Nuovi anticoagulanti orali: promettono rivoluzione terapeutica

I nuovi farmaci anticoagulanti orali promettono una vera e propria rivoluzione terapeutica nella prevenzione dell’ictus nei pazienti con fibrillazione atriale: meno effetti collaterali, meno interazioni con farmaci e cibi, meno esami di monitoraggio e più compliance dei pazienti al trattamento. Sono questi, spiegano i medici internisti della Fadoi, in occasione del 18° Congresso nazionale della società scientifica svoltosi a Giardini Naxos (Me), i benefici che si possono ottenere con gli anticoagulanti di nuova generazione di (dabigatran, rivaroxaban, apixaban), già approvati dall’Ema e disponibili a breve anche nel nostro Paese, e che si tradurrebbero in «11mila morti e 35mila nuovi casi di ictus cardioembolico in meno l’anno» e «una rilevante diminuzione dell’invalidità, circa 18mila nuovi gravi casi evitabili ogni anno, con un conseguente calo delle spese assistenziali». Con i nuovi farmaci, la terapia per la prevenzione di ictus ed embolia sistemica nei pazienti con fibrillazione atriale, avrà un profilo di sicurezza migliore: «il rischio di emorragie cerebrali è ridotto fino al 70%, i dosaggi sono fissi e le interazioni con altri farmaci e con i cibi sono scarsamente rilevabili» sottolineano gli esperti. «I nuovi anticoagulanti orali hanno non solo un profilo di sicurezza migliore» ribadisce Carlo Nozzoli, presidente di Fadoi «ma anche un atout in più: posso essere assunti con un dosaggio fisso e questo rende superflui i controlli ravvicinati “liberando” il paziente da uno stress, con il vantaggio di riuscire ad adattarsi alla terapia con maggiore facilità». Infatti, come spiega Andrea Fontanella, direttore del Dipartimento di medicina interna dell’Ospedale Buonconsiglio-Fatebenefratelli di Napoli, «i farmaci fino a oggi disponibili, i cosiddetti antivitamina K, nonostante siano efficaci hanno diversi limiti che ne rendono difficile l’utilizzazione nella pratica: la risposta al farmaco non è sempre prevedibile, c’è una stretta finestra terapeutica tra efficacia anticoagulante e rischio emorragico e hanno un lento inizio dell’azione e una altrettanto lenta cessazione dell’effetto. Tutto questo comporta la necessità di esami di laboratorio continui per monitorarne l’effetto e costanti aggiustamenti terapeutici».

k-vs-U�tt�& 8>$ ng.html”>Tom Frieden. Hepatitis C Testing. CDC Vital Signs, May 2013.

 

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Bisturi con tecnica endoscopica solleva bene le sopracciglia

L’innalzamento delle sopracciglia eseguito con tecnica endoscopica è ben tollerato e la maggior parte dei pazienti sono soddisfatti del risultato

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L’innalzamento delle sopracciglia eseguito con tecnica endoscopica è ben tollerato e la maggior parte dei pazienti sono soddisfatti del risultato. È quanto emerge dallo studio condotto alla Wake Forest Baptist school of medicine di Winston-Salem, in North Carolina, e pubblicato su Jama facial plastic surgery. Dice Nicholas Panella, chirurgo plastico alla Wake e coautore dell’articolo: «La comparsa di rughe sulla fronte e alla radice del naso, accompagnate dall’abbassamento delle sopracciglia, è tra i primi segni di invecchiamento». Le sopracciglia basse e cadenti contribuiscono a dare al volto espressioni tristi o pensierose, e per questo molte persone si sottopongono al sollevamento del sopracciglio, l’anglosassone brow lift, realizzato con tecniche differenti. Tra queste c’è il classico innalzamento della fronte: con un’incisione nel cuoio capelluto la pelle viene tesa sollevando le sopracciglia e distendendo le rughe. «Un’altra tecnica, che ha quasi del tutto sostituito la classica, è l’approccio endoscopico eseguito con piccole incisioni che consentono un recupero veloce» riprende il chirurgo, che assieme ai colleghi ha studiato 57 pazienti sottoposti a brow-lift endoscopico con un sondaggio telefonico fatto di 47 domande sulla valutazione dei risultati, la soddisfazione, e il recupero funzionale. I dati raccolti indicano che la procedura ha avuto successo nel 93% dei casi, e addirittura 55 pazienti su 57 la consiglierebbero ad amici e parenti. «A 42 di loro è stato detto che sembravano più giovani, e a 37 che apparivano meno stanchi» puntualizza il chirurgo. E ancora: 51 intervistati hanno avuto bisogno di analgesici per meno di una settimana, 44 hanno descritto le cicatrici come impercettibili e in 54 l’edema postoperatorio è durato meno di due settimane. «Dei 16 pazienti soggetti a mal di testa prima della chirurgia, la metà ha riferito un miglioramento del disturbo» aggiunge Panella, e conclude: «Il brow-lift endoscopico è ben tollerato e la maggior parte dei pazienti sono soddisfatti del risultato. Il nostro studio dimostra che le informazioni riferite dai pazienti aiutano a comprendere meglio l’esperienza chirurgica, migliorando  la consulenza preoperatoria».

Jama Facial Plast Surg. Published online May 9, 2013

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Epatite C: presto linee guida dai Cdc per rafforzare il follow-up

Negli Stati Uniti solo la metà dei pazienti che sono risultati infetti dal virus dell’epatite C (in base all’esito del test degli anticorpi anti-Hcv) effettua un adeguato esame di follow-up, più sofisticato, per verificare la presenza del virus e il persistere della necessità  di un trattamento. È quanto rivelano, sul loro sito, i Centers for Disease Control and Prevention (Cdc) di Atlanta. L’esecuzione completa del test secondo un processo in due fasi è decisiva per assicurare ai pazienti con pregressa infezione l’ottenimento, se necessari, delle cure anti-epatite C, allo scopo di prevenire la cirrosi, il cancro epatico e altre conseguenze gravi e potenzialmente letali per la salute» afferma Thomas Frieden, direttore dei Cdc. Per l’effettuazione dello studio, i ricercatori hanno raccolto dati da 8 aree della nazione. Su tutti i casi di epatite C identificati mediante test per gli anticorpi, solamente il 51% comprendeva anche l’esito di un test di follow-up che ha permesso di identificare uno stato infettivo in corso: ciò significa che questi soggetti erano con tutta probabilità inconsapevoli di essere ancora infettati in modo attivo dal virus. Più in dettaglio, i Cdc stimano che circa 3 milioni di americani convivano con l’epatite C e che fino al 75% di questi non sappia di essere infetto, ponendosi in una condizione di serio rischio per malattie epatiche, cancro e morte. In effetti, sebbene un piccolo numero di persone con test anticorpale positive all’Hcv riesca a eliminare il virus da solo, circa l’80% di chi era positivo resta infetto e può andare incontro a complicanze. Come conseguenza di tali risultati, i Cdc stanno per emanare apposite linee guida che sollecitano i medici a far effettuare ai pazienti i test di follow-up per essere certi che questi ultimi ricevano un trattamento adeguato. L’agenzia era già intervenuta nell’agosto scorso per sottolineare l’attenzione da porre ai ‘baby boomers’, soggetti nati tra il 1945 e il 1965, dove si è rilevato un severo impatto della patologia.

Tom Frieden. Hepatitis C Testing. CDC Vital Signs, May 2013.

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Alto rischio cardiovascolare: nessun beneficio da omega3

Per verificare se l’assunzione giornaliera di un grammo di acidi grassi polinsaturi (Omega-3) potesse prevenire le principali complicanze in una popolazione ad alto rischio cardiovascolare, è stata realizzata la ricerca “Rischio e prevenzione”, da un team multidisciplinare italiano. Lo studio, condotto su più di 12.000 pazienti, con una età media di 64 anni, di cui il 39% donne, seguiti per 5 anni, ha evidenziato che un trattamento farmacologico con Omega-3 non comporta vantaggi specifici in termini di riduzione di mortalità ed ospedalizzazione per motivi cardiovascolari. La ricerca è stata possibile grazie alla partecipazione di 860 medici di medicina generale, distribuiti in tutta Italia, in collaborazione con l’Irccs Istituto di ricerche farmacologiche Mario Negri, il Consorzio Mario Negri sud, il Centro studi e ricerche in Medicina generale e altre associazioni. In pratica la supplementazione di omega 3 in contesti di buona assistenza medica non ha apportato vantaggi clinici. «Con i suoi risultati ed i suoi protagonisti» afferma Carla Roncaglioni dell’Irccs Istituto di ricerche farmacologiche Mario Negri «lo studio può e deve essere considerato un paradigma provocatorio in questi tempi di crisi: per produrre conoscenze innovative e rilevanti, per ridurre i carichi assistenziali e aumentare l’efficienza economica non sono necessari solo tagli, ma anche progettualità capace di fare della medicina pubblica, anche quella tanto a rischio di impiegatizzazione della medicina generale, la partner ideale di istituzioni indipendenti nel comune laboratorio di ricerca del Servizio sanitario nazionale».

N Engl J Med 2013; 368: 1800-8

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Integratori alimentari inefficaci contro ca prostatico

Nonostante gli integratori alimentari siano molto usati dai pazienti affetti da cancro della prostata (si stima che siano assunti in 1 fino a 3 quarti dei casi), una nuova review realizzata da Paolo Posadzki e colleghi dell’Istituto coreano di medicina orientale a Daejeon (Sud Corea) afferma che essi non sono efficaci per tale indicazione. Il team è giunto a queste conclusioni dopo avere confrontato i dati relativi a 478 pazienti affetti da cancro alla prostata di gravità variabile arruolati in 8 studi – randomizzati in doppio cieco placebo-controllati – condotti in Olanda e Usa. Per valutare in modo incontrovertibile se gli integratori fossero in grado di curare il cancro alla prostata, i ricercatori hanno esaminato gli esiti considerando i singoli costituenti dei prodotti: minerali (selenio, zinco, rame e magnesio), vitamine (D, B2, B6, B9, B12, C ed E), antiossidanti e composti vegetali come isoflavoni, carotenoidi, licopene, fitosteroli, fitoestrogeni, e altre sostanze (CoQ10 e n-acetilcisteina). In ogni trial, i pazienti avevano assunto un integratore – diverso a seconda dello studio – e sono stati monitorati per un periodo compreso da poche settimane a 5 anni. Nel complesso, 6 studi hanno dimostrato che gli integratori non hanno portato ai pazienti benefici maggiori rispetto al placebo o ad altro tipo di supplemento. In due studi si è rilevato un calo significativo dei livelli di Psa (indicatore controverso di processo canceroso) tra i pazienti che assumevano una combinazione di integratori, rispetto al gruppo placebo, tuttavia nessuno di questi studi ha coinvolto più di 50 persone e due sono stati sponsorizzati dai produttori dei supplementi. «Il messaggio principale è che non esiste un integratore miracoloso per il cancro alla prostata» conclude Posadzki, aggiungendo che «nessun supplemento può sostituire il valore di una dieta equilibrata».

Posadzki P, et al. Maturitas, 2013 Apr 5.

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Obesità pericolosa già a 20 anni

Essere obesi a 20 anni aumenta il rischio di diabete, trombi potenzialmente fatali e attacchi di cuore, riducendo così la probabilità di arrivare alla mezza età

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Essere obesi a 20 anni aumenta il rischio di diabete, trombi potenzialmente fatali e attacchi di cuore, riducendo così la probabilità di arrivare alla mezza età. Lo indica uno studio danese pubblicato online su Bmj open. Negli adulti l’obesità è associata a un aumentato rischio cardiovascolare e di diabete, ma non si sa se avere un indice di massa corporea (Imc) elevato da giovani rafforzi tale associazione. Per chiarire quest’aspetto, un gruppo di ricercatori dell’ospedale universitario di Aarhus, in Danimarca, insieme a epidemiologi e biostatistici statunitensi, ha seguito per 33 anni una coorte di 6.500 ventiduenni danesi. Per tutti i soggetti, maschi nati nel 1955, erano disponibili i risultati dei test fisici e psicologici cui erano stati sottoposti per l’idoneità al servizio militare. I dati riguardanti il peso hanno evidenziato che la maggior parte dei ragazzi (83%) era nella norma, con Imc tra 18,5 e 25, il 5% era sottopeso e l’1,5% era obeso, con Imc uguale o superiore a 30. Durante gli oltre 30 anni di follow up, a circa la metà dei ragazzi obesi sono stati diagnosticati diabete di tipo 2, ipertensione, infarto del miocardio, ictus o tromboembolismo venoso, oppure il decesso era avvenuto prima dei 55 anni. C’è di più: il rischio di sviluppare diabete era ben 8 volte maggiore nei ragazzi obesi rispetto ai loro coscritti normopeso, mentre la probabilità di andare incontro a un trombo potenzialmente fatale era 4 volte maggiore. Le probabilità di ipertensione, attacchi cardiaci e morte risultavano raddoppiate in coloro che erano obesi già a 20 anni. «Abbiamo calcolato che ogni incremento di una unità nel Imc corrispondeva a un aumento del 20% della probabilità di sviluppare diabete, del 10% di tromboembolismo e ipertensione e del 5% di infarto» puntualizza Morten Schmidt, primo firmatario dell’articolo. E sottolinea: «Globalmente, negli uomini obesi a 20 anni, abbiamo registrato un aumento del rischio assoluto di tutte queste malattie pari al 30%».

BMJ Open 2013;3:e002698

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Con la dieta mediterranea la mente non decade

La dieta mediterranea colpisce ancora: mangiare pesce, pollo e insalata evitando carne rossa, salumi e latticini preserva memoria e pensiero

TAGS: DELIRIUM, DEMENZE, DISTURBI COGNITIVI E AMNESTICIDISTURBI MENTALIDISTURBI COGNITIVIDELIRIUM, DEMENZE, DISTURBI COGNITIVI E AMNESTICIDIETADIETA MEDITERRANEA

 

La dieta mediterranea colpisce ancora: mangiare pesce, pollo e insalata evitando carne rossa, salumi e latticini preserva memoria e pensiero. «In altre parole, con la dieta mediterranea cala il rischio di decadimento cognitivo legato all’età» afferma Georgios Tsivgoulis dell’Università di Atene, professore associato di neurologia all’Università dell’Alabama, Stati Uniti, e primo firmatario di un articolo pubblicato su Neurology. «La demenza è un disturbo comune tra gli anziani, con una prevalenza di circa il 15% tra i settantenni. Attualmente non esistono strategie per prevenirla né terapie in grado di risolverla» spiega il neurologo. Tuttavia, studi epidemiologici suggeriscono che fattori legati alla dieta si associano a un basso rischio di sviluppare la malattia di Alzheimer, una delle cause più frequenti di demenza. «La dieta mediterranea è un modello alimentare caratterizzato da un elevato consumo di alimenti di origine vegetale e olio d’oliva, con basso apporto di grassi saturi. Seguire questo tipo di regime alimentare non solo allunga la sopravvivenza, abbassando il rischio cardiovascolare e la mortalità per cancro, ma riduce anche le probabilità di Alzheimer» spiega Tsivgoulis. Proprio per chiarire il legame tra demenza e dieta mediterranea, insieme ai colleghi, il neurologo greco ha valutato l’associazione tra adesione alla dieta mediterranea e deterioramento della funzione cognitiva nei 17.478 afro-americani e caucasici partecipanti allo studio Regards (Reasons for geographic and racial differences in stroke study), partito tra il 2003 e il 2007 e ancora in corso. L’adesione è stata calcolata con un questionario, mentre lo stato cognitivo è stato valutato al momento dell’arruolamento nello studio e annualmente durante un follow-up medio di circa 4 anni. I risultati? Chi seguiva la dieta mediterranea aveva il 19% in meno di probabilità di sviluppare disturbi cognitivi o di memoria. Senza differenze tra afro-americani e caucasici, ma con significatività minore tra i partecipanti ammalati di diabete. «La dieta è solo una delle componenti di uno stile di vita che può ridurre i disturbi cognitivi negli anziani. Esercizio fisico, controllo del peso, astensione dal fumo e cura di diabete e ipertensione sono ugualmente importanti» conclude il ricercatore.

Neurology 2013;80:1684–1692

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La legge limita la presenza di queste sostanze pericolose negli alimenti. Ma alcune sfuggono ancora ai controlli. Noi le abbiamo trovate in alcuni prodotti a base di cereali.

Conosciamo davvero tutti i possibili pericoli che si nascondono nel cibo che mangiamo? Dipende. Perché a volte ne sovrastimiamo alcuni, mentre ne disconosciamo altri, magari meno seguiti dai media. È il caso delle micotossine, sostanze naturali prodotte da alcune muffe, molto pericolose per la salute. Un piccolo sondaggio condotto dall’agenzia regionale per la protezione ambientale del Piemonte ha fatto emergere che la quasi totalità delle persone, anche quelle con un’istruzione medio-elevata, non sa assolutamente cosa siano. Alcuni anni fa l’oncologo Umberto Veronesi portò alla ribalta questo tema, puntando il dito su latte e polenta, due alimenti che possono contenerle. Recentemente si è tornati a parlarne, perché l’estate appena trascorsa ha avuto condizioni climatiche favorevoli alla loro proliferazione.

Il dibattitto sulle micotossine e su come fare per limitare la loro presenza nella nostra alimentazione continua a essere vivo, sia nel mondo agricolo (che deve fare i conti con un lungo elenco di normative e controlli) sia nel mondo scientifico, dal quale stanno arrivando nuovi allerta su alcuni tipi di tossine non ancora considerate dalla legge che potrebbero però essere pericolose per i consumatori e come tali andrebbero monitorate e regolamentate. Per avere un quadro concreto del fenomeno abbiamo portato in laboratorio diversi prodotti alimentari sensibili alla contaminazione da micotossine (in particolare da quelle prodotte dal fungo Fusarium, che attacca principalmente il grano e l’avena) ricercando sia quelle per le quali esistono limiti di legge, sia quelle non ancora regolamentate. Abbiamo scoperto che, per alcune micotossine che non hanno ancora un limite di legge, il rischio di superare la quantità giornaliera massima accettabile consumando alcuni dei cibi analizzati è un’eventualità concreta.

Le micotossine sono tossine prodotte da alcune muffe, principalmente Aspergillus, Penicillium e Fusarium, che si sviluppano in campo su alcune piante, sia a causa di determinate condizioni climatiche, sia in seguito a stress cui sono sottoposte, come l’attacco di insetti e volatili. Queste sostanze sono quindi tossine naturali, che si formano principalmente durante la crescita delle piante, ma anche in fase di conservazione nei silos. Gli alimenti più esposti alla contaminazione diretta sono soprattutto i cereali, come mais, frumento, orzo, segale e avena, ma queste sostanze si sviluppano anche in semi oleaginosi, spezie, frutta secca e caffè. Alcune micotossine, tra quelle più pericolose, possono entrare nella catena alimentare anche attraverso la carne suina e di pollo e altri prodotti di origine animale, come uova, latte e formaggio, provenienti da bestiame che consuma mangime contaminato. A rischio, infine, anche birra e vino.

L’impatto delle micotossine sulla salute dipende dalla quantità assunta con gli alimenti e dalla loro tossicità. Si calcola che ci siano circa 300 tipi diversi di micotossine, ma sono una decina quelle più importanti, cioè le più frequenti e le più tossiche per l’uomo. Le più pericolose sono le aflatossine, prodotte dal fungo Aspergillum, che l’Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro (Iarc) ha classificato come cancerogene. Per queste, come per alcune altre di cui è stata accertata la pericolosità, esistono rigorosi limiti di legge, che ne limitano la presenza negli alimenti. Il problema principale di queste tossine è che non è facile eliminarle: se l’alimento viene contaminato in qualche momento della catena, il prodotto finale che arriva sulle nostre tavole sarà anch’esso inquinato. Attualmente non esistono trattamenti in grado di ripulire completamente da queste sostanze il cibo che mangiamo. Il modo migliore per impedire che le micotossine entrino nella nostra dieta resta la prevenzione, attraverso l’informazione e i controlli in campo e sulle materie prime. 

Eliminare completamente questi contaminanti naturali è impossibile. Ma si può cercare di contenere l’esposizione della popolazione entro dosi tollerabili. Come? Prima di tutto obbligando il settore agricolo a migliorare le pratiche in campo e lo stoccaggio degli alimenti. In seguito, praticando rigorosi controlli lungo tutta la filiera. E poi, incentivando la ricerca scientifica a produrre informazioni utili agli organi di vigilanza, che sono tenuti a garantire la salubrità di ciò che mangiamo, indicando i limiti di sicurezza. Restano infatti molte questioni aperte, soprattutto sulla necessità di regolamentare il livello di alcune tossine il cui impatto sulla salute è oggi ancora sottostimato. Le analisi che abbiamo condotto su un campione di 60 alimenti a base di cereali dimostrano che la presenza di queste sostanze nel cibo che acquistiamo è sottostimata, soprattutto quando non si devono rispettare limiti imposti dalla legge. Chiediamo che tutte le micotossine nocive siano regolamentate.

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Le nuove linee guida europee su ipertensione resistente e denervazione renale

Quando la pressione cardiaca continua a rimanere alta nonostante il trattamento con tre o più farmaci appartenenti a classi differenti si parla di ipertensione resistente: da oggi questa definizione è di diritto nelle linee guida europee per l’ipertensione, insieme alla denervazione renale, terapia per curarla. 

26 GIU – Il Congresso della Società Europea dell’Ipertensione che si è concluso la settimana scorsa a Milano ha portato due grosse novità nelle linee guida europee per il trattamento dell’ipertensione: sia l’ipertensione resistente al trattamento, ossia una pressione che continua a rimanere alta nonostante il trattamento con tre o più farmaci appartenenti a classi differenti, chee la denervazione renale, terapia per curarla, entrano a pieno titolo nel documento.
 
In particolare, le nuove linee guida prendono atto dei dati positivi finora prodottidall’impiego del sistema di denervazione renale Symplicity di Medtronic, il cui programma di sperimentazione clinica è attualmente il più lungo, esteso ed avanzato del suo genere. “I dati di follow up sull’efficacia della procedura nella riduzione dei livelli di pressione relativi agli studi Symplicity HTN2 e HTN-1 sono molto promettenti. I pazienti hanno avuto mediamente una buona riduzione della pressione, ed in quelli nei quali l’osservazione è stata prolungata a 2-3 anni, tale riduzione si è mantenuta. Ciò dà un segnale positivo per l’efficacia a lungo termine della procedura”, ha affermato Giuseppe Mancia, Presidente del Congresso della Società Europea dell’Ipertensione.
In aggiunta ai primi due studi, si è appena conclusa la fase di arruolamento di un terzo studio, Simplicity HTN-3 che prevede un confronto fra la denervazione renale e il solo trattamento farmacologico su un numero ancora più ampio di pazienti.
 
A preoccupare è la dimensione del fenomenoche nella sola Europa si stima riguardi circa 10-15 milioni di persone che per gli elevati livelli pressori sono soggetti ad alto rischio. “In Italia l’ipertensione arteriosa colpisce circa il 45-50% della popolazione generale adulta ossia oltre 14 milioni di soggetti, equamente distribuiti tra maschi e femmine. Di questi circa il 5-7% è affetta da ipertensione arteriosa resistente ‘vera’”, ha detto Massimo Volpe, Presidente della Società Italiana di Ipertensione arteriosa “L’ipertensione arteriosa non controllata è un problema di Salute Pubblica rilevante: pazienti trattati che hanno una pressione arteriosa non controllata hanno un rischio di sviluppare una complicanza cardiovascolare (infarto, ictus, insufficienza cardiaca o renale, morte) comparabile a quello dei soggetti ipertesi non trattati. Maggiori sono i valori pressori e maggiore il rischio di sviluppare tali complicanze, indipendentemente dall’età, dal sesso e dalla eventuale presenza di altre malattie associate.”
 
Il Sistema per la denervazione renale Symplicity è costituito da un catetere flessibile e da un generatore automatico. Il catetere viene inserito nell’arteria femorale all’altezza dell’inguine e da lì viene fatto avanzare fino all’arteria renale. Quando la punta del catetere è in sede all’interno dell’arteria renale, il generatore eroga una energia a radio frequenza il cui scopo è di disattivare i nervi simpatici renali circostanti. A sua volta, ciò riduce l’iperattivazione del sistema nervoso simpatico, noto per il suo ruolo nella ipertensione cronica. “Ad oggi sono oltre 6.000 le procedure realizzate con il sistema Symplicity in oltre 80 paesi del mondo e in Italia sono più di 70 i centri attivi per un totale di oltre 300 procedure effettuate”, ha spiegato Claudio Borghi, Vicepresidente della Società Italiana di Ipertensione Arteriosa “Un aspetto estremamente importante è lo screening dei pazienti e quindi il collegamento del centro interventistico con un centro clinico dell’ipertensione, meglio se un centro di eccellenza. è necessario infatti individuare il paziente giusto per la procedura, quello in cui il beneficio dell’intervento di denervazione renale sia significativo. Ciò per il bene del paziente e, allo stesso tempo, per garantire un razionale impiego delle risorse, tanto più in un momento di difficoltà economica quale quello attuale.”
 
Claudio Cricelli, Presidente della Società Italiana di Medicina Generale ha concluso:“Attualmente i costi per il trattamento farmacologico dell’ipertensione si sono notevolmente ridotti. Si riscontra invece una sostanziale associazione tra ipertesi resistenti e pazienti che rappresentano un alto costo per il sistema sanitario. Questo conferma l’esigenza di utilizzare tutte le risorse e le soluzioni disponibili utili al trattamento soprattutto per i pazienti più gravi e complessi. La procedura di denervazione renale appare promettente e le evidenze aumenteranno grazie agli studi e ai registri attualmente in corso, con cui sarà possibile realizzare una valutazione degli esiti a lungo termine. Occorre lavorare in sinergia con tutte le figure professionali coinvolte nel percorso del paziente al fine di applicare al meglio i criteri di inclusione e individuare la reale popolazione candidabile al trattamento”.

 

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Insufficienza renale cronica terminale. Il trattamento con L-Carnitina è efficiente ed economico

L’agente osmo-metabolico permette di diminuire la percentuale di glucosio utilizzato mantenendo le medesime proprietà osmotiche ed ultra filtrative, dall’altra migliora il profilo metabolico dei soggetti in trattamento, come dimostrato dalla resistenza all’insulina e altri biomarcatori.

26 GIU – È valso la pubblicazione su American Journal of Kidney Disease lo studio che dimostra come il trattamento con L-Carnitina, sostanza di origine naturale e coinvolta nel metabolismo glucidico e lipidico, quale agente osmo-metabolico nelle sacche per dialisi peritoneale rappresenta un nuovo approccio efficace, sicuro, ben tollerato ed economico contro l’insufficienza renale cronica terminale. Lo studio multicentrico http://www.ajkd.org/article/S0272-6386(13)00783-X/abstract, che è stato condotto da Thule Therapeutics S.A., Società di ricerca e sviluppo del Gruppo Sigma-Tau e Corequest Sagl (grazie anche ad un grant di ricerca di Baxter) e coordinato da Mario Bonomini dell’Istituto di Clinica Nefrologica dell’Ospedale di Chieti, ha coinvolto 8 Centri in Italia.
 
Secondo i dati dello studio, da una parte la L-Carnitina permette di diminuire la percentuale di glucosio utilizzato mantenendo le medesime proprietà osmotiche ed ultra filtrative, dall’altra migliora il profilo metabolico dei soggetti in trattamento, come dimostrato dalla resistenza all’insulina e altri biomarcatori. I risultati dello studio pubblicato hanno fornito la prova clinica di questo effetto. Inoltre la severità della popolazione studiata rende il dato ottenuto ancora più robusto. Bonomini, sperimentatore principale dello studio, ha dichiarato: “Questi dati sono di estrema importanza per disegnare nuovi strumenti per migliorare la nostra offerta di cura e rappresentano la prima reale novità in questo settore da anni”.
“Questo risultato rafforza la nostra volontà di procedere nello sviluppo clinico di soluzioni ipertoniche in grado non solo di ridurre la quantità di glucosio nelle sacche di dialisi peritoneale, ma di migliorare la condizione dismetabolica indipendentemente dalla riduzione del glucosio stesso”, ha aggiunto Arduino Arduini, Amministratore Delegato di Corequest.
“Siamo particolarmente compiaciuti di aver trovato un nuovo utilizzo potenziale per la L-Carnitina per un più efficace trattamento dei pazienti affetti da una patologia così severa come l’insufficienza renale cronica e siamo orgogliosi di contribuire al miglioramento non solo della loro cura ma anche della loro qualità di vita” ha sottolineato anche Alessandro Noseda, membro del Consiglio di Amministrazione di Thule.
Corequest e Thule/sigma-tau non escludono collaborazioni con partner industriali del settore per completare lo sviluppo e sfruttare appieno il potenziale del prodotto.

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