Raccomandazioni sull’incidente nucleare in Giappone

? stata inviata a tutti i soci dell’Associazione Medici Endocrinologi (AME) una lettera contenente le raccomandazioni relative al recente incidente nucleare giapponese.?

Popolazione residente in Italia
non esiste alcun rischio di esposizione esterna a radiazioni ionizzanti n? di contaminazione interna da particelle radioattive per inalazione o per contatto
non sono al momento necessarie misure preventive o terapeutiche; in particolare, non ? indicato il blocco dell’accumulo tiroideo di iodio con l’assunzione di ioduro di potassio (KI), trattamento non del tutto esente da rischi anche se rari
il contatto con soggetti potenzialmente contaminati provenienti dal Giappone non espone la popolazione ad alcun tipo di rischio
come misura preventiva il Ministero della Salute ha gi? predisposto il controllo alla frontiera dei cibi prodotti in Giappone o provenienti da quel Paese, al fine di garantire la sicurezza nei confronti della contaminazione da ingestione.
Persone di ritorno dal Giappone
In caso di sospetta contaminazione interna di persone che si sono trovate nelle aree limitrofe alle centrali nucleari, il Ministero del Salute ha individuato centri ospedalieri di riferimento su base regionale in grado di effettuare i controlli necessari; per tale categoria di persone non si ritiene al momento necessario alcun tipo di trattamento per due motivi:
1. il verosimile basso livello di dose assorbita dalla tiroide, inferiore al limite indicato dalle attuali linee guida
2. l’intervallo di tempo relativamente protratto trascorso dall’ipotetica contaminazione.
Persone dirette in Giappone
Per le persone dirette nelle aree limitrofe all’incidente e che non possono sospendere la partenza come consigliabile, devono essere prese in considerazione misure di prevenzione, in particolare il blocco dell’accumulo tiroideo di radioiodio con KI, con le modalit? descritte nelle linee guida pubblicate dalle maggiori organizzazioni mondiali (WHO, IAEA), che suggeriscono di utilizzare compresse di KI allo scopo di bloccare l’accumulo di radioiodio in tiroide solo qualora ricorrano le seguenti condizioni
1. il tempo intercorso tra possibile contaminazione e assunzione del farmaco non sia superiore alle 48-72 ore
2. la stima della dose equivalente in tiroide sia compresa tra 20 e 100 mSv in rapporto all’et? del soggetto; la somministrazione del farmaco per questi valori di dose non trova indicazione per soggetti di et? superiore ai 40 anni
3. il dosaggio comunemente utilizzato nell’adulto ? di 130 mg/die; l’utilizzo di KI deve comunque essere ufficialmente indicato dalle autorit? locali e prescritto da uno specialista (mai oggetto di prevenzione spontanea).
L’attuazione delle misure di prevenzione ? necessaria in et? pediatrica. Per le donne in gravidanza ? strettamente sconsigliato recarsi in zone a rischio di contaminazione. Infatti la profilassi con KI crea dei rischi importanti per la funzione tiroidea e deve essere valutato caso per caso.

AME NEWS, Marzo 2011

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L’albumina nel trattamento dello shock settico

Un gruppo di ricercatori australiani della Northern Clinical School e della Sydney Medical School dell’Universit? di Sydney, per verificare se l’utilizzo di soluzioni contenenti albumina fosse pi? efficace rispetto ad altri regimi di reintegrazione di fluidi nel ridurre la mortalit? nei pazienti con shock settico, ha impostato una revisione sistematica della letteratura che ha interessato 17 studi randomizzati, apparentemente senza evidenza di eterogeneit?, per un totale di 1.977 partecipanti. Otto di questi studi comprendevano solo pazienti con sepsi e nove includevano invece pazienti con sepsi come sottogruppo della popolazione studiata. L’uso di albumina per il trattamento dello shock settico ? risultato associato ad una riduzione della mortalit? con una stima aggregata degli odds ratio di 0.82 (limiti di confidenza al 95% 0.67-1.0, p = 0.047). In questa meta-analisi quindi l’uso di albumina ? risultato essere associato ad una minore mortalit? rispetto agli altri regimi di reintegrazione dei liquidi, tanto che gli autori concludono che “fino a quando i risultati in corso di studi randomizzati controllati non saranno accessibili, i medici dovrebbero considerare l’uso di albumina per il trattamento dello shock settico”.?Si sottolinea tuttavia che tanto l’editoriale di accompagnamento del lavoro quanto alcune considerazioni di noti esponenti dell’ambiente infettivologico pongono molti dubbi su queste conclusioni, basandosi soprattutto sul fatto che la revisione in questione ? “dominata” da un singolo trial che prende in considerazione il trattamento di pazienti con malaria.

Delaney AP, Dan A, McCaffrey J, et al. The role of albumin as a resuscitation fluid for patients with sepsis: a systematic review and meta-analysis. Crit Care Med 2011 Feb; 39(2): 386-91

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Mancata diagnosi malformazione del feto

Il fatto
Una donna ha chiesto la condanna del ginecologo che la segu? durante la gravidanza, al risarcimento dei danni subiti a seguito della mancata diagnosi di una grave malformazione del feto. In particolare si imputa al sanitario di non aver diagnosticato l’anencefalia del nascituro, patologia incompatibile con la vita, nonostante la gestante avesse eseguito un regolare esame ecografico nel corso della 19a settimana di amenorrea.

Il diritto
Va affermata la responsabilit? professionale del sanitario il quale, utilizzando la dovuta diligenza, avrebbe dovuto diagnosticare la patologia fetale facilmente riconoscibile durante lo svolgimento dell’esame ecografico. La mancata diagnosi ha impedito alla gestante di conoscere lo stato di salute del nascituro, che la patologia era incompatibile con la vita e di elaborare per tempo il futuro inevitabile lutto. Ci?, inoltre, ha privato la madre della possibilit? di scegliere se portare a termine la gravidanza o interromperla anzitempo.

Esito della lite
Il Tribunale di Santa Maria Capua Vetere ha condannato il ginecologo al risarcimento del danno.
[Avv. Ennio Grassini – www.dirittosanitario.net]

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Un motivo in pi? per smettere di fumare: associazione fumo e rischio carcinoma mammario

Idrocarburi policiclici, amine aromatiche e N-nitrosamine possono indurre alterazioni del DNA e mutazioni del gene p-53 del tessuto mammario, costituendo cos? il meccanismo alla base del sospetto di interrelazione tra cancro e fumo. Il tessuto mammario risulterebbe un target per l’effetto carcinogeno del fumo di tabacco.
Sia da bambine che da adulte il rischio di sviluppare tumore al seno sarebbe aumentato non solo nelle fumatrici ma anche nelle donne esposte al fumo passivo. Luo e collaboratori hanno pensato di approfondire questa ipotesi?all’interno dello studio osservazionale, denominato Women’s Health Initiative, che copre gli anni dal 1993 al 1998, valutando 79.990 donne di et? compresa tra 50 e 79 anni afferenti a 40 centri clinici. A tutte le partecipanti era stato chiesto di compilare un questionario in cui si domandava se fossero, o fossero state, delle fumatrici e se fossero state in contatto con il fumo passivo in famiglia o sul lavoro. Nei dieci anni di follow-up i ricercatori hanno individuato 3.250 casi di carcinoma mammario invasivo e le fumatrici avevano il 16% di rischio in pi? di sviluppare il tumore al seno, rischio che, rispetto alle non fumatrici, aumentava esponenzialmente nel caso di donne che avevano fumato per cinquant’anni o pi?. Per le ex fumatrici il rischio scendeva al 9%, ma permaneva anche 20 anni dopo la cessazione del fumo. Inoltre, anche le donne che non fumavano ma che erano state esposte per lungo tempo al fumo passivo avevano un rischio molto alto di sviluppare il cancro al seno: un’esposizione al fumo passivo fin da bambine in casa e poi da adulte in casa e sul lavoro per un totale di 30 o 40 anni aumentava il rischio di ben il 32%. Il fumo ? stato associato ad una maggior incidenza di cancro lobulare rispetto al duttale con recettori ormonali positivi sia per estrogeni che per progesterone. Questi dati, se ve ne fosse bisogno, stimolano ulteriormente l’implementazione di campagne di prevenzione contro i rischi del fumo attivo e passivo.

Luo J et al. BMJ 2011;342:d1016

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Tosse cronica: ? utile un trattamento con PPI?

? diventata prassi comune consigliare un trattamento con PPI nei pazienti che riferiscono di una tosse cronica che non sia chiaramente secondaria a problematiche intrinsecamente respiratorie. Una revisione sistematica della Cochrane ha voluto verificarne l’appropriatezza, tanto nei bambini quanto negli adulti. Per tale motivo sono stati revisionati 19 studi (6 condotti in et? pediatrica, 13 in soggetti adulti) nei quali si ? verificata l’eventuale efficacia di un trattamento della malattia da reflusso gastroesofageo (MRGE) per la risoluzione della tosse cronica. In questa sede si riferiscono unicamente le conclusioni relative alla popolazione adulta. La revisione, per mancanza di dati inerenti il trattamento con procinetici, fundoplicatio o agenti antagonisti degli H2 recettori si limita ai soli PPI. I dati raccolti in 9 dei 13 studi ammessi alla revisione non hanno rivelato alcun miglioramento generale significativo nei confronti della tosse (OR 0.46; IC 95% 0.19-1.15) ove si eccettui un miglioramento del punteggio del sintomo tosse che al termine dei 2-3 mesi di terapia era stimato come differenza media standardizzata di – 0.41; IC 95% da -0.75 a – 0.07. Negli adulti quindi vi sono prove insufficienti per concludere con certezza che il trattamento con PPI della MRGE sia utile anche per la tosse cronica associata a MRGE. Da considerare inoltre che? quando si utilizza un sintomo – nel caso in questione la tosse – come misura d’esito, bisogna essere consapevoli che il tempo dell’osservazione prolungato pu? comportare una sua naturale risoluzione e che l’effetto placebo pu? sempre essere preminente. Solo adeguati e metodologicamente validati studi in doppio cieco e con oggettivi riscontri laboratoristici e funzionali potranno dirci se il trattamento del reflusso acido sia utile anche per la cura di una tosse cronica.?

Chang AB et al. Gastro-oesophageal reflux treatment for prolonged non-specific cough in children and adults. Cochrane Database Syst Rev 2011 Jan 19;1: CD004823

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Mammografia: un possibile ulteriore utilizzo clinico

La presenza di calcificazioni delle arterie mammarie (BAC) viene giustamente ritenuta un reperto di nessun interesse oncologico e spesso non viene riportata nel referto mammografico. Poich? ? nota la sua associazione con la malattia coronarica (CHD), alcuni ricercatori americani hanno voluto verificare se tale presenza fosse indice sensibile per predire un futuro rischio di CHD. Sono state coinvolte 1.500 donne che sono state sottoposte a mammografia dal 2004 ad Hartford nel Connecticut e che sono state poi seguite per 5 anni con mammografie seriate ma anche con questionari demografici sui fattori di rischio per CHD e ictus (fumo, esercizio fisico, stato menopausale, ipertensione, diabete, colesterolo elevato e storia familiare di malattia coronarica). I questionari compilati sono stati correlati con le mammografie. Questi i risultati
durante i 5 anni di follow-up, la CHD si manifestava nel 20.8% delle donne che avevano BAC rispetto a solo il 5.4% di quelle nelle quali le calcificazioni arteriose non erano presenti?(p < 0.001)
tra le donne che non avevano malattia coronarica al momento basale, quelle positive per la presenza di BAC avevano una maggiore probabilit? di sviluppare una CHD o un ictus rispetto alle donne che ne erano prive (6.3% contro il 2.3%, p = 0.003, e 58.3% rispetto al 13.3%, rispettivamente, P < 0.001)
questi risultati rimanevano significativi anche se aggiustati per l’et?.
La presenza di calcificazioni arteriose mammarie in una mammografia indica un aumento significativo del rischio di sviluppare malattia coronarica o un ictus. Questi risultati suggeriscono quindi che le calcificazioni arteriose mammarie devono essere considerate come un indicatore per lo sviluppo della CHD. Livello di evidenza II. Inoltre, sulla scorta di quanto emerso i radiologi dovrebbero sviluppare un metodo standard per il reporting di BAC nella mammografia e per avvisare i medici circa il rischio di queste pazienti per malattia coronarica e ictus.?

Schnatz PF et al. The association of breast arterial calcification and coronary heart disease. Obstet Gynecol 2011 Feb; 117: 233

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Fda revisiona sicurezza dei farmaci per ca prostatico

La Food and drug administration ha aggiornato l’etichetta di dutasteride e finasteride, farmaci inibitori dell’alfa reduttasi, a causa dell’aumentato rischio di tumore alla prostata di alto grado associato al loro uso. Il regolatorio ha scelto di aggiungere nuove informazioni in seguito alla revisione di dati di alcuni studi che avevano valutato la somministrazione quotidiana, rispetto al un placebo, per trattare l’iperplasia benigna o l’ingrossamento della prostata. I risultati mostravano una generale riduzione delle diagnosi di tumore prostatico, dovuto a un calo dell’incidenza di forme tumorali a basso rischio. Ma gli studi hanno dimostrato un’aumentata incidenza di tumore prostatico di alto grado, sebbene il rischio generale di sviluppare forme pi? aggressive del tumore fosse molto basso. ?Ci? che gli studi dimostrano ? che c’? un aumento di circa l’1% di diagnosi di tumori di alto grado? commenta Anthony D’Amico, direttore dell’Oncologia radiologica genitorurinaria del Brigham and Women’s Hospital di Boston ?anche se ? poco probabile che si sviluppino rispetto a quelli di basso grado?. Secondo gli esperti questi farmaci dovrebbero essere usati in uomini che hanno un’indicazione ulteriore oltre alla prevenzione del tumore prostatico. Sempre in tema di revisione del profilo di sicurezza, in seguito alla decisione della Francia di sospendere pioglitazone, l’Agenzia europea del farmaco ha fatto sapere che ha avviato una revisione nel marzo scorso per valutare il possibile aumento di rischio di tumore della vescica e che si pronuncer? quando saranno disponibili i dati.

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Vampate predittive di maggior spessore dell’intima

uovi dati suggeriscono che le donne che riportano vampate di calore per 6 o pi? giorni, nelle 2 settimane precedenti, possono avere uno spessore dell’intima media (Imt) carotidea maggiore rispetto alle donne che non presentano vampate di calore, e questo ? vero soprattutto nelle pazienti obese o in sovrappeso. La segnalazione ? frutto di un lavoro effettuato da un gruppo di ricercatori coordinato da Rebecca C. Thurston, professore di Psichiatria ed epidemiologia dell’universit? di Pittsburgh, su 432 donne di et? compresa tra 45 e 58 anni arruolate nello Study of women’s health across the nation (Swan) heart: l’indagine ha previsto, al basale e dopo 2 anni, l’esecuzione di un’ecografia carotidea, il dosaggio dell’estradiolo nel sangue e la verifica delle vampate di calore riportate nelle precedenti 2 settimane (nessuna, per 1-5 giorni, da 6 giorni in su). ? cos? emerso che, rispetto alle donne senza vampate, quelle che riportavano vampate per 6 giorni o pi? nelle 2 settimane precedenti avevano anche un maggiore spessore dell’intima media carotidea sia al basale (differenza media,: 0,02 mm), sia dopo il follow-up (0,02 mm). La presenza di vampate al basale e dopo 2 anni si associava a un valore pi? alto di Imt al follow-up rispetto alle donne che non avevano avuto vampate al basale e dopo 2 anni (differenza media: 0,03 mm). Tali associazioni tra vampate e Imt si sono mantenute anche dopo aggiustamento per l’estradiolo. ? stata inoltre osservata un?interazione tra vampate e obesit? al punto che, di fatto, la correlazione tra vampate e Imt ? stata osservata principalmente fra le donne obese o in sovrappeso. Le vampate di calore non sono risultate associate alla progressione di Imt.

Menopause, 2011; 18(4):352-8

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Arterie rigide se cala l?area ossea corticale

Indipendentemente dall’et? e da altri fattori di rischio, nelle donne la rigidit? delle arterie risulta inversamente correlata all’area ossea corticale. In questo momento, per?, i pathways di segnalazione e molecolari specifici per il sesso che regolano l’interazione tra osso e arterie centrali non sono ancora stati completamente chiariti. A tali conclusioni giungono Francesco Giallauria, dell’universit? Federico II di Napoli, e collaboratori dopo un’analisi trasversale dei dati di 321 uomini (et? media: 68 anni) e 312 donne (et? media: 65 anni), arruolate dal Baltimore longitudinal study of aging. La rigidit? delle arterie ? stata valutata attraverso la velocit? di propagazione dell’onda di polso (Pwv) carotideo-femorale e l’area ossea corticale trasversale (cCsa) ? stata misurata tramite tomografia computerizzata a livello della porzione media della tibia. L’et? ? risultata correlata in modo significativo con Pwv negli uomini e nelle donne. In queste ultime, ma non negli uomini, l’et? ? apparsa associata anche con cCsa. L’analisi di regressione lineare aggiustata in base all’et? ha evidenziato una significativa correlazione inversa tra Pwv e cCsa, ma solo nelle donne. Questa associazione si ? mantenuta significativa nelle donne dopo aggiustamento per et?, pressione arteriosa media, obesit?, menopausa, farmaci, consumo di alcol, attivit? fisica, funzione renale, calcio sierico e concentrazione totale di estradiolo.?

Am J Hypertens, 2011 May 5. [Epub ahead of print]

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Radiazione disciplinare del medico dall’albo

A un medico era stata inflitta la sanzione disciplinare della radiazione dall’albo, per avere, nell’esercizio della professione medica, indotto alcuni pazienti a subire atti sessuali, abusando delle condizioni di inferiorit? psichica nelle quali si trovavano al momento del fatto per lo stato di soggezione nel quale versa il paziente nei confronti del medico.
Si contestava che la Commissione centrale degli esercenti le professioni sanitarie avesse solo apparentemente motivato in ordine alla doglianza con la quale si era sostenuto che l’Ordine non aveva compiuto un’autonoma valutazione dei fatti accertati in sede penale ai fini del rispetto del principio di adeguatezza della sanzione disciplinare alla gravit? del fatto commesso, che esige lo stesso trattamento per identiche situazioni, cos? come postula un trattamento differenziato per situazioni diverse. La Commissione si sosteneva avesse? solo proclamato l’estrema gravit? del comportamento del sanitario, senza spiegare le ragioni della valutazione, tanto pi? necessaria in considerazione della circostanza per cui in un caso analogo era stata irrogata una sanzione meno grave.
La Suprema Corte, rigettando il ricorso del sanitario, ha osservato come la sentenza penale irrevocabile abbia efficacia di giudicato nel giudizio disciplinare quanto all’accertamento della sussistenza del fatto, della sua illiceit? penale ed all’affermazione che l’imputato lo ha commesso, mentre una volta ritenuto di estrema gravit? il comportamento del medico la Commissione non era comunque tenuta a spiegare perch?, in una diversa situazione solo “asseritamene analoga”, fosse stata in ipotesi applicata una sanzione meno grave.

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