La somministrazione di PPI nel primo trimestre di gravidanza ? sicura

Finanziato dal Consiglio danese della ricerca medica e dalla Fondazione Lundbeck ? stato condotto uno studio di coorte che, utilizzando i dati derivanti dal Medical Birth Register, dal Prescription Drug Register, dal National Patient Register e dal Central Person Register Statistics Danesi, ha valutato l’associazione tra esposizione ai PPI durante la gravidanza ed il rischio di difetti maggiori alla nascita in tutti i bambini nati vivi in Danimarca tra gennaio 1996 e settembre 2008. L’analisi ha preso in considerazione l’utilizzo dei PPI da 4 settimane prima del concepimento fino a 12 settimane di gestazione. I risultati sono stati i seguenti
valutando entrambi i periodi presi in considerazione, difetti maggiori nei neonati sono stati riscontrati nel 3,4% delle 5.082 donne che erano state esposte a PPI rispetto al 2,6% delle 21.811 madri che non avevano assunto il farmaco (OR aggiustato per prevalenza = 1,23, 95% CI 1,05-1,44).
Suddividendo invece i due periodi
per quanto riguarda il primo trimestre di gravidanza
sono stati riscontrati 118 difetti maggiori alla nascita tra i 3.651 neonati esposti al PPI (3,2%), con un OR aggiustato per prevalenza di 1,10 (IC 95% 0,91-1,34)
anche in una analisi secondaria di esposizione individuale a PPI durante questo periodo di gravidanza il rischio di difetti alla nascita non appariva significativamente aumentato
per quanto riguarda invece l’esposizione nelle 4 settimane prima del concepimento
i rilievi statistici propendono per un significativo aumento del rischio di avere figli con difetti maggiori alla nascita (OR aggiustato per prevalenza = 1,39; 95% CI 1,10-1,76).
Le conclusioni degli autori sono quindi state le seguenti: in questa coorte di grandi dimensioni, l’esposizione ai PPI durante il primo trimestre di gravidanza non ? stata associata ad un aumento significativo del rischio di difetti maggiori del neonato alla nascita. Per quanto riguarda invece il rilievo statistico positivo di associazione fra esposizione a PPI nelle 4 settimane antecedenti il concepimento e difetti nel neonato, questo viene ritenuto dagli autori un dato casuale, visto che l’emivita dei PPI ? di 1-2 ore il che rende improbabile un “effetto trascinamento” della esposizione farmacologica preconcezionale.

Pasternak B, Hviid A. Use of Proton-Pump Inhibitors in Early Pregnancy and the Risk of Birth Defects. N Engl J Med 2010; 363: 2114-2123

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Clortalidone e tiazidici non sono la stessa cosa

Siamo abituati a considerare il clortalidone (C) del tutto simile, se non uguale, ai diuretici tiazidici mentre, a parte il fatto che la sua struttura chimica ? ben diversa, ? possibile che differisca da questi ultimi non tanto per gli effetti sulla pressione, che sono simili, ma sull’outcome cardiovascolare. Lo studio ALLHAT (in cui come diuretico ? stato usato il clortalidone) e lo studio ACCOMPLISH (in cui come diuretico ? stata usata l’idroclorotiazide) sono pervenuti a risultati molto differenti proprio sull’outcome cardiovascolare. Entrambi i diuretici hanno gli stessi effetti sul co-trasporto sodio cloro del tubulo distale, ma differiscono tra di loro nella capacit? di inibire l’anidrasi carbonica. E ci? potrebbe fare la differenza.
A questo proposito Woodman e coll. hanno pubblicato un lavoro sperimentale “in vitro” in cui hanno dimostrato che il C riduce l’aggregazione piastrinica indotta dall’epinefrina e aumenta l’angiogenesi molto di pi? della benzoflumetiazide (B), un diuretico tiazidico molto usato nel Regno Unito. Il C ha indotto marcati cambiamenti delle trascrizioni geniche per due proteine che mediano la permeabilit? vascolare e l’angiogenesi, il fattore C di crescita endoteliale e il transforming growth factor beta3, mentre la B ha mostrato effetti molto minori sull’espressione del fattore C di crescita endoteliale; entrambi riducono la permeabilit? vascolare all’albumina, ma solo il C aumenta l’angiogenesi. Bisogna sottolineare che l’effetto ? stato ottenuto in cellule incubate, e non pu? essere ascritto alle variazioni della pressione. Quindi, se ? vero che i due tipi di diuretici possono ridurre la pressione in modo simile, i loro effetti pleiotropici sulle piastrine e sulla parete vascolare variano considerevolmente, e questa potrebbe essere la ragione dei loro differenti effetti sugli outcomes cardiovascolari.?

Woodman R et al. Hypertension; 2010; 56; 463-470

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Ivabradina, frequenza cardiaca e scompenso: lo studio SHIFT

Nei pazienti con coronaropatia e disfunzione del ventricolo sinistro una frequenza di 70 battiti al minuto o superiore ? associata ad un rischio di morte cardiovascolare aumentato del 34% e ad un rischio di ricovero in ospedale per scompenso aumentato del 53% rispetto ad un paziente con frequenza cardiaca inferiore ai 70 battiti al minuto. Tuttavia, anche con i beta-bloccanti, che pure rappresentano i farmaci di prima scelta, spesso la frequenza rimane elevata.
L’ivabradina, inibitore specifico del nodo seno-atriale che agisce sui canali If, al contrario dei beta-bloccanti, non modifica la contrattilit? miocardica e la conduzione intracardiaca, anche in pazienti con funzione ventricolare compromessa. Lo studio SHIFT ? uno studio clinico randomizzato, condotto in doppio cieco, che aveva lo scopo di valutare gli effetti dell’ivabradina in aggiunta al trattamento evidence-based per quanto concerne gli outcomes cardiovascolari, i sintomi e la qualit? di vita in pazienti con scompenso cardiaco cronico e disfunzione sistolica. Sono stati studiati 6.558 pazienti, di cui 3.241 randomizzati al trattamento con ivabradina e 3.264 trattati con placebo. Il follow-up mediano ? stato di 22,9 mesi. I risultati dello studio indicano come l’utilizzo della ivabradina diminuisca in modo significativo i rischi connessi allo scompenso cardiaco quando viene associata al trattamento standard, sia per l’endpoint primario che per la frequenza dei ricoveri. L’effetto favorevole sugli eventi cardiaci si ? manifestato entro tre mesi dall’inizio del trattamento e si ? mantenuto nel corso di tutto lo studio. Una ulteriore analisi condotta all’interno dello SHIFT, pubblicata sullo stesso numero di Lancet, mostra come la riduzione della frequenza cardiaca diminuisca il rischio in modo direttamente proporzionale all’entit? di tale riduzione. I pazienti con frequenza inferiore ai 60 battiti al minuto dopo 28 giorni hanno avuto minori eventi di endpoint composito primario rispetto ai pazienti con frequenze pi? elevate. I principali limiti dello studio sono i seguenti
i risultati si applicano a pazienti in ritmo sinusale selezionati sulla base di una frequenza cardiaca di base superiore o uguale a 70 battiti al minuto
sono stati esclusi i pazienti con fibrillazione atriale o flutter
la percentuale di pazienti anziani era bassa.
Non ? pertanto possibile generalizzare l’effetto dell’ivabradina sulla popolazione complessiva dei pazienti con scompenso cardiaco. Inoltre i risultati sono stati ottenuti con l’associazione di ivabradina + beta-bloccanti, e pertanto non ? possibile trarre conclusioni circa gli effetti dell’ivabradina da sola.?

Swedberg K et al. Lancet 2010; 376: 875-85
B?hm M et al. Lancet 2010; 376: 886-94

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Iperuricemia come marker di rischio nello scompenso cardiaco

Una analisi dei dati di laboratorio dei 1.152 ?pazienti con scompenso cardiaco, classe II/IV NYHA?e frazione di eiezione inferiore al 30%, arruolati dal 1992 al 1994 nel PRAISE Trial (The Prospective Randomized Amlodipine Survival Evaluation study), ha consentito a Wu e collaboratori di valutare il ruolo della iperuricemia e del suo trattamento quali predittori di rischio di morbilit? e mortalit? cardiovascolare. Le conclusioni dello studio (vedi figure accluse) indicano che
i pazienti in trattamento con allopurinolo e quelli dei quartili pi? alti di uricemia appartenevano al gruppo di pazienti con scompenso pi? grave, classe NYHA pi? elevata, maggior frequenza di insufficienza renale ed aumentato bisogno di diuretici
gli stessi gruppi avevano la pi? alta mortalit? totale (41,7 e 42,4 per 100 persone-anno, rispettivamente) ed un aumento di morbilit?/mortalit?? combinate (45,6 e 51,0 per 100 persone-anno, rispettivamente)
l’uso dell’allopurinolo ed il pi? alto quartile di uricemia erano anche predittori indipendenti di una aumentata mortalit? (HR 1,65, 95% CI 1,22-2,23, p=0,001 e HR 1,35, 95% CI 1,07-1,72, p=0,01, rispettivamente) e di un aumento di morbilit?/mortalit? combinate (quartile di uricemia 4 vs 1 = HR 1,32, 95% CI 1,06-1,66, p = 0,02; uso di allopurinolo = HR 1,48, 95% CI 1,11-1,99, p= 0,008).
Viene quindi riconfermato il ruolo dell’iperuricemia come predittore indipendente di mortalit? nei pazienti con grave disfunzione sistolica e questo vale anche in presenza?di terapia con allopurinolo.?

Wu AH et al. Am Heart J 2010; 160: 928

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Attivit? fisica e cancro della mammella post-menopausa

Sono ben conosciuti i benefici dell’attivit? fisica nelle malattie cardiovascolari, ma ormai sempre maggiori evidenze estendono questi benefici ad altri tipi di rischio, tra cui quello del ?cancro del seno nelle donne in menopausa. Tuttavia non ? chiaro il tipo, l’intensit?, la durata dell’attivit? necessarie e se l’associazione possa variare secondo i sottogruppi di cancro.
A questo riguardo gli Archives pubblicano una ricerca nell’ambito del Prospective Nurses Health Study volta a stabilire l’associazione dell’attivit? fisica specifica o generale col rischio di carcinoma della mammella, svolta per 20 anni, dal 1986 al 2006, con controlli ogni 2-4 anni. Durante i 20 anni di follow-up sono stati documentati circa 4.800 casi di carcinoma mammario in pi? di 95.000 donne in menopausa. Le pazienti che camminavano meno di un’ora la settimana correvano un maggior rischio di cancro rispetto a quelle che camminavano attivamente per almeno un’ora al giorno (p?

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Epidemiologia del dolore negli ultimi due anni di vita

? comparso sul numero del 2 novembre degli Annals of Internal Medicine un interessante e complesso studio, condotto nell’ambito dell’HRS (Health and Retirement Study), che valuta a mezzo di interviste periodiche e successivi approfondimenti lo stato di salute e la qualit? di vita dei pensionati statunitensi.
Nei due anni precedenti la morte (avvenuta successivamente per malattie cardiovascolari, cancro, morte improvvisa, fragilit? o altre cause) la prevalenza di dolore definito “moderato” o “severo” sale dal 30,7% fino al 46,7% nell’ultimo mese di vita fra i 4.073 partecipanti allo studio deceduti nei due anni considerati. La prevalenza di “dolore” fra tutti i 16.693 partecipanti all’HRS era intorno al 24%: il dolore clinicamente significativo presenta una impennata negli ultimi 4 mesi. Il sintomo dolore viene riferito in percentuale diversa fra i differenti gruppi etnici e classi sociali. Non vi ? differenza statisticamente significativa riferita alle diverse cause di morte; solo la presenza di patologia osteoarticolare (definita come “artrite”) correla statisticamente con il sintomo ed il 60% dei portatori di “artrite” riporta un dolore moderato o severo nell’ultimo mese di vita. Lo studio ha dei limiti: non approfondisce le cause del sintomo “dolore” o la presenza di terapia specifica efficace ed inoltre non ? stata eseguita una valutazione prospettica dei pazienti che lamentavano dolore ma solo una intervista puntuale; tuttavia ? evidente che la sofferenza cresce in ogni categoria di persone negli ultimi due anni di vita, si impenna significativamente negli ultimi 4 mesi ed ? generata da patologie comuni che non si ritiene abbiano un impatto diretto sulla sopravvivenza ma condizionano invece fortemente la qualit? di vita. I clinici debbono pertanto considerare con attenzione il trattamento del dolore – di ogni dolore – nei pazienti con malattie croniche, come pure nelle persone con malattie chiaramente terminali.?

Smith AK et al. The epidemiology of pain during the last 2 years of life.? Ann Intern Med 2010; 153: 563-569

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L’aspirina protegge dal rischio di cancro del colon

? nota tanto l’efficacia di dosi elevate (superiori a 500 mg/die) di ASA nel ridurre l’incidenza del cancro colo-rettale mediata dalla sua azione inibitoria sulla COX-2? (Baron JA et al. A randomized trial of aspirin to prevent colorectal adenomas. N Engl J Med 2003; 348: 891-899. Sandler RS et al. A randomized trial of aspirin to prevent colorectal adenomas in patients with previous colorectal cancer. N Engl J Med 2003; 348: 883-890. Benamouzig R et al. Daily soluble aspirin and prevention of colorectal adenoma recurrence: one-year results of the APACC trial. Gastroenterology 2003; 125: 328-336. Logan RFA et al. Aspirin and folic acid for the prevention of recurrent colorectal adenomas. Gastroenterology 2008; 134: 29-38. Cole BF et al. Aspirin for chemoprevention of colorectal adenomas: meta-analysis of the randomised trials. J Natl Cancer Inst 2009; 101: 256-266), quanto la potenziale limitazione di tale pratica terapeutica legata ai possibili effetti collaterali che ne possono derivare.
Per verificare se lo stesso effetto sia possibile anche?con la somministrazione di una posologia ridotta del farmaco (75-300 mg/die) sono stati rivalutati i risultati di 4 grandi studi clinici randomizzati (Thrombosis Prevention Trial, Swedish Aspirin Low Dose Trial, UK-TIA Aspirin Trial e Dutch TIA Aspirin Trial) che erano stati impostati per verificare l’efficacia dell’ASA in prevenzione primaria o secondaria. I dati raccolti sono stati numerosi e molto articolati; quelli di maggior interesse per risolvere il quesito che ci si era posto sono i seguenti
la somministrazione di ASA per un periodo mediano di 18 anni riduce il rischio di comparsa del tumore del colon (HR 0,76, CI 95% 0,60-0,96, p = 0,02 ) e di mortalit? ad esso correlata (HR 0,65, CI 95% 0,48-0,88, p = 0,005)
l’effetto protettivo si esplica a livello del colon prossimale ma non del colon distale
tale vantaggio non si riscontra neppure per il tumore del retto
il beneficio protettivo non ? maggiore per dosi di ASA superiori ai 75 mg/die.
Rothwell PM et al. Long-term effect of aspirin on colorectal cancer incidence and mortality: 20-year follow-up of five randomised trials. The Lancet 2010; 376: 1741

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Scoperti due geni correlati a coronaropatia e infarto miocardico

Esistono fattori genetici che predispongono in modo distinto allo sviluppo dell’aterosclerosi coronarica cos? come altri si limitano a favorire la comparsa di un infarto miocardico se si ? gi? in presenza di aterosclerosi coronarica. La scoperta ? frutto di un’ampia ricerca internazionale alla quale hanno partecipato Nicola Martinelli e Domenico Girelli dell’universit? di Verona. Dal punto di vista metodologico, l’indagine si ? basata sull’effettuazione di due studi di associazione dell’intero genoma con fenotipizzazione angiografica coronarica. In particolare, per individuare i loci che potessero specificamente predisporre a malattia coronarica angiografica, si sono confrontati soggetti portatori di tale disturbo (n=12.393) con persone sane (controlli, n=7.383); allo scopo di identificare i loci promotori di infarto miocardico, invece, si sono paragonati pazienti con malattia coronarica e infarto miocardico (n=5.783) con soggetti coronaropatici ma non infartuati (n=3.644). Grazie al raffronto tra coronaropatici vs controlli si ? giunti all’identificazione di un nuovo locus, l’Adamts7, mentre il confronto tra coronaropatici con o senza infarto ha portato a individuare una nuova associazione al locus AB0. Tale associazione ? stata attribuita alla carenza dell’enzima glicotransferasi che codifica per il fenotipo 0 del gruppo sanguigno AB0, gi? considerato elemento di protezione contro l’infarto miocardico. La correlazione a specifici fenotipi coronaropatici potrebbe modificare il modo in cui i nuovi loci vengano applicati nella valutazione del rischio individuale e utilizzati nello sviluppo di nuove terapie per le coronaropatie.?

Lancet, 2011 Jan 14. [Epub ahead of print]

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Nuovi dubbi sull’aspartame. Se ne occuper? l’Efsa

Un nuovo studio dell’Istituto Ramazzini di Bologna ribadisce la tesi di una possibile cancerogenicit? dell’aspartame e il dolcificante artificiale diventa oggetto di un’interrogazione parlamentare presentata alla Commissione europea. E l’Autorit? europea per la sicurezza alimentare (Efsa) dovr? occuparsi di valutarne la sicurezza, dopo che si era gi? espressa a favore dell’aspartame con due pareri, nel 2006 e nel 2009. ?Il risultato dello studio? spiega il professor Paolo Stacchini, responsabile del reparto sicurezza chimica nelle filiere alimentari dell’Istituto superiore di sanit? (Iss) ?non ? una novit? in assoluto. Non troppo tempo fa diverse ricerche, sempre dell’Istituto Ramazzini, condotte su animali in laboratorio, avevano rilevato evidenze di cancerogenicit? in alcuni casi?. Il gruppo Additivi dell’Authority aveva verificato l’attendibilit? delle ricerche, concludendo che ?non si evidenziavano problemi tali da dover rivedere l’attuale impiego dell’aspartame? e il Joint expert committee on food additives (Jecfa) di Fao/Oms, organismo omologo al gruppo Additivi era giunto ad analoghe conclusioni. A tranquillizzare sulla sicurezza dell’aspartame anche Assobibe, l’Associazione dei produttori italiani di bevande analcoliche, che afferma ?l’aspartame ? un ingrediente alimentare tra i pi? controllati tra quelli oggi in uso, approvato da pi? di 100 agenzie di regolamentazione in tutto il mondo, utilizzato in pi? di 100 paesi, da pi? di 30 anni per circa 6000 alimenti e bevande?.

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Aumento di mortalit? nei traumatizzati?trattati con warfarin

L’impiego di warfarin nei pazienti traumatizzati ? una strategia comune la cui prevalenza ? aumentata di anno in anno a partire dal 2002, ma il suo uso si ? rivelato un potente marker del rischio di mortalit?. Il dato emerge da un’analisi della National trauma databank, negli Stati Uniti, anche dopo aggiustamento per le comorbidit?. Lesly A. Dossett, del Vanderbilt university medical center di Nashville, e collaboratori giungono a queste conclusioni dopo aver effettuato un’analisi retrospettiva dei dati di 1.230.422 pazienti ricoverati in 402 centri di traumatologia, di cui 36.270 in trattamento con warfarin prima del trauma. La terapia con l’anticoagulante fra tutti i pazienti ? passata dal 2,3% del 2002 al 4,0% nel 2006 mentre nei pazienti con un’et? superiore a 65 anni l’uso ? aumentato dal 7,3% del 2002 al 12,8% del 2006. L’indagine ha evidenziato che il 9,3% dei pazienti che facevano uso di warfarin sono deceduti a fronte del 4,8% dei soggetti che non assumevano il farmaco, per un rapporto crociato (odds ratio, Or) pari a 2,02. Anche dopo aggiustamento per importanti variabili, l’uso di warfarin ? risultato associato a un aumento della mortalit? fra tutti i pazienti (Or: 1,72) e fra i pazienti anziani con un’et? uguale o superiore a 65 anni (Or: 1,38).

Arch Surg, 2011 Jan 17. [Epub ahead of print]

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