezione ventricolare sinistra e della FMD e negativamente con quelli dei livelli plasmatici di noradrenalina e dei livelli di peptide natriuretico cerebrale. Infine, da un’analisi multivariata è emerso che un aumento della FMD è stata l’unica determinante indipendente di miglioramento al “6-minute walking test”.

Ohori T. Am J Cardiol 2012; 109(1): 100-104

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Drenaggio linfatico manuale inefficace contro il linfedema

Dopo dissezione dei linfonodi ascellari per cancro mammario il drenaggio linfatico manuale in aggiunta alle regole preventive previste dalle linee-guida e all’esercizio non sembra in grado a breve termine di produrre un effetto consistente nel ridurre l’incidenza di linfedema a livello del braccio. Lo dimostra uno studio condotto da Nele Devoogdt dell’università Cattolica di Lovanio (Belgio), e collaboratori, su 160 pazienti consecutive con ca mammario sottoposte a dissezione linfonodale ascellare unilaterale. Le pazienti del gruppo d’intervento (n=79) sono state avviate a un programma che prevedeva l’applicazione delle linee-guida per la prevenzione del linfedema, esercizi terapeutici e drenaggio linfatico manuale. Il gruppo di controllo (n=81) ha intrapreso lo stesso programma ma senza il drenaggio linfatico. Gli outcomes principali dell’indagine comprendevano l’incidenza cumulativa di linfedema al braccio e il tempo di sviluppo di linfedema, definito come un aumento di 200 mL del volume dell’arto rispetto al valore precedente l’intervento. Dopo 12 mesi dalla chirurgia, il tasso di incidenza cumulativa per il linfedema del braccio è risultato comparabile nei due gruppi (24% nel braccio intervento vs 19% nei controlli) per una odds ratio pari a 1,3. Durante il primo anno dopo la chirurgia è risultato comparabile anche il tempo alla comparsa di linfedema (hazard ratio: 1,3). Il calcolo della dimensione del campione si è basata su una odds ratio presunta pari a 0,3, non inclusa nell’intervallo di confidenza del 95%. BMJ, 2011; 343:d5326

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Tos su umore e funzioni cognitive: effetti variabili

«La cessazione degli steroidi sessuali, durante la senescenza riproduttiva, ha un impatto drammatico sulle funzioni cerebrali, incidendo in modo negativo sul tono dell’umore, sulla vitalità cognitiva e sul comportamento, che diviene ansioso». A sostenerlo è Andrea R. Genazzani, dell’Università di Pisa, in una lettura plenaria al congresso di Copenhagen. «L’ormonoterapia sostitutiva (Tos) migliora i sintomi cerebrali del climaterio, ma esistono molte differenze a seconda del tipo e della dose di estrogeno, del tipo di combinazione progestinica e della via di somministrazione. Esistono prove che la terapia estrogeno-sostitutiva protegga preferenzialmente le donne sane in postmenopausa dalla riduzione cognitiva età-dipendente, riducendo il rischio di demenza». La conferma della stretta relazione tra ormoni sessuali e funzioni cognitive viene dai risultati di una studio svolto da Victor W. Henderson, della Stanford University (Usa). «Dopo somministrazione di una serie di questionari a una coorte di donne di mezza età in menopausa naturale non utilizzatrici di Tos, abbiamo riscontrato come la memoria semantica fosse associata positivamente con i livelli di estradiolo e un basso rapporto testosterone/estradiolo, inversamente associato anche alla memora episodica verbale». Torbjörn Backström, dell’Università di Umeå (Svezia), ha infine ricordato che «i metaboliti del progesterone e del testosterone sono potenti modulatori positivi del recettore Gaba-A del Snc (come gli anestetici, gli anticonvulsivanti, i sedativi e gli ansiolitici). A basse concentrazioni, però, inducono effetti avversi paradossi, con irritabilità, aggressività, dolore. È quanto capita nella fase luteinica del ciclo a causa dei progestinici dei contraccettivi orali o della Tos, o in caso di disturbo disforico premestruale». 9th Congress of the European Society of Gynecology. Copenhagen, Denmark, 8-11 September 2011

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Ovaio policistico e diabete: legame noto ma senza linee guida

«Il legame tra sindrome dell’ovaio policistico (Pcos) e insulinoresistenza, con aumentato rischio di diabete di tipo 2, è noto dal 1980, ma il meccanismo esatto non è ancora chiaro». Lo ha affermato Marianne S. Andersen, dell’Ospedale universitario Odense di Brenderup (Danimarca), in una sessione plenaria sul tema al congresso di Copenhagen. «Si sa, però, che bassi livelli di adiponectina favoriscono l’insulinoresistenza e che le pazienti con Pcos hanno appunto bassi livelli di adiponectina. Il trattamento con metformina o agonisti Ppar-alfa innalza tali livelli, favorendo l’uptake di glucosio tramite la stimolazione della glicogenosintesi nel muscolo scheletrico». «L’insulinoresistenza nella Pcos è stata correlata anche allo sviluppo di una ridotta tolleranza al glucosio» ha aggiunto Janice Rymer, del King’s College of Medicine di Londra. «In ogni caso, la sindrome nel suo complesso trae benefici dalla riduzione di peso, portando al recupero della fertilità e della salute metabolica». «Le donne con Pcos vanno considerate il più ampio segmento sottostimato di popolazione femminile a rischio di malattie cardiovascolari» ha poi sottolineato Giuseppe M. C. Rosano, dell’Irccs San Raffaele di Roma. «Non esistono però linee guida sull’argomento. In ogni caso andrebbero rilevati regolarmente il profilo lipidico a digiuno e la glicemia. Sui 30 anni andrebbe iniziato l’esame dello spessore dell’intima-media carotidea e a 45 lo screening del calcio coronarico. Infine, nel programma routinario di cura della donna con Pcos dovrebbe essere incluso il trattamento dei fattori associati di rischio cardiovascolare, quali insulinoresistenza, ipertensione e dislipidemia». «La prolungata stimolazione estrogenica dell’endometrio può portare a iperplasia endometriale che, se non trattata, può evolvere in carcinoma dell’endometrio anche in premenopausa» conclude David W. Sturdee, dell’Ospedale di Solihull (UK). «Le strategie per ridurre questo rischio comprendono la contraccezione orale, l’induzione dell’ovulazione e la terapia progestinica». 9th Congress of the European Society of Gynecology. Copenhagen, Denmark, 8-11 September 2011

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L’estrogeno naturale entra nella contraccezione orale

Il contraccettivo orale monofasico basato sull’associazione 17-beta-estradiolo/nomegestrolo acetato, sul quale ha recentemente espresso parere positivo il Chmp dell’Ema, è stato oggetto di un simposio al 9° Congresso della Società europea di ginecologia (Esg), svoltosi a Copenhagen dall’8 all’11 settembre scorsi. «Per la prima volta» spiega Andrea R. Genazzani dell’Università di Pisa e co-chairman «è impiegato l’estradiolo, ovvero l’ormone naturale prodotto dall’ovaio, insieme al nomegestrolo acetato, molecola da tempo impiegata per le patologie endometriali nella donna fertile non trattata con contraccettivi e in premenopausa o per il controllo endometriale della donna in menopausa trattata con estrogeni, ma finora mai impiegata in contraccezione orale». La combinazione, come spiega l’esperto, offre diversi vantaggi: «Innanzitutto, l’estradiolo non ha i potentissimi effetti epatici dei precedenti estrogeni. L’etinilestradiolo, di solito usato, può essere 100, 300 o 500 volte più potente dell’estradiolo, a seconda del set di enzimi epatici che lo trasformano in estradiolo di cui ogni donna è dotata, mentre l’estradiolo subisce un’inattivazione con sistemi più stabilizzati, normali per il fegato, non legati alla differenza interindividuale. Il nomegestrolo, poi, si contraddistingue per avere, oltre a un eccellente legame con il recettori per il progesterone, solo un modesto effetto antiandrogenico, considerato benefico (in relazione ad alcuni inestetismi) e non ha altre interazioni recettoriali. Clinicamente svolge soprattutto un’efficace protezione endometriale, importante per esempio nelle donne dai 35 ai 50 anni, in cui sono frequenti patologie dell’endometrio, come lo sviluppo di polipi”. Da sottolineare, ancora, che questo contraccettivo determina la presenza di una quantità minore di flusso mestruale, e di più breve durata, e che non altera i parametri lipidici, del metabolismo glucidico e della coagulazione. 9th Congress of the European Society of Gynecology. Copenhagen, Denmark, 8-11 September 2011

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Tromboembolismo e cesareo: le raccomandazioni dell’Acog

Con l’obiettivo di ridurre la mortalità materna dovuta a trombosi l’American college of obstetricians and gynecologists (Acog) raccomanda di intraprendere un intervento preventivo in tutte le donne avviate a parto cesareo. «Il parto cesareo» spiega al proposito Andra H. James, che ha collaborato alla stesura delle linee guida «è un fattore di rischio indipendente di eventi tromboembolici e quasi raddoppia il rischio cui la donna è esposta. L’impiego di device per la compressione delle gambe prima del parto è un intervento preventivo sicuro e potenzialmente efficace dal punto di vista dei costi. Questi device non dovrebbero essere rimossi fino a quando la donna è nuovamente capace di camminare o fino a quando si reinstaura l’anti-coagulazione, nel caso in cui la donna in gravidanza sia stata così trattata». La stessa gravidanza si associa a un rischio di tromboembolismo quattro volte maggiore: la terapia anti-coagulante è raccomandata nelle donne che hanno avuto un episodio acuto di tromboembolismo venoso durante la gestazione, in quelle con una storia di trombosi o nei casi in cui sia presente un significativo rischio di Vte in gravidanza o post-partum, come per esempio in presenza di trombofilie. La valutazione della paziente, in relazione al rischio tromboembolico, deve essere estesa anche nel post-partum perché i segni di allarme in alcuni casi sono già evidenti nelle prime fasi della gravidanza, in altri casi più tardivamente e anche dopo il parto.

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