Mortalit? ridotta nelle donne anziane con vitamina D3

La somministrazione di vitamina D sotto forma di colecalciferolo (vitamina D3) sembra ridurre la mortalit? nelle donne anziane ricoverate negli istituti di cura, spesso carenti della sostanza e ad alto rischio di cadute e fratture. ? questa la conclusione-chiave di una nuova revisione sistematica Cochrane, redatta da un team di esperti del Gruppo Hepato-Biliary di Copenhagen coordinati da Goran Bielakovic, ricercatore dell’universit? di Nis (Serbia). ?Una metanalisi Cochrane, pubblicata solo pochi anni fa, mostrava qualche beneficio apportato dalla somministrazione di vitamina D, ma nessun effetto sulla mortalit?? afferma Bielakovic. ?Sapevamo tuttavia che erano stati condotti pi? studi e abbiamo voluto valutare l’effetto della vitamina D aggregando tutti i dati disponibili?. Il team di ricercatori ha identificato 50 studi randomizzati, per un totale di 94.148 partecipanti (et? media: 74 anni; 79% donne) in cui la vitamina D ? stata somministrata per un periodo mediano di 2 anni a varie dosi e attraverso differenti vie di somministrazione, verso placebo o nessun intervento, sotto forma di vitamina D3, ergocalciferolo (vitamina D2), o come molecole attive alfacalcidolo o calcitriolo (rispettivamente 1alfa-idrossivitamina D o 1,25-diidrossivitamina D). ?Le nostre analisi suggeriscono che la vitamina D3 riduca la mortalit? di circa il 6%, corrispondenti a circa 161 persone da trattare per circa 2 anni al fine di salvare una vita?. Le altre forme di vitamina D, come la D2, l’alfacalcidolo e il calcitriolo, non risultano in grado di portare benefici significativi in termini di mortalit?. Gli ultimi due, anzi, se somministrati in associazione al calcio aumentano il rischio di ipercalcemia; la stessa vitamina D3, comunque, in combinazione con il calcio accresce il rischio di calcolosi renale.

Cochrane Database Syst Rev, 2011; 7:CD007470

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Albuminuria marker di rischio Cv in pazienti vasculopatici

Nei pazienti affetti da vasculopatia, modificazioni nell’albuminuria sono predittive della mortalit? e degli outcome cardiovascolari e renali, in modo indipendente dai valori basali. Ci? suggerisce che il monitoraggio dell’albuminuria costituisca un’utile strategia di supporto alla definizione del rischio cardiovascolare. ? questo l’esito di una ricerca – coordinata da Roland E. Schmieder, dell’Ospedale universitario di Erlangen (Germania) – basata su due studi multicentrici, prospettici e osservazionali, in cui un laboratorio centrale ha misurato l’albuminuria di 23.480 pazienti con malattia vascolare o diabete ad alto rischio. Aumenti pari o maggiori di due volte nell’albuminuria dal basale a 2 anni, osservati nel 28% dei casi, sono risultati associati a una mortalit? pi? elevata di quasi il 50% rispetto a pazienti con incrementi di minore entit?, dopo aggiustamento per albuminuria e pressione arteriosa basali, e altri fattori potenzialmente confondenti. Specularmente, una riduzione di due volte o pi? dell’albuminuria, riscontrata nel 21% dei pazienti, si ? associata invece a una mortalit? inferiore del 15% rispetto a chi mostrava diminuzioni meno marcate. L’aumento dell’albuminuria ? risultato anche associato in modo significativo a morte cardiovascolare, outcome cardiovascolari compositi (morte cardiovascolare, infarto miocardico, ictus, e ospedalizzazione per scompenso cardiaco), e outcome renali, tra cui dialisi o raddoppio della creatinina sierica.

J Am Soc Nephrol, 2011; 22(7):1353-64

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Statine e diabete di nuova insorgenza: ? questione di dose

Una recente meta-analisi di 13 trials randomizzati che coinvolgevano pi? di 90.000 pazienti ha evidenziato che il trattamento con dosi tradizionali di statine si associa ad un aumento del rischio di comparsa di diabete mellito quantificabile in circa il 10% in 4 anni (Sattar N et al. Statins and risk of incident diabetes: a collaborative meta-analysis of randomised statin trials. Lancet. 2010;375(9716):735-742). Una nuova meta-analisi comparsa sul numero del 21 Giugno di JAMA ha voluto verificare se tale “complicanza” fosse o no correlabile con la posologia delle statine. Per tale motivo sono stati selezionati 5 studi (complessivamente pi? di 32.000 pazienti) che confrontavano un trattamento intensivo vs una terapia con dosi “moderate” di statine per un follow up medio di quasi 5 anni. Questi i risultati (Fig. 1)
dei 2.749 pazienti che avevano sviluppato un diabete di nuova insorgenza nel corso del trattamento con statine, 1.449 erano pazienti che assumevano dosi intensive dell’ipolipemizzante vs 1.300 che erano in trattamento con dosi “moderate”; in altri termini il trattamento intensivo era gravato, rispetto a quello con dosi “moderate”, di 2 casi aggiuntivi di diabete di nuova insorgenza ogni 1.000 pazienti trattati/anno, con un OR di 1.12?
di contro, dei 6.684 pazienti che nonostante la terapia ipolipemizzante avevano manifestato eventi cardiovascolari, 3.134 appartenevano al gruppo di trattamento intensivo vs i 3.550 di quello “moderato”; come a dire che la terapia intensiva determinava la comparsa di eventi cardiovascolari in 6.5 pazienti in meno ogni 1.000 trattati intensivamente/anno con una OR di 0.84.
Si conferma quindi che l’utilizzo delle statine, specie se con dosi intensive, aumenta il rischio di comparsa di diabete anche se ? comunque utile per una prevenzione cardiovascolare globale.?

Preiss D et al. Risk of incident diabetes with intensive-dose compared with moderate-dose statin therapy: a meta-analysis. JAMA 2011 Jun 22; 305 (24): 2556-64

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Lo screening con TC torace a basse dosi riduce la mortalit? per ca del polmone?

Nell’ottobre 2010 il National Cancer Institute (NCI) annunci??che i pazienti randomizzati ad uno screening di?tomografia computerizzata (CT) a basse dosi morivano meno per cancro polmonare (CaP) dei pazienti randomizzati allo screening con una radiografia del torace (RX), la quale, anche associata all’analisi dell’escreato, si era dimostrata incapace?di prevenire la mortalit? per CaP. A giugno il NEJM ha pubblicato il primo report?del NCI?su questa procedura?effettuata su?un totale di 53.454 pazienti, di cui 26.722 assegnati random ad uno screening CT basse dosi e?26.732 all’RX?torace. I partecipanti elegibili avevano un’et? tra 55 e 74 anni e una storia di forti fumatori. Sono stati studiati per 3 anni?e quindi seguiti per 3.5 anni addizionali. L’aderenza ? stata?del 90% ed i risultati suggestivi per CaP sono stati circa 3 volte superiori nel gruppo assegnato alla TC rispetto al gruppo assegnato a RX (24.2%?vs 6.9%) ma solo dal 2 al 7% erano poi risultati essere realmente dei cancri del polmone. In sintesi, per 100.000 persone anno ci sono state

????????????????????????????? TC basse dosi ???????? Rx torace

Incidenza CaP?????? 645 (1060 CaP)?????? 572 (941 CaP)

Morti per CaP??????? 247 ?????????????????????? 309?

Quindi la riduzione relativa della mortalit? per CaP con screening TC basse dosi rispetto al gruppo RX ? stata del 20.0% (95% CI, 6.8 to 26.7; p=0.004), ed il tasso di mortalit? per ogni causa ? stato ridotto, nel gruppo TC basse dosi rispetto al gruppo RX, del 6.7% (95% CI, 1.2 to 13.6; p=0.02). I risultati sono molto incoraggianti, ma naturalmente questo studio pone varie questioni a cominciare dalla metodica?e dai criteri da?osservare nello screening non universalmente accettati. Per? ? sul rapporto costo-beneficio che si deve maggiormente riflettere: ? chiaro che ad un costo maggiore iniziale si deve contrapporre un minor costo dovuto alla precoce identificazione di Ca polmonari, ma bisogna anche tener conto dell’alta percentuale di falsi positivi,?e non bisogna trascurare altre strategie?emergenti, quali i markers molecolari nel sangue, nell’escreato, nelle urine.?

The National Lung Screening Trial Research Team: New Engl J Med 2011, June 29 10.1056/NEJMoa1102873

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Rapida efficacia di telaprevir nell’epatite C mai trattata

Nella maggior parte dei pazienti con infezione da Hcv di genotipo 1 mai trattati, la somministrazione di telaprevir pi? peginterferone (pegIfn) e ribavirina, rispetto al solo uso di pegIfn e ribavirina, migliora significativamente, in sole 24 settimane di terapia, i tassi di risposta virologica sostenuta (ossia la quota di pazienti con Hcv Rna non rilevabile 24 settimane dopo l’ultima dose pianificata del trattamento). ? questo l’esito del trial internazionale di fase 3 Advance – coordinato da Ira M. Jacobson, del Weill Cornell medical college di New York – in cui 1.088 pazienti infetti da Hcv di genotipo 1 e mai trattati sono stati randomizzati in tre gruppi di trattamento: telaprevir combinato con pegIfn alfa-2a e ribavirina per 12 settimane (gruppo T12Pr), seguite dal trattamento con solo pegIfn-ribavirina per 12 settimane se l’Rna dell’Hcv fosse risultato non rilevabile alla 4a e alla 12a settimana oppure per 36 settimane qualora l’Rna dell’Hcv fosse risultato rilevabile in qualunque momento; telaprevir con pegIfn-ribavirina per 8 settimane e placebo con pegIfn-ribavirina per 4 settimane (gruppo T8Pr), seguite da 12 o? 36 settimane di pegIfn-ribavirina? sulla base degli stessi criteri dell’Rna Hcv; placebo pi? pegIfn-ribavirina per 12 settimane, seguite da 36 settimane di pegIfn-ribavirina (gruppo Pr). Un numero significativamente maggiore di pazienti dei gruppi T12Pr o T8Pr, rispetto a quelli del gruppo Pr, ha ottenuto una risposta virologica sostenuta (endpoint primario): 75% e 69%, rispettivamente, contro il 44%. In totale il 58% dei soggetti trattati con ribavirina ? risultato eleggibile a ricevere 24 settimane di trattamento totale. Nei pazienti trattati con telaprevir, peraltro, si sono avuti con maggiore frequenza casi di anemia, effetti collaterali gastrointestinali e rash cutanei rispetto a quanti avevano ricevuto solo pegIfn-ribavirina. Il tasso globale di? discontinuazione del regime di trattamento a causa di eventi avversi si ? attestato sul 10% nei gruppi T12Pr e T8Pr e sul 7% in quello Pr.

Engl J Med, 2011; 364(25):2405-16

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Focolaio tedesco di E. coli: i meccanismi della virulenza

? stato caratterizzato il ceppo di Escherichia coli O104:H4 virulento responsabile dell’outbreak di sindrome emolitico uremica e diarrea con melena in Germania. La pericolosit? risiederebbe nell’aumento dell’aderenza all’epitelio intestinale del ceppo, che potrebbe facilitare l’assorbimento sistemico della tossina Shiga, spiegando cos? la forte progressione verso la sindrome emolitico uremica. Il focolaio dimostra che profili miscelati di virulenza tra patogeni enterici, introdotti in popolazioni suscettibili, possono determinare conseguenze estreme per le persone infette. ? la conclusione tratta da Martina Bielaszewska, dell’universit? di M?nster, e collaboratori, dopo l’analisi laboratoristica dei campioni di feci di 80 pazienti inviati al Laboratorio nazionale di consulenza per la sindrome emolitico uremica della citt? tedesca. Gli isolati sono stati sottoposti a screening mediante Pcr per i geni virulenti di E. coli produttore di tossina Shiga e per altre caratteristiche specifiche del ceppo dell’outbreak. ? cos? emerso come tutti gli isolati fossero del clone Husec041, e che presentassero i medesimi profili di virulenza, in cui erano combinati tipici loci di E. coli produttori di tossina Shiga e di E. coli enteroaggregativi, con fenotipi che portavano sia alla produzione di tossina Shiga 2 sia ad aderenza aggregativa a cellule epiteliali. Inoltre gli isolati hanno mostrato un esteso spettro beta-lattamasico, assente nel fenotipo Husec041.

Lancet Infect Dis, 2011 Jun 22. [Epub ahead of print]

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La vitamina D ha un importante ruolo protettivo nelle patologie neurologiche

In occasione del 63? Congresso dell’American Academy of Neurology (Honolulu, 9-16/4/2011) sono stati presentati diversi studi sul ruolo della vitamina D in diverse patologie neurologiche e psichiatriche. Emerge oramai chiaramente che la vitamina D si comporta come un neurosteroide in grado di regolare la neurotrasmissione. Sembra inoltre, che essa possieda anche propriet? neuroprotettive e neuroimmunomodulatrici. Va inoltre sottolineato, che i recettori cerebrali per la vitamina D sono posti in aree critiche per le funzioni cognitive quali la corteccia cerebrale e l’ippocampo. Il Framingham Offspring Study, condotto su una coorte di 1382 pazienti con et? media di 60 anni, ha evidenziato che bassi livelli di vitamina D sono associati a riduzione del volume dell’ippocampo ed a peggiori prestazioni cognitive1 . Un ulteriore studio condotto su una coorte di 5.596 pazienti di sesso femminile con et? media di 80 anni, distinta in due gruppi sulla base dell’assunzione settimanale di vitamina D (inadeguata: minore di 35 microgrammi/settimana; adeguata: maggiore o uguale di 35 microgrammi/settimana), ha dimostrato una ridotta funzione cognitiva nelle pazienti con assunzione inadeguata di vitamina D sulla base della valutazione del punteggio “Short Portable Mental State Questionnaire” (SPMSQ)2. I livelli di vitamina D sembrano anche influenzare il controllo dell’andatura. L’indagine, svolta su 411 pazienti di entrambi i sessi con et? media di 70 anni, ha dimostrato una correlazione inversa tra i livelli della vitamina ed il coefficiente di variabilit? dello “stride time” (tempo intercorrente tra l’inizio del contatto con il suolo di un piede e l’inizio del contatto successivo dello stesso piede), misura sensibile del controllo dell’andatura3. La vitamina D ha mostrato di modulare i livelli di cAMP e la produzione di citochine proinfiammatorie, chiarendo ulteriormente il suo possibile ruolo protettivo nella sclerosi multipla4. Inoltre, bassi livelli di vitamina D risultano di pi? frequente riscontro in pazienti con mielite traversa ricorrente/neuromielite ottica rispetto a soggetti con mielite traversa idiopatica5. Infine, uno studio caso-controllo retrospettivo che ha confrontato 86 pazienti colpiti da ictus ischemico acuto (et? media 69 anni) con un gruppo di pazienti senza ictus, ma con simili comorbidit?, ha dimostrato un livello di vitamina D significativamente pi? basso nei pazienti con ictus, indicando che bassi livelli di vitamina D sono da considerare possibili fattori di rischio per la patologia cerebrovascolare ischemica acuta6.
Bibliografia
1. Karakis I et al. Serum vitamin D concentrations and subclinical indices of brain aging: the Framingham Offspring Study. Neurology 2011(suppl 4):76:A2.
2. Annweiler C et al. Dietary Intake of vitamin D predict cognitive function among older community-dwellers. Neurology 2011(suppl 4):76:A5.
3. Allali G et a. The influence of vitamin D on gait control in older adults. Neurology 2011(suppl 4):76:A74.
4. Salinthone S et al. Vitamin D treatment modulates cyclic AMP levels and production of pro-inflammatory cytokines: implications for MS. Neurology 2011(suppl 4):76:A188.
5. Mealy MA et al. A comparison of vitamin D levels in patients with idiopathic TM and NMO/recurrent TM. Neurology 2011(suppl 4):76:A536.
6. Azar L et al. Vitamin D Deficiency and the risk of acute ischemic stroke. Neurology 2011(suppl 4):76:A92.

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Iud, inserimento errato abbassa efficacia

Uno studio retrospettivo statunitense condotto su un campione di donne gravide nonostante l’uso di un dispositivo intrauterino (Iud) dimostra che la presenza della spirale non ? “di per se” garanzia di efficacia anticoncezionale. Lo dimostrano i risultati di uno studio retrospettivo condotto da Elysia Moschos e Diane M. Twickler, dell’University of Texas Southwern Medical Center, su 42 donne con un’et? media di 26 anni con una storia di posizionamento di Iud e positivit? alla gonadotropina corionica nel siero al primo trimestre. Si sono avute 31 gravidanze intrauterine (Iup), 3 ectopiche e 8 a localizzazione ignota. In 36 casi ? stato visualizzato lo Iud mediante ecografia e imaging 2D: 21 dispositivi (pi? della met?) erano malposizionati. Pi? precisamente, in riferimento alle 31 Iup, 8 Iud erano all’interno dell’endometrio, 17 erano malposizionati e 6 non sono stati visualizzati. Nel complesso, un errato inserimento dello Iud ha triplicato la probabilit? di una Iup. In 20 casi si ? avuta una gravidanza a termine, in 6 si ? registrata un’interruzione entro 20 settimane, in 5 non sono disponibili gli outcome. In alcuni casi le donne hanno riportato sanguinamenti, dolore o perdita dei fili, ma i sintomi non sono stati necessariamente predittivi di malposizionamento della spirale. In base a tali evidenze, gli autori consigliano l’esecuzione di un controllo ecografico (non effettuato routinariamente) subito dopo il posizionamento e, in seguito, una volta all’anno, per confermare la giusta collocazione del dispositivo intrauterino.

Am J Obstet Gynecol, 2011; 204(5):427.e1-6

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Emicrania correlata al ciclo, triptani a confronto

L’emicrania correlata alle mestruazioni (Mrm) ? una condizione dolorosa particolarmente difficile da trattare, cui si associano spesso disabilit? di vario genere. Uno studio multicentrico, randomizzato, incrociato e in doppio cieco, condotto da ricercatori italiani guidati da Gianni Allais, del Centro delle cefalee femminili dell’universit? di Torino, e Gennaro Bussone, dell’Istituto Neurologico Besta di Milano, e ha messo a confronto due triptani – frovatriptan e zolmitriptan – per valutarne efficacia e tollerabilit?. Il trial ha coinvolto un sottogruppo di 76 donne con mestruazioni regolari che assumeva le due molecole per il trattamento degli attacchi di emicrania correlati al ciclo mestruale. In sequenza randomizzata, ogni paziente ha assunto 2,5 mg di frovatriptan o 2,5 mg di zolmitriptan; dopo aver trattato con il primo farmaco tre episodi di emicrania in un periodo non superiore ai tre mesi, ogni paziente ha ricevuto l’altro farmaco. Sono stati cos? affrontati 73 attacchi di Mrm con frovatriptan e 65 con zolmitriptan. Il tasso di attenuamento del dolore dopo 2 ore ? stato del 52% con frovatriptan e del 53% con zolmitriptan, mentre la risoluzione completa del dolore dopo 2 ore ? stata ottenuta rispettivamente nel 22% e nel 26% dei casi. Dopo 24 ore, il 74% delle pazienti trattate con frovatriptan non avvertiva pi? alcun dolore (nell’83% si ? invece riscontrato un attenuamento del dolore); nel gruppo zolmitriptan le percentuali sono state, rispettivamente, del 69% e 82%. Infine, le recidive dopo 24 ore sono risultate significativamente inferiori con frovatriptan rispetto a zolmitriptan (15% versus 22%). Ambedue le molecole, concludono gli esperti, sono efficaci per il trattamento immediato degli attacchi, ma frovatriptan ? caratterizzato anche da un minore tasso di recidive e quindi da un effetto pi? sostenuto nel tempo.

Neurol Sci, 2011; 32 Suppl 1:S99-104

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Arterie rigide se cala l’area ossea corticale

Indipendentemente dall’et? e da altri fattori di rischio, nelle donne la rigidit? delle arterie risulta inversamente correlata all’area ossea corticale. In questo momento, per?, i pathways di segnalazione e molecolari specifici per il sesso che regolano l’interazione tra osso e arterie centrali non sono ancora stati completamente chiariti. A tali conclusioni giungono Francesco Giallauria, dell’universit? Federico II di Napoli, e collaboratori dopo un’analisi trasversale dei dati di 321 uomini (et? media: 68 anni) e 312 donne (et? media: 65 anni), arruolate dal Baltimore longitudinal study of aging. La rigidit? delle arterie ? stata valutata attraverso la velocit? di propagazione dell’onda di polso (Pwv) carotideo-femorale e l’area ossea corticale trasversale (cCsa) ? stata misurata tramite tomografia computerizzata a livello della porzione media della tibia. L’et? ? risultata correlata in modo significativo con Pwv negli uomini e nelle donne. In queste ultime, ma non negli uomini, l’et? ? apparsa associata anche con cCsa. L’analisi di regressione lineare aggiustata in base all’et? ha evidenziato una significativa correlazione inversa tra Pwv e cCsa, ma solo nelle donne. Questa associazione si ? mantenuta significativa nelle donne dopo aggiustamento per et?, pressione arteriosa media, obesit?, menopausa, farmaci, consumo di alcol, attivit? fisica, funzione renale, calcio sierico e concentrazione totale di estradiolo.?

Am J Hypertens, 2011 May 5. [Epub ahead of print]

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