Donne immigrate, aborto come metodo contraccettivo

Tra le donne straniere che vivono in Italia, una su tre ha fatto ricorso all’aborto almeno una volta. ? questo il preoccupante dato emerso da una ricerca pilota condotta a Firenze, dal Centro di riferimento regionale per la prevenzione e la cura delle complicazioni delle mutilazioni genitali femminili, i cui dati sono stati presentati durante il convegno “Immigrate e contraccezione: diritti negati”, promosso dalla Societ? italiana di ginecologia e ostetricia (Sigo). L’elevato numero di interruzioni volontarie della gravidanza che si contano tra le donne straniere residenti nel nostro paese ? un segnale che l’aborto viene considerato un metodo contraccettivo: nonostante, infatti, le donne immigrate conoscano nel 90% dei casi la possibilit? di ricorrere alla contraccezione orale e ancor di pi? al preservativo, questi metodi vengono scarsamente utilizzati. ?Il risultato ? che un terzo degli aborti praticati in Italia si registrano nel 3,5% della popolazione?, spiega Nicola Surico, presidente della Sigo. ?La nostra ricerca dimostra che non manca tanto la conoscenza, quanto la possibilit? di accedere agli strumenti e ai servizi disponibili. Le difficolt? sono, infatti, dovute in gran parte ai mancati collegamenti con le strutture sanitarie, alla difficolt? di rapporto con gli operatori, a ostacoli burocratici, alla carenza di personale formato e di mediatori culturali?. Per invertire questa drammatica tendenza che determina un numero cos? alto di aborti, bisogna puntare sulle seconde generazioni, che contano quasi un milione di minorenni stranieri presenti in Italia, di cui oltre la met? nati nel nostro paese. ? a loro che ? necessario rivolgersi per avviare una vera contraccezione transculturale. Ed ? questo l’impegno che si ? prefissato la Sigo con la pubblicazione del progetto educazionale “Scegli tu”: disponibili in cinque lingue (francese, cinese, arabo, rumeno e albanese) e scaricabili dal sito internet www.sceglitu.it, gli opuscoli in questione offrono informazioni dettagliate sulla contraccezione negli adolescenti.

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Dagli Usa, screening di routine dai 13 anni in su

L’American college of obstetricians and gynecologist ha stilato alcune raccomandazioni per fare il punto sui controlli ginecologici consigliati, a partire dal tredicesimo anno di vita. Nel documento, gli esperti non si limitano per? a indicare screening di routine, ma affrontano la salute femminile a 360 gradi, suggerendo stili di vita corretti che riducano le abitudini dannose (consumo di alcol, abitudine al fumo, sedentariet?) per lasciare spazio a scelte comportamentali benefiche le cui ricadute migliorano la condizione psico-fisica di ogni donna. Per quanto riguarda gli esami “classici”, i ginecologi statunitensi invitano le adolescenti a sottoporsi alla prima visita dallo specialista all’et? di 13 anni, che dovr? avere cadenza annuale dopo il ventunesimo anno di et?. Il Pap-test viene indicato come un esame estremamente importante, a cui sottoporsi con regolarit?, ma non deve essere il solo motivo per cui ci si reca dal ginecologo: la prevenzione delle patologie a carattere femminile, infatti, prevede ulteriori esami e controlli. Spazio, quindi, alle vaccinazioni raccomandate e a test annuali, nelle donne attive sessualmente, per scongiurare il rischio di infezioni come clamidia e gonorrea. Discorso simile riguarda il test Hiv, per il quale si propone l’esecuzione una volta l’anno a partire dai 19 anni fino ai 64. Nel caso in cui una donna abbia un maggior rischio di ammalare di una determinata patologia, la frequenza degli esami di controllo deve essere aumentata. La prima mammografia, per esempio, andrebbe fatta al compimento del quarantesimo anno, per diventare un appuntamento annuale dopo il raggiungimento del cinquantesimo anno. Se per? nella donna c’? familiarit? di carcinoma mammario, ? consigliabile consultare il ginecologo e sottoporsi alla mammografia pi? precocemente.

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Cortisonici da sospettare in caso di osteoporosi

Una frattura vertebrale solleva il dubbio ma, soprattutto se l’et? non ? quella in cui dovrebbe presentarsi una patologia osteoporotica, va indagato se la paziente sta assumendo farmaci, in particolare antinfiammatori steroidei, che hanno un impatto negativo sulla salute dell’osso

L’osteoporosi, oltre che una conseguenza della menopausa che subentra in una fase tardiva della vita, pu? essere l’effetto indesiderato di una terapia con farmaci cortisonici, indipendentemente dall’et?, e a maggior ragione in quella postmenopausale, e anche dai valori della mineralometria ossea computerizzata (Moc). Si tratta di un’evidenza che risale ad alcuni anni fa, quando ? stato notato che alcuni soggetti avevano un elevato rischio di frattura, prima ancora che si presentassero valori di Moc a rischio. ?Si trattava di pazienti che, per vari motivi, seguivano una terapia cortisonica, ma che non erano stati protetti con un trattamento antifratturativo, mentre magari assumevano gi? gastroprotettori prescritti dal medico? spiega Andrea Giustina, direttore del Servizio di endocrinologia e del Centro Osteoporosi dell’A.O. Spedali Civili di Brescia, P.O. di Montichiari. ?Lo stesso impatto sulla salute dell’osso ? noto anche per gli inibitori dell’aromatasi, per gli antiretrovirali usati nei soggetti positivi per l’Hiv o malati di Aids e per l’eparina. Il dibattito ? aperto sul trattamento inalatorio dell’asma che prevede dosi basse, mentre il rischio c’? con dosi inalatorie alte? chiarisce Giustina.

L’evento pi? frequente che pu? verificarsi ? la frattura vertebrale, e la prevenzione si realizza con le stesse terapie antifratturative che si usano per l’osteoporosi. In particolare ? stato notato che il meccanismo con cui i cortisonici impattano sull’osso dipende dal suo effetto sugli osteoblasti, riducendo la loro attivit?: ?In questi casi, risulta molto efficace una terapia antifratturativa con paratormone in combinazione con teriparatide? sottolinea l’esperto ?che “risveglia” gli osteoblasti, ma si possono usare anche i bisfosfonati. Per altro, l’accesso a questi farmaci, per i pazienti con osteoporosi cortisonica, ? previsto nella nota 79 e l’uso di cortisonici, in quanto fattore di rischio, ? stato inserito nell’algoritmo Frax, usato per valutare il rischio fratturativo?. In sostanza, secondo l’esperto, chi deve fare almeno sei mesi di terapia con cortisonici, deve seguire anche una terapia preventiva per le fratture, il rischio, infatti, dipende dalla dose e dalla durata: nella nota 79 e nel Frax si fa riferimento a dosi >5 mg/die di prednisone o equivalenti, assunti continuativamente per pi? di tre mesi. Allo stesso modo la presenza di osteoporosi in una paziente ancora giovane deve sollevare il sospetto di una forma indotta da cortisonici. ?Vanno considerate a rischio le donne in menopausa che assumono terapia cortisonica? conclude Giustina ?ma anche pazienti con artrite reumatoide, e, sempre nell’ambito della patologie reumatiche, anche pazienti con lupus eritomatosus sistemico. Questa malattia colpisce in particolare le giovani donne e poich? d? una spiccata sensibilit? al sole, le pazienti tendono a non esporsi con un calo dei livelli di vitamina D. In queste condizioni, i cortisonici vanno ad aumentare il rischio di fratture con un impatto importante sulla vita della paziente?.

S.Z.

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Ar: rapporti tra paratormone, densit? minerale ed erosioni

Nuovi dati su pazienti con artrite reumatoide (Ra) suggeriscono che la presenza di erosioni ossee siano correlate a bassi livelli di densit? minerale ossea (Bmd) e alti livelli di ormone paratiroideo (Pth): tali associazioni sono indipendenti dal grado di deterioramento funzionale e da altri comuni determinanti della massa ossea e del metabolismo minerale nei soggetti adulti con Ra. Questi risultati, presentati da Maurizio Rossini e Silvano Adami, dell’universit? di Verona, insieme ad altri reumatologi italiani, suggeriscono che i trattamenti finalizzati alla prevenzione della perdita di osso o alla soppressione dei livelli di Pth possano determinare effetti positivi sulla progressione delle erosioni ossee nella Ra. Lo studio multicentrico trasversale ha incluso 1.191 pazienti con Ra, di cui 1.014 donne, con un’et? media di 58,9 anni; evidenze radiografiche di erosioni ossee tipiche alle mani o ai piedi sono state evidenziate nel 64,1% dei pazienti. La presenza di erosioni rispetto all’assenza si accompagnava a valori medi di z score Bmd significativamente pi? bassi sia a livello della colonna (-0,74 vs -0,46) sia dell’anca (-0,72 vs -0,15). Nel sottogruppo di pazienti che non assumevano supplementi della vitamina D, i livelli di Pth erano significativamente pi? alti in presenza di artrite erosiva (25,9 vs 23,1 pg/ml) mentre le concentrazioni di 25OH vit.D erano molto simili nei due gruppi. Le differenze medie per Bmd e Pth fra i casi di RA erosiva e non erosiva si sono mantenute statisticamente significative quando i valori venivano simultaneamente aggiustati per tutti i fattori della malattia e del metabolismo minerale.

J Rheumatol, 2011 Apr 1. [Epub ahead of print]

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Rischio di overdose se la dose prescritta di oppiacei ? alta

Tra i pazienti cui vengono prescritti farmaci oppioidi per il dolore, dosi pi? alte si associano a un aumento del rischio di decesso per overdose. ? la conclusione di uno studio caso-coorte condotto da Amy S. B. Bohnert del department of Veterans affairs di Ann Arbor (Usa) e collaboratori. Sono stati presi in considerazione tutti i decessi non intenzionali da overdose da oppiacei su prescrizione (n=750) e un campione casuale di pazienti (n=154.684) tra quanti avevano ricorso a prestazioni mediche alla Veterans health administration tra il 2004 e il 2005, ricevendo una terapia con oppiacei per il dolore. Come principali misure di outcome si sono considerate le associazioni dei regimi terapeutici (dose e posologia) con la morte da overdose in sottogruppi definiti da diagnosi cliniche e aggiustati per et?, genere, etnia e comorbilit?. La frequenza di overdose fatale lungo il periodo di studio tra i soggetti trattati con oppiacei ? stato calcolato intorno a 0,04%. Il rischio di morte da overdose ? risultato direttamente correlato alla dose massima giornaliera prescritta del farmaco. Il rapporto di rischio (Hr) aggiustato associato a una dose prescritta massima di 100 mg/d o superiore, rispetto alle dosi comprese tra 1 e 20 mg/d, si ? attestato sui seguenti valori: 4,54 nei soggetti con disordine nell’uso della sostanza; 7,18 nei pazienti con dolore cronico; 6,64 in quelli con dolore acuto; 11,99 nei soggetti con cancro. I pazienti che ricevevano una prescrizione “al bisogno” con posologia regolare non sono apparsi associati a rischio di overdose dopo aggiustamento.

JAMA, 2011; 305(13):1315-21

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Nuova molecola per ipercolesterolemia rara

Si chiama lomitapide e apre nuove speranze per chi ? affetto da forme finora incurabili di ipercolesterolemia omozigote. Si tratta di un centinaio di pazienti in Italia, circa 6.000 nel mondo, che possiedono un doppio gene patologico e che non rispondono al trattamento con le statine, necessitando perci? di Ldl-aferesi, terapia molto costosa e non sempre praticabile, specialmente nei bambini. ?Fino a oggi non esisteva una cura e le persone colpite morivano d’infarto in et? giovanile?, spiega Cesare Sirtori, preside della Facolt? di Farmacia dell’Universit? di Milano e direttore del Centro universitario dislipidemie dell’Ao Niguarda Ca’ Granda. ?I risultati ottenuti con lomipatide sono sbalorditivi: il colesterolo Ldl si dimezza dopo poche compresse, con riduzione, in alcuni casi, del 70-80%?. La molecola agisce da inibitore della Mtp (microsomal transfer protein), proteina che “assembla” colesterolo, trigliceridi e proteine nel fegato. In questo modo le Ldl non vanno in circolo e i livelli di colesterolo crollano. Oltre ai pazienti con ipercolesterolemia omozigote, la lomitapide si sta rivelando il farmaco in grado di salvare da un’altra malattia rara, la chilomicronemia, caratterizzata da livelli molto elevati di trigliceridi, che pu? causare pancreatiti anche fatali. L’Fda ha concesso alla lomitapide la denominazione di “orphan drug”. ?I primi sette pazienti in Italia sottoposti alla terapia con Mtp inibitore, stanno rispondendo in modo ottimale dopo un anno o pi?? chiarisce Sirtori. Che cosa fare se si hanno pazienti che si ritiene possano trarre beneficio dalla terapia con lomitapide? ?In primo luogo caratterizzare il gene patologico? spiega Sirtori. Occorre rivolgersi al Centro di Niguarda o ad altro Centro specializzato. Poi, una volta definita la malattia omozigote o la causa della chilomicronemia si pu? accedere a questo trattamento innovativo?.

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Gestione dei Problemi Prostatici orientata al Medico di Medicina Generale

L’ipertrofia Prostatica Benigna (IPB) e il cancro della Prostata (CaP) sono tra le principali cause di morbilit? negli uomini anziani. La loro gestione, nell’ambito delle cure primarie, si ? evoluta considerevolmente in questi ultimi anni grazie a strategie diagnostico-terapeutiche particolarmente efficaci. Nella IPB, la terapia medica ha modificato l’approccio congiuntamente all’evoluzione della chirurga prostatica. Lo screening del PSA ha cambiato radicalmente la gestione del cancro della prostata e il riscontro, sempre pi? frequente, di una malattia locale ha favorito diffusione di tecniche innovative di chirurgia e di radioterapia. In soggetti selezionati con CaP sempre di pi? la vigile attesa o la sorveglianza attiva sono considerate opzioni praticabili. Infatti oggi i quesiti aperti dalla diffusione dello screening del CaP sono: a chi, quando e che cosa fare. Una recente revisione della letteratura scientifica pubblicata sul International Journal of Clinical Practice ha cercato di fornire risposte utili al MMG per la gestione di questi problemi di patologia prostatica.
Ipertrofia Prostatica Benigna
L’IPB colpisce circa il 50% degli uomini di et? >50 anni e il 90% di quelli >80 anni ne sono affetti. Pu? dar luogo a sintomi fastidiosi delle basse vie urinarie (minzione frequente, urgenza urinaria, nicturia, flusso urinario debole o intermittente, svuotamento incompleto della vescica) con possibilit? di arrivare alla ritenzione acuta urinaria (RAU). Evento associato ad un aumentato rischio di infezioni ricorrenti delle vie urinarie, calcoli della vescica e, occasionalmente, insufficienza renale. Le opzioni di trattamento sono diverse e vanno dall’utilizzo di farmaci, a terapie minimamente invasive, fino alla chirurgia tradizionale della prostata. Il paziente con IPB pu? avere diversi sintomi, ma si preoccuper? essenzialmente solo per uno di questi. Nella maggior parte dei casi l’ipotesi neoplastica potr? essere scartata eseguendo un’esplorazione rettale (DRE), il dosaggio del PSA e un esame delle urine. Se questi esami sono normali la probabilit? di trovarsi di fronte ad una IPB ? elevata, in particolare in soggetti >50 anni. L’associazione di PSA elevato associata a un nodulo prostatico evidenziabile alla DRE orientano verso il CaP. Un’ematuria microscopica con sintomi urinari pu? essere indicativa di cancro della vescica o della prostata. Il riscontro di un residuo post-minzionale >300 ml pu? servire ad identificare un soggetto con IPB ad alto rischio di ritenzione e con indicazione chirurgica. Diversi trial clinici hanno dimostrato che il rischio di progressione dell’IPB aumenta con l’aumentare del volume prostatico. Il PSA pu? essere usato come un surrogato della misura del volume prostatico e un valore di 1,5 ng/ml correla con un volume prostatico di ~30 g.
I farmaci rappresentano il trattamento di prima linea in soggetti con sintomi da IPB. Le due classi di farmaci disponibili sono gli α bloccanti e gli inibitori della 5-α-reduttasi. I primi, agendo sulla muscolatura liscia di vescica e uretra prostatica, riducono il tono muscolare e rapidamente aumentando il lume prostatico facilitando la minzione. I secondi riducono il tessuto iperplastico bloccando la conversione del testosterone in diidrotestosterone, l’androgeno prostatico pi? importante. Questo meccanismo riduce progressivamente, ma lentamente, l’ostruzione dello sbocco vescicale in uretra, con risoluzione dei sintomi in 6-12 mesi. Diversi studi hanno dimostrato una diversa interferenza di questi farmaci sul rischio di ritenzione e la necessit? di indicazione chirurgica. Quelli relativi agli α bloccanti non hanno dimostrato una modifica degli esiti, che invece era riscontrabile negli studi con gli inibitori della 5-α-reduttasi, che in soggetti con prostata di volume >30 ml erano superiori agli α bloccanti anche sui sintomi. La terapia di combinazione sfrutta la sinergia di azione delle due classi e i risultati dell’associazione sono superiori alla monoterapia. La terapia chirurgica ? da prendere in considerazione in quei soggetti che non tollerano i farmaci per scarsa risposta sui sintomi o effetti collaterali dipendenti dalla terapia cronica. Le opzioni minimamente invasive includono l’ablazione con ago transuretrale (TUNA) e la terapia trans uretrale a micro-onde (TUMT), che offrono il vantaggio di avere minimi effetti collaterali nel tempo con miglioramento dei sintomi in soggetti appropriatamente selezionati. Il gold standard chirurgico nel trattamento della IPB rimane la resezione trans uretrale (TURP), ma le comorbidit? associate (es. sanguinamento, iponatriemia) orientano verso metodi alternativi. In alternativa sono state impiegate diverse tecnologie laser, come il laser a Holmio (HoLEP) con esiti simili alla TURP. In parallelo si sono sviluppate tecniche di vaporizzazione foto selettiva (PVP) con laser in grado di produrre energia di 532 nm assorbita dall’emoglobina, in grado di portare alla vaporizzazione il tessuto prostatico con la coagulazione dell’area sottostante. Questa tecnica ? indicata in soggetti in terapia anticoagulante o antiaggregante piastrinica. L’efficacia a lungo termine delle tecniche laser non ? ben definita, mentre per tutte le modalit? di intervento esiste una probabilit? variabile (50-90%) di eiaculazione retrograda e minima (1%) di disfunzione erettile.
Cancro della Prostata
E’ una neoplasia con un ampio spettro biologico di presentazione. Il problema per il medico ? saper identificare e curare le forme aggressive senza sovra-trattare i casi a decorso indolente. Lo screening di popolazione con PSA ? stato proposto come mezzo per ridurre la morbilit? e mortalit? correlata a CaP. Il dosaggio del PSA, proteasi serica che svolge un ruolo nella liquefazione seminale con altre funzioni nei meccanismi riproduttivi, dall’inizio degli anni ’80 ha progressivamente guadagnato un ruolo nello screening del CaP spostando lo stadio dei tumori diagnosticati verso forme locali di CaP. Diversi medici considerano valori di PSA <4 ng/ml normali, ma l'evidenza orienta a un'interpretazione personalizzata dei valori di PSA. Un grande trial (The Cancer Prevention Trial) ha dimostrato una prevalenza di CaP del 15,2% in un gruppo di soggetti con PSA <4,0 ng/ml e di questi il 14,9% aveva un CaP con Gleason >7, con elevato rischio di progressione della neoplasia. Questi dati impongono al clinico pratico attenzione nel considerare il cutoff del PSA a 4,0 ng/ml indistintamente per tutti i pazienti. Un’analisi ha definito dei range di PSA variabili rispetto all’et?, con l’intento do migliorare la detection rate di CaP nel paziente giovane e la riduzione di biopsie inutili nei soggetti anziani. Il PSA velocity (PSAV) ? un altro paramero che viene considerato in aggiunta allo screening convenzionale. In pazienti di et? <60 anni una PSAV >0.35 ng/ml/anno serve a discriminare i soggetti eleggibili alla biopsia. Il dato estrapolato dalla valutazione degli ultimi 3 valori di PSA intervallati fra loro di 3-4 mesi. E’ stato dimostrato che un PSAV >0,75 ng/ml/anno pu? fornire un vantaggio per la diagnosi delle forme pi? aggressive di CaP in soggetti >60 anni. La maggior parte del PSA circolante ? legato a proteine e questo legame ? in relazione al processo proteolitico del PSA nativo che ? ridotto nel CaP. Pertanto in caso di neoplasia la frazione libera di PSA circolante ? ridotta. Un PSA libero >25% in un soggetto con PSA totale fra 4 e 10 ng/ml significa un rischio del 8% di sviluppare un CaP; in un paziente simile, ma con un PSA libero <10% il rischio di CaP sale al 56%.
Inoltre un basso livello di PSA libero identifica un’alta probabilit? prognostica di eventi avversi correlati alla prostatectomia radicale. Il PSA libero ? anche utile per definire la necessit? di ripetere la biopsia dopo un risultato iniziale negativo ed ? un esame, in aggiunta al PSA totale, probabilmente pi? utile all’urologo che al MMG.
Diversi fattori concorrono a modificare il PSA. Tra questi la terapia con inibitori della 5-α-reduttasi, che riduce la concentrazione serica fino al 50% entro 12 mesi dall’inizio della terapia. Le infezioni, il cateterismo vescicale e le procedure transuretrali endoscopiche sono in grado di alterare il dato, mentre non sono univoci i pareri circa l’influenza dell’eiaculazione, anche se ? consigliabile eseguire il test del PSA dopo 24-36 ore.
La massima efficacia per la diagnosi precoce del CaP nasce dalla combinazione del PSA con la DRE. Ci sono evidenze che suggeriscono come lo screening con solo PSA ignori il 17% dei CaP se il cutoff per la biopsia ? 4 ng/ml.
Considerando che il CaP ? una condizione altamente prevalente, gli esiti possono essere migliori con la diagnosi precoce. Anche se due grandi studi clinici sono stati recentemente pubblicati a supporto, lo screening di popolazione ? ancora considerato controverso, in quanto espone i pazienti a rischi, incluse le complicanze rare, ma serie della biopsia o la morbidit? secondaria al trattamento del CaP. L’assenza di un inequivocabile beneficio dello screening di popolazione sulla sopravvivenza per CaP non permette alle linee guida di raccomandare lo screening ed esplicitamente lo sconsiglia nei soggetti >75 anni. Il MMG se tiene conto di et?, razza, storia familiare, PSA e sua cinetica, potr? fornire al paziente elementi utili per una decisione che alla fine rimane solo sua.
La sfida terapeutica nella gestione del CaP ? tutta centrata sulla decisione di che trattamento fare e quando farlo. La biopsia ci offre informazioni sul grado della neoplasia, ma pu? sottostimarla nel caso venga ignorata un’area ad alto grado. Esistono vari protocolli per identificare i casi a basso rischio in cui ? indicata la sorveglianza attiva. In questi soggetti, per ovviare alla sottostadiazione, vengono eseguite biopsie ripetute nel tempo, con monitoraggio di PSA e DRE. Se la malattia ? in progressione (per incremento di PSA o PSAV, o riconoscimento di un alto grado alla biopsia) ? indicata la terapia. La sorveglianza attiva si distingue dalla “vigile attesa” che viene proposta a uomini con aspettativa di vita limitata o gravi comorbidit? monitorizzando l’emergenza di problemi di estensione locale o malattia metastatica.
Il CaP localizzato ? trattato con la chirurgia o la radioterapia. La prostatectomia radicale retro pubica ha un eccellente esito oncologico con incontinenza nel 10% e un risparmio della funzione sessuale nel 50-60% dei casi. Gli esiti delle tecniche robot-assistite non sono attualmente valutabili nel lungo termine. La radioterapia ? diventata pi? efficace e meglio tollerata per tecniche pi? sofisticate nella definizione del campo di irradiazione con esclusione di vescica e intestino. In soggetti ad alto rischio si migliorano gli esiti con l’associazione alla radioterapia dell’ablazione degli androgeni. Le terapie emergenti con ultrasuoni focali ad alta intensit? (HIFU) e la crioterapia sono interessanti per la scarsa invasivit?. Si attendono miglioramenti tecnici in grado di ridurre le complicanze locali come la fistola uretrale.
In conclusione, se si considera l’invecchiamento della popolazione del mondo industrializzato, ? probabile che i MMG vedranno un numero sempre pi? crescente di uomini con IPB o CaP, nei quali sar? utile una gestione in stretta collaborazione con gli urologi per formulare un corretto giudizio clinico su significato, modalit? e timing di diagnosi e trattamento.
Bibliografia
1. Sausville J, Naslund M Benign prostatic hyperplasia and prostate cancer: an overview for primary care physicians. Int J Clin Pract 2010;64:1740-5

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Dolore toracico: identificare i casi a basso rischio

La sigla che lo identifica ? Adp (Protocollo diagnostico accelerato): si tratta di una metodica predeterminata grazie alla quale in 2 ore ? possibile identificare i pazienti che, presentatisi in un dipartimento di emergenza o in un accettazione ospedaliera per un dolore toracico, hanno un basso rischio a breve termine di un evento cardiaco avverso maggiore. Ci? potrebbe renderli adatti a una rapida dimissione o comunque permetterebbe di ridurre i periodi di osservazione e il numero di ricoveri. Le componenti necessarie per implementare questa strategia sono ampiamente disponibili. L’Adp, infatti, include l’uso di un metodo di punteggio di probabilit? pre-test strutturato (score Timi, ossia Thrombolysis in myocardial infarction), un elettrocardiogramma, e la misurazione sul luogo di cura di un gruppo di biomarker, quali troponina, creatin chinasi MB, e mioglobina.?La validazione di questa metodica ? stata effettuata da un team di ricercatori coordinato da Martin Than, dell’ospedale di Christchurch (Nuova Zelanda), mediante uno studio osservazionale svolto in 14 dipartimenti di emergenza in 9 paesi della regione Asia-Pacifico su soggetti di et? pari o superiore a 18 anni, con almeno 5 minuti di dolore al torace, ponendo come endpoint primario la comparsa di eventi avversi cardiaci maggiori entro 30 giorni dalla presentazione iniziale dei sintomi. Sono stati coinvolti 3.582 pazienti consecutivi, seguiti per un follow-up di 30 giorni. Di questi, 421 (11,8%) hanno avuto un evento avverso cardiaco maggiore. L’Adp ha classificato 352 (9,8%) pazienti a basso rischio e potenzialmente idonei per una dimissione precoce. Un evento avverso cardiaco maggiore si ? poi manifestato solo in 3 (0,9%) di tali pazienti, permettendo cos? di attribuire all’Adp una sensibilit? del 99,3%, una valore predittivo negativo del 99,1% e una specificit? dell’11,0%.

Lancet. 2011 Mar 26;377(9771):1077-84

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Responsabilit? medica: errore terapeutico ed errore valutativo

Corte di cassazione penale – Il rischio terapeutico viene distinto in errore terapeutico di carattere esecutivo (per es. chirurgico) ed errore di carattere valutativo (errore diagnostico di individuazione della sintomatologia, ovvero erronea sottovalutazione dell’effetto di interazione tra farmaci o interventi comunque invasivi). In particolare, si ? sottolineato che la rilevanza penale dell’errore valutativo deve ritenersi subordinata alla condizione che esso sia manifestazione di un evidente atteggiamento soggettivo del medico di superficialit?, di avventatezza, imperizia nei confronti delle necessit? terapeutiche del paziente.

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Gonartrosi, la curva antidolorifica dell’acido ialuronico

Una nuova metanalisi si ? focalizzata sulla traiettoria terapeutica della somministrazione intraarticolare di acido ialuronico (Iaha) per il trattamento del dolore da osteoartrosi del ginocchio 6 mesi dopo l’intervento. La nuova prospettiva, aperta dal gruppo di Raveendhara R. Bannuru del Tufts medical center di Boston, permette – a detta degli autori – di dedurre che l’efficacia di Iaha si manifesta dopo 4 settimane, raggiunge il picco all’ottava settimana ed esercita un effetto ancora rilevabile alla 24esima settimana. D’altra parte, l’entit? dell’effetto al picco (Es: 0,46) appare maggiore rispetto a quanto ottenuto con altri analgesici come paracetamolo (0,13), Fans (0,29) o inibitori della Cox-2 (0,44). Si ricorda al proposito che un effetto di dimensioni superiori a 0,20 ? da considerare clinicamente rilevante nel singolo individuo con dolore cronico come quello da gonartrosi. La metanalisi ? stata effettuata su 54 studi randomizzati che hanno riportato gli effetti di Iaha versus placebo per un totale di 7.545 partecipanti con artrosi del ginocchio. Le variazioni dell’entit? dell’effetto rispetto al basale sono state acquisite alle settimane 4, 8, 12, 16, 20 e 24. Si segnala inoltre che i trial presi in esame differivano per alcuni aspetti relativi alla conduzione e alla qualit?. L’entit? dell’effetto ? risultato favorevole a Iaha dalla quarta settimana (0,31), raggiungendo il picco di 0,46 all’ottava settimana e ha in seguito mostrato un trend in discesa con un effetto residuo ancora apprezzabile dopo 24 settimane (0,21). Tale traiettoria terapeutica era consistente anche nel sottogruppo di studi di alta qualit? e all’analisi multivariata aggiustata per la correlazione con i tempi di misurazione dell’entit? dell’effetto. In base a questi risultati gli autori concludono che Iaha potrebbe essere utile in certe situazioni cliniche, o in combinazione con altre terapie.

Osteoarthritis Cartilage, 2011 Mar 25. [Epub ahead of print]

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