Enterocolite nei nati pretermine: utili i probiotici

Nei bambini nati pretermine, l’enterocolite necrotizzante e la sepsi nosocomiale si associano a un aumento di morbilit? e mortalit?. Una nuova review Cochrane, coordinata da Khalid Alfaleh, della divisione di Neonatologia presso la King Saud university di Riyad, nell’Arabia Saudita, sancisce ora che la supplementazione enterale con probiotici svolge un ruolo importante nella prevenzione dell’enterocolite necrotizzante grave e della mortalit? per tutte le cause, supportando un cambio della pratica.?

Resta da capire quali siano i giusti dosaggi da somministrare e l’efficacia in casi particolari, come per esempio quelli dei bambini con peso alla nascita estremamente basso.?

L’indagine ha considerato studi scientifici randomizzati e abstract che avessero coinvolto bambini nati prima della trentasettesima settimana e/o che avessero un peso alla nascita inferiore ai 2.500 grammi, nei quali fosse prevista la somministrazione di probiotici. Sono stati quindi presi in esame 16 trial che hanno randomizzato un totale di 2.842 neonati.?

I criteri di inclusione nei vari trial sono risultati molto diversi gli uni dagli altri per quanto riguarda il peso alla nascita, l’et? gestazionale, il rischio al basale di enterocolite necrotizzante nei controlli, i dosaggi, i tempi e le formulazioni dei probiotici e i regimi di nutrizione.?

Nella metanalisi dei dati, la supplementazione enterale con probiotici ha ridotto significativamente l’incidenza di enterocolite necrotizzante grave (stadio II o maggiore; rischio relativo, Rr: 0,35) e la mortalit? (Rr: 0,40). Non sono invece emerse riduzioni significative per quanto riguarda la sepsi nosocomiale (Rr: 0,90). Infine, l’impiego di probiotici non ha determinato, nei trial considerati, infezioni sistemiche.
Cochrane Database Syst Rev, 2011 Mar 16; 3:CD005496

 502 total views,  4 views today

L’epatocarcinoma su cirrosi HCV-relata: manca una sorveglianza adeguata

L’epatocarcinoma (HCC) su cirrosi HCV-relata ? in rapido aumento. Ne consegue un aumento della mortalit?, perch? la sopravvivenza generale in caso di HCC ? bassa (<5% a 5 anni). Se per? si interviene in fase precoce la sopravvivenza aumenta significativamente: ci? ha portato a produrre dei programmi di sorveglianza, in genere per? scarsamente applicati. Sugli Annals, in uno studio retrospettivo pubblicato nel numero del 18 gennaio, viene ripreso l'argomento valutando l'applicazione di un programma di sorveglianza dell'HCC in una popolazione di pazienti con cirrosi HCV-relata (registro dei casi di infezione da HCV nei Veterani degli Stati Uniti) e delle variabili ad essa correlate. ? stata identificata una coorte di 126.670 pazienti con infezione da HCV, di cui 13.002 (10.2%) con cirrosi. In tale gruppo, solo il 12,0% ? risultato sottoposto a sorveglianza continua (test di sorveglianza effettuato almeno una volta in 2 anni consecutivi durante i 4 anni successivi alla diagnosi di cirrosi), mentre nel 58.5% dei casi la sorveglianza risultava essere applicata in maniera sporadica (applicazione di almeno 1 test, ma non in maniera routinaria); il 29.5% non eseguiva alcun test di sorveglianza nei 4 anni successivi alla diagnosi di cirrosi. Si sottolinea come circa il 42% dei pazienti con cirrosi eseguiva 1 o pi? test di sorveglianza nel corso del primo anno dopo la diagnosi di cirrosi, ma nei successivi 2-4 anni la percentuale diminuiva significativamente. Diversi fattori (presenza di comorbidit?/complicanze, malattia epatica avanzata definita da MELD-score pi? elevato, etilismo) risultavano significativamente associati ad una minore probabilit? di ricevere correttamente la sorveglianza. Anche in questo gruppo di Veterani USA quindi si conferma la tendenza alla scarsa sorveglianza della popolazione con cirrosi HCV correlata, nonostante le raccomandazioni internazionali ed i chiari effetti sulla sopravvivenza.? Davila JA. Annals Intern Med ?2011; 154: 85-93

 416 total views,  1 views today

Una interazione potenzialmente pericolosa: macrolidi e calcioantagonisti

Anche se ? noto che i macrolidi con la loro azione di inibizione sul citocromo P450-3A4 possono potenziare l’azione ipotensiva dei calcio-antagonisti, in clinica questa interazione potenzialmente pericolosa ? ampiamente sottovalutata, specie nei soggetti anziani. Sul numero del Canadian Medical Association Journal di Febbraio ? apparso uno studio che ha valutato il rischio di ipotensione o shock – con ricorso al ricovero in ospedale – dopo l’uso simultaneo di calcio-antagonisti e macrolidi. Dei 7.100 pazienti ricoverati in ospedale a causa di una ipotensione sintomatica durante la terapia con un calcio-antagonista, 176 erano anche in trattamento con un macrolide. Da notare per? che l’interazione “negativa” non era da considerarsi un effetto di classe, ma era strettamente correlata alla differente interferenza che i singoli macrolidi hanno sul citocromo P450-3A4: l’eritromicina (il pi? forte inibitore del citocromo P450-3A4) ? risultata pi? fortemente associata ad ipotensione (OR 5.8, 95% CI 2.3-15.0) rispetto alla claritromicina (OR 3.7; IC 95% 2.3-6.1), mentre non si ? riscontrato un aumentato rischio ipotensivo con l’utilizzo della azitromicina (che non inibisce il citocromo P450). Risultati simili sono stati riscontrati anche in una analisi stratificata di pazienti che hanno ricevuto solo calcio-antagonisti diidropiridinici. Gli autori concludono quindi che nei pazienti pi? anziani in terapia con un calcio-antagonista, l’uso contemporaneo di eritromicina o claritromicina ? associato ad un aumentato rischio di ipotensione o shock che richiedono il ricovero in ospedale. Poich? tale effetto non si manifesta con l’utilizzo di azitromicina, la medesima dovrebbe essere considerata quando ? necessario l’uso di un antibiotico macrolide per i pazienti gi? in trattamento con un bloccante dei canali del calcio.

Wright AJ et al. The risk of hypotension following co-prescription of macrolide antibiotics and calcium-channel blockers. CMAJ, February 22 2011; 183 (3). First published January 17 2011; doi:10.1503/cmaj.100702

 406 total views

Chi lascia la via vecchia per la nuova: il caso dei nuovi ipoglicemizzanti orali

Poich? vi sono state segnalazioni che il trattamento con GLP-1 e DPP-4 inibitori pu? indurre una aumentata incidenza di pancreatiti croniche ma anche di tumori del pancreas e della tiroide, un gruppo di ricercatori del Hillblom Islet Research Center e della Geffen School of Medicine and Department of Biomathematics dell’Universit? di California di Los Angeles ha esaminato il data base della US Food and Drug Administration riguardante le segnalazioni degli eventi avversi correlati all’utilizzo del sitagliptin (DPP-4 inibitori) e?della exenatide (GLP-1) per verificare quante fossero quelle relative ai casi di pancreatite e di cancro del pancreas e della tiroide presenti e le hanno messe a confronto con quelle di altri 4 ipoglicemizzanti orali utilizzati come controlli. Questi i risultati
l’uso di sitagliptin o exenatide confrontato con quello di altri trattamenti aumenta di 6 volte l’odds ratio per pancreatite, [p < 2x10 (-16)]
anche il tumore al pancreas ? stato riscontrato pi? comunemente tra i pazienti che hanno assunto i due farmaci, rispetto ad altre terapie [p <0,033; p< 2x10(-4)]
analogo risultato – anche se riferito al solo trattamento con sitagliptin – per tutti gli altri tipi di cancro: l’incidenza ? stata maggiore rispetto ad altre terapie [P <1x10 (-4)].
Tali conclusioni, oltre a confermare quelle relative all’aumentata incidenza di pancreatite riportate da svariati case reports o dagli studi negli animali, sollevano inoltre cautela sulle azioni potenziali a lungo termine di questi farmaci nel favorire il cancro del pancreas e, per quanto riguarda i soli ?DPP-4 inibitori, anche per l’aumentato rischio per tutti i tumori.?

Elashoff M et al. Increased Incidence of Pancreatitis and Cancer Among Patients Given Glucagon Like Peptide-1 Based Therapy. Gastroenterology (Feb 2011)

 347 total views,  1 views today

Varicocele correzione per infertilit? oltre i 2 anni

Poich? negli uomini con problemi di infertilit? da meno di 2 anni si riscontra un elevato numero di gravidanze provocate, la correzione del varicocele finalizzato a restituire la fertilit? sembra essere appropriata solo nei soggetti il cui periodo di infertilit? sia superiore a 2 anni. La segnalazione porta la prima firma di Vito A. Giagulli, Pp.Oo. Monopoli-Conversano, Asl Bari, e scaturisce da uno studio prospettico condotto su pazienti con varicocele che si sono rivolti consecutivamente ai medici per infertilit?. Globalmente il tasso di gravidanza nel gruppo con varicocele corretto (n=137), e non (n=185), non differisce in modo significativo; considerando per? soltanto i soggetti con infertilit? accertata da oltre 2 anni i casi sottoposti a correzione del varicocele mostrano un tasso di gravidanza significativamente maggiore rispetto ai pazienti non avviati all’intervento. Insieme alla durata dell’infertilit?, la motilit? progressiva degli spermatozoi sembra essere il pi? importante fattore predittivo di fertilit?. Questo outcome invece non ? influenzato dal grado del varicocele n? dall’et? della coppia. In un secondo studio gli autori hanno valutato l’influenza della lunghezza della ripetizione Cag sul tasso di gravidanza nei pazienti con varicocele corretto. ? cos? emerso che la lunghezza della ripetizione Cag non influenza l’outcome successivo a correzione del varicocele. Questi dati – concludono gli autori – suggeriscono che la correzione del varicocele a un anno di infertilit? non determini un tasso di gravidanza pi? alto rispetto a quello osservato nei pazienti il cui varicocele non sia stato corretto.

Int J Androl, 2011; 34(3):236-41

 394 total views

Impiego delle statine nelle epatopatie croniche: dobbiamo ridimensionare i nostri timori?

Il National Cholesterol Education Program Adult Treatment III (NCEP-ATP III) include le statine nella lista dei farmaci con controindicazione assoluta per i soggetti con malattie croniche del fegato. Recenti segnalazioni della letteratura non solo fanno avanzare forti perplessit? su un’affermazione cos? drastica, ma addirittura fanno ipotizzare che le statine possano essere considerate un supporto terapeutico in alcune epatopatie croniche. Nei soggetti con sindrome metabolica, nella quale ? presente una steatosi epatica con alterazioni lievi o moderate dei valori delle transaminasi seriche, ? in linea di massima?consigliato il loro impiego nei soggetti ad elevato rischio cardiovascolare. Nei pazienti con epatite cronica HCV (EC-HCV) ? stato documentato che le statine non determinano un significativo incremento dei valori delle transaminasi n? un peggioramento dei principali indici di funzione epatica. Soltanto nei pazienti con epatopatia cronica grave la carenza di adeguati studi di safety fa ritenere corretto non impiegare le statine o, almeno, farlo con notevole cautela. In uno studio su un campione di limitate dimensioni (99 pazienti) la lovastatina e la fluvastatina hanno determinato una riduzione significativa della viremia da HCV e dell’espressione di alcune citochine pro-infiammatorie (IL-6 e TNF-alfa), senza agire sulla IL-10, dotata di azione anti-infiammatoria. Questo effetto potrebbe essere privo di rilevanza clinica perch? in un altro studio l’impiego delle statine in momenti diversi rispetto al dosaggio della viremia (prima e durante la ricerca dell’HCV RNA mediante PCR) non ha dato risultati significativi. In un’ampia casistica di diabetici con elevati livelli di LDL-colesterolo e con epatite cronica C associando una statina alla terapia antivirale con PEG-IFN e ribavirina, si ? avuto un incremento del numero delle Risposte Virologiche Sostenute (SVR). Tale risultato si ? verificato anche in pazienti non diabetici con EC-HCV in terapia antivirale. La terapia insulinica e un cattivo controllo dei valori glicemici, individuato con il dosaggio dell’HbA1c, riducono il numero delle SVR, mentre un effetto negativo non ? riportabile all’impiego della metformina. Uno studio controllato randomizzato in aperto eseguito su una casistica numericamente modesta ha dimostrato che l’associazione della fluvastatina alla terapia con PEG-IFN e ribavirina di soggetti coinfetti con HIV e HCV genotipo 1 b determina un incremento statisticamente significativo delle Risposte Virologiche Rapide (RVR), ma l’incremento della SVR non raggiunge la significativit?. In uno studio condotto con l’associazione di alfaPEG-IFN-2a o 2b e ribavirina in 3070 pazienti con EC da HCV e alti valori di LDL o bassi valori di HDL si ? avuto un numero di SVR sorprendentemente pi? elevato rispetto ai pazienti normolipemici (LDL+?p<0,001; HDL- p=0,004). In 66 soggetti in cui ? stata associata la terapia con statine si ? avuto un ulteriore incremento di SVR (p=0,02). Le ipotesi sui meccanismi degli eventi terapeutici su riferiti sono numerose e sono correlate alla circolazione nel plasma di HCV in associazione con le LDL, alla facilitazione della penetrazione di HCV negli epatociti indotta dall'azione scavenger delle HDL a livello dei recettori B1, a?complesse interferenze con i meccanismi di replicazione cellulare di HCV. In conclusione, in base ai dati di cui attualmente disponiamo, non possiamo certo azzardare l'ipotesi che le statine possano influire in maniera favorevole sulla storia naturale e sull'efficacia terapeutica del trattamento standard delle EC-HCV. Possiamo per? essere meno timorosi circa l'effetto negativo delle statine sulla funzione epatica e accettare l'ipotesi che nei pazienti ad elevato rischio cardiovascolare con EC con alterazioni lievi o moderate degli enzimi di citolisi e degli indici di funzione epatica le statine vadano impiegate senza eccessivi timori e con fondata speranza di un effetto terapeutico positivo.? Harrison SA et al, Hepatology 2010; 52:864-74
Milazzo L et al, J antimicrob Chemother 2010; 65:735-40
Zamor PJ and Russo MW, Curr Opin Cardiol 2011 (in stampa)
Rao GA and Pandya Pk, Gastroenterology 2011; 140:144-52

 1,058 total views

I contraccettivi orali contenenti drospirenone aumentano il rischio di trombosi venosa profonda?

Il drospirenone ? un progestinico sintetico derivato dallo spironolattone e presenta una struttura simile al progesterone con propriet? anti-androgene ed anti-mineralcorticoidi. ? commercializzato come contraccettivo orale combinato con 30 mg di etinilestradiolo. Mentre non vi sono dubbi sulla sua attivit? anticoncezionale, vi sono numerosi studi che suggeriscono un aumentato rischio di tromboembolismo venoso rispetto ad un altro progestinico, il levonorgestrel. Recentemente sono stati pubblicati due studi derivati rispettivamente dall’analisi di registro del UK General Practice Research Database e dallo Studio della Societ? Pharmametrics effettuato negli Stati Uniti che dimostrano un aumentato rischio rispettivamente di due e tre volte superiore di tromboembolismo venoso nelle donne che assumono contraccettivi orali che contengono il drospirenone rispetto al levonorgestrel. Questi studi presentano per? alcuni limiti determinati dalla scarsa numerosit? dei gruppi di controllo, dal non aver considerato l’obesit? quale fattore di rischio per il tromboembolismo venoso e dal non aver valutato anche la durata all’esposizione al farmaco. Infatti soprattutto questo ultimo dato sarebbe stato di particolare importanza in quanto le donne che utilizzano un contraccettivo da poco tempo presentano un rischio superiore di tromboembolismo venoso rispetto a coloro che li utilizzano da lungo tempo. Pertanto i dati sul rischio di tromboembolismo venoso non fatale per il drospirenone non sono conclusivi considerando per? che il rischio assoluto per le donne in trattamento con contraccettivi orali ? comunque modesto, 20-30 casi / 100.000 donne / anno di uso. ? possibile pensare, alla luce di questi dati, che possa essere utile prescrivere contraccettivi orali con un profilo di sicurezza pi? favorevole, in considerazione anche del fatto che non esistono chiare evidenze che il drospirenone determini vantaggi significativi – oltre a quello contraccettivo – nel trattamento dell’acne, nel ridurre i sintomi pre-mestruali o nel contrastare l’aumento del peso corporeo.?

Parkin; BMJ 2011; 342: d2139
Jick S; BMJ 2011; 342: d2151
Dunn N; BMJ 2011; 342: d2519 Editorial

 596 total views

Emostasi ed infiammazione: un continuum pericoloso per la placca aterosclerotica

Il processo infiammatorio ? strettamente correlato al processo aterosclerotico e coagulativo: entrambi hanno come organo di riferimento l’endotelio per cui la loro interazione ? comprensibile attraverso un’attivazione del network citochinico. Il NEJM ha recentemente pubblicato una review, non certo di facile lettura, che ha per? il pregio di approfondire tutti i vari attori interagenti. Tra i vari meccanismi si sottolinea come un inibitore diretto della trombina (melagatran) provochi nel ratto una riduzione del processo trombotico, mentre in casi di ipercoagulabilit? indotta si abbia, sempre nell’animale, un incremento dello spessore della placca, indicando cos? l’importanza dei vari fenotipi infiammatori della placca che ne determinano stabilit? o meno
al contrario lo stesso dato non ? emerso da bassi livelli di fattore VIII (emofilico) che non proteggono dal processo aterosclerotico, mentre alti livelli dello stesso fattore rappresentano un rischio cardiovascolare noto (come a far pensare che il legame del fattore VIII con quello di Von Willebrand rappresenti il vero momento aterogeno)
anche il fibrinogeno pu? influenzare il fenotipo della placca favorendo la permeabilit? endoteliale all’accumulo di LDL, inducendo migrazione di monociti e cellule muscolari lisce ed incrementando l’aggregazione piastrinica.
In conclusione, ci si trova oggi in una situazione molto promettente, ma ? evidente che occorre trovare nuove metodiche che forniscano informazioni sulla progressione e sulle caratteristiche della placca aterosclerotica, in modo che il gi? ampio armamentario terapeutico oggi disponibile possa essere utilizzato al meglio in relazione al fenotipo endoteliale.

Borissoff JI et al. N Engl J Med 2011; 364: 1746-1760

 466 total views,  1 views today

I supplementi di calcio con o senza vitamina D sono privi di pericoli?

I supplementi di calcio non sono sempre salutari: una ri-analisi dei dati del WHI CaD Study, completata dalla metanalisi di altri studi similari, ha evidenziato come la supplementazione di? calcio sia correlata ad una maggior incidenza di eventi cardiovascolari (in particolare di infarto miocardico, ma anche di interventi di rivascolarizzazione coronarica, stroke, morte). Lo studio ha coinvolto donne in menopausa a cui venivano somministrati supplementi di calcio, di calcio e vitamina D, o placebo. L’analisi del WHI CaD ? risultata confusa dall’elevato numero di pazienti nei vari gruppi a confronto che assumevano per conto loro supplementi calcio-vitaminici, il che non costituiva criterio di esclusione dallo studio n? veniva chiesto ai probandi di sospendere le loro terapie abituali. L’attenta ri-analisi statistica, integrata dalla valutazione di altri studi simili, ha per? confermato che la supplementazione di calcio, con o senza vitamina D, induce un modesto ma evidente incremento del rischio cardiovascolare: trattare 240 persone per un anno conduce ad un infarto miocardico in pi?, 283 ad uno stroke in pi? e “solo” 178 ad un evento cardiovascolare combinato in pi?. Per prevenire una frattura di femore al contrario si debbono trattare 302 persone. In sintesi, trattare 1.000 persone con supplementi calcio-vitaminici costerebbe sei infarti o ictus in pi? e tre fratture di femore in meno. C’e qualcosa che non va nel bilancio costo-beneficio: pertanto ? il momento di riconsiderare le nostre strategie di prevenzione dell’osteoporosi con i supplementi di calcio e vitamina D.?

Bolland MJ et al. BMJ 2011; 342: d2040

 336 total views

Artrite reumatoide: abatacept sottocute pari a endovena

Abatacept per via sottocutanea risulta di efficacia e sicurezza paragonabile alla somministrazione endovenosa, con una bassa immunogenicit? e alti tassi di ritenzione: i risultati sono coerenti con quelli del profilo stabilito per abatacept per via endovenosa. Inoltre i tassi di reazione sul sito dell’iniezione sono bassi. La via sottocutanea, pertanto, si propone come opzione addizionale, in questo caso una via di somministrazione alternativa, per i pazienti con artrite reumatoide. Il dato emerge da uno studio di fase IIIb, della durata di 6 mesi, condotto da Mark C. Genovese della Stanford University di Palo Alto (Usa) e collaboratori, su 1.457 pazienti con artrite reumatoide e risposte inadeguate a metotrexate. I soggetti arruolati sono stati randomizzati a ricevere abatacept per via sottocutanea (Sc, 125 mg alla settimana pi? una dose di carico per via endovenosa di circa 10 mg/kg) oppure abatacept per via endovenosa (Iv, circa 10 mg/kg). Al sesto mese, il 76% del gruppo Sc e il 75,8% del gruppo Iv ha raggiunto l’Acr 20, confermando per questo farmaco la non-inferiorit? di Sc rispetto a Iv. L’esordio e le dimensioni delle risposte Acr nonch? l’attivit? di malattia e i miglioramenti della funzione fisica sono apparsi comparabili nei due gruppi. Le frequenze degli eventi avversi e dei gravi eventi avversi a 6 mesi nei gruppi Sc versus Iv erano rispettivamente pari a 67,0% versus 65,2% e 4,2% versus 4,9%. Comparabile anche l’impatto di infezioni gravi, tumori, ed eventi autoimmuni. Reazioni sul sito di iniezione sottocutanea, nella maggior parte dei casi di grado leggero, sono occorse nel 2,6% dei pazienti del gruppo Sc e nel 2,5% dei pazienti del gruppo IV. Infine, la comparsa di anticorpi indotti da abatacept si ? verificata nell’1,1% dei pazienti Sc e nel 2,3% dei soggetti Iv.

Arthritis Rheum, 2011 May 25. [Epub ahead of print]

 441 total views

1 36 37 38 39 40 143

Search

+
Rispondi su Whatsapp
Serve aiuto?
Ciao! Possiamo aiutarti?