In considerazione dell’elevato rischio di malattia registrato tra i contatti familiari dei pazienti con tubercolosi multifarmaco-resistente (Mdr) o estremamente resistente (Xdr), i programmi contro la tubercolosi dovrebbero implementare indagini sistematiche familiari per tutti i pazienti che hanno contratto le malattie Mdr o Xdr. Inoltre, nel caso in cui nei familiari sia dimostrata la presenza di tubercolosi in fase attiva, dovrebbe essere preso in considerazione il sospetto di tubercolosi Mdr almeno fino a quando non emergano prove in senso contrario. Queste le conclusioni di uno studio retrospettivo condotto da Mercedes C. Becerra, dell’Harvard medical school di Boston, e collaboratori, su 693 familiari di pazienti indice affetti da tubercolosi Mdr nel periodo 1996-2003 a Lima (Per?). In 48 familiari il Mycobacterium tubercolosis isolato dal paziente indice era Xdr. Sui 4.503 contatti familiari, 117 (2,6%) soffrivano di tubercolosi in fase attiva nel momento in cui il paziente indice aveva iniziato il trattamento per la forma Mdr. Durante un follow-up della durata di 4 anni, 242 contatti hanno sviluppato tubercolosi in fase attiva: la frequenza di tubercolosi attiva era quasi due volte superiore nei contatti di pazienti affetti dalla forma Xdr rispetto ai contatti di pazienti con tubercolosi Mdr (hazard ratio: 1,88). Tra i 359 contatti con tubercolosi in fase attiva, 142 (40%) sono stati testati per verificare la resistenza ai farmaci di prima linea e ben 129 (90,9%) sono risultati infetti da tubercolosi Mdr.
Nuovi dati avversi al fumo passivo giungono da un’analisi retrospettiva condotta sui dati di 192 Paesi relativi al 2004 da Mattias ?berg, dell’istituto di Medicina ambientale del Karolinska institutet di Stoccolma, e collaboratori. In tutto il mondo, secondo la ricerca pubblicata su Lancet, in quell’anno sono stati esposti a fumo passivo il 40% dei bambini, il 33% degli uomini non fumatori di sesso maschile e il 35% delle donne non fumatrici. Si stima che tale esposizione abbia determinato 379.000 morti per cardiopatia ischemica, 165.000 per infezioni delle basse vie respiratorie, 36.900 per asma e 21.400 per cancro polmonare. Pi? in generale si ritiene che, nel solo 2004, siano attribuibili al fumo passivo 603.000 decessi, equivalenti a circa l’1,0% della mortalit? mondiale. Di questi, il 47% ha interessato donne, il 28% bambini e il 26% uomini. Gli anni di vita aggiustati per disabilit? (Dalys) perduti a causa del fumo passivo ammonterebbero a 10,9 milioni, ovvero lo 0,7% del carico globale di malattie nei Dalys del 2004, il 61% dei quali ha interessato bambini. Le patologie prevalenti sono state: infezioni respiratorie nei bambini di et? inferiore a 5 anni (5.939.000), cardiopatia ischemica negli adulti (2.836.000), e asma negli adulti (1.246.000) e nei bambini (651.000). Queste stime, sottolineano gli autori, suggeriscono che estendendo efficaci interventi clinici e di salute pubblica per ridurre il fumo passivo in tutto il mondo si potrebbero ottenere sostanziali guadagni di salute.
Nei pazienti con prostatite e sindrome del dolore pelvico cronico gli ?-bloccanti, gli antibiotici e le loro combinazioni, sembrano in grado di garantire, rispetto a placebo, un maggiore miglioramento dei punteggi dei sintomi clinici. Le terapie antinfiammatorie, invece, conferiscono un beneficio minore ma misurabile su outcome selezionati. Comunque, i positivi effetti degli ?-bloccanti potrebbero essere stati sovrastimati a causa del bias di selezione. Sono queste, in sintesi, le conclusioni di una revisione sistematica e di una metanalisi network eseguite da Thunyarat Anothaisintawee della Mahidol University di Bangkok (Thailandia) e collaboratori su 23 studi clinici. Gli ?-bloccanti rispetto a placebo riducono l’impatto sintomatologico, con differenze medie standardizzate di -1,7 per quanto riguarda i sintomi totali, -1,1 per il dolore, – 1,4 per la minzione e di -1,0 per la qualit? di vita. Insieme agli antinfiammatori (Rr: 1,8), gli ?-bloccanti (1,6) si caratterizzano per una pi? elevata probabilit? di ottenere una risposta favorevole rispetto a placebo. Si segnala tuttavia la presenza di un publication bias per gli studi pi? piccoli sulle terapie con ?-bloccanti. La metanalisi network, inoltre, evidenzia rispetto al placebo i benefici degli antibiotici nel ridurre i punteggi riguardanti sintomi totali (-9,8), dolore (-4,4), minzione (-2,8) e qualit? di vita (-1,9). La combinazione di ?-bloccanti e antibiotici determina i maggiori benefici rispetto a placebo con riduzioni dei punteggi relativi a sintomi totali (-13,8), dolore (-5,7), minzione (-3,7) e qualit? di vita (-2,8).
MILANO – Un’attivit? sessuale piena e piacevole protegge gli uomini dai problemi cardiovascolari. Soprattutto se lui ? fedele e felice in coppia, o se tradisce la partner solo saltuariamente. Lo affermano alcuni studi che saranno presentati al congresso della Societ? italiana di andrologia e medicina della sessualit? (Siams), dal 4 al 6 novembre a Modena STRESS E SENSI DI COLPA – In uno degli studi, realizzato dal Dipartimento di fisiopatologia clinica dell’Universit? di Firenze, ? stato esaminato un campione di 4mila uomini fotografando il rapporto di coppia, le disfunzioni sessuali e il livello di testosterone. I dati sono stati incrociati con quelli dei registri delle Asl sugli eventi cardiovascolari. Uno dei risultati ? che gli infedeli occasionali hanno un pi? basso rischio cardiovascolare, ma il vantaggio viene perso se l’amante ? fissa. Chi mantiene un rapporto parallelo a lungo dichiara di vivere un maggiore livello di stress al lavoro, pi? conflitto nella coppia primaria e nella famiglia e sensi di colpa. Una situazione che induce l’uomo ad adottare comportamenti a rischio: aumento del peso corporeo, tensioni sul lavoro e a casa, abuso di alcol e fumo. Al contrario, se gli uomini sono fedeli, il testosterone svolge un ruolo protettivo, ma solo se la coppia ? affiatata fisicamente: la quantit? dell’ormone ? influenzata anche dalla qualit? dei rapporti sessuali. Sono d’altra parte gli uomini fedeli a soffrire di pi? di ipogonadismo (calo di produzione di ormoni androgeni), soprattutto se si sentono trascurati dalla partner. In tal caso subentrano i sintomi del cosiddetto “effetto della vedovanza”, che induce i neovedovi a curarsi di meno, a una maggiore depressione e a morire prima del tempo a causa di patologie cardiovascolari. Al contrario, dall’indagine emerge che l’interesse erotico femminile percepito dall’uomo ? gi? sufficiente ad abbassare il rischio cardiovascolare. ?Il circolo virtuoso ? semplice: pi? sesso uguale pi? testosterone, meno depressione, migliore performance cardiovascolare, miglior metabolismo – spiega Emmanuele Jannini, coordinatore della commissione scientifica Siams -. I dati dimostrano che l’attivit? sessuale frequente e soddisfacente dovrebbe essere prescritta come una medicina per curare patologie psichiche (depressione), relazionali (problemi di coppia), dismetabolismi: a letto si recupera la linea e un diabetico che ha una buona attivit? sessuale si cura meglio. Il sesso ? utile addirittura per prevenire neoplasie come quelle della prostata?. BRUCIANO GLI ZUCCHERI – Su un piano strettamente fisico, l’attivit? sotto le lenzuola fa “bruciare” meglio lo zucchero nel sangue e migliora il metabolismo. Sempre merito del testosterone, in grado di ridurre la resistenza all’insulina, gli stati infiammatori e la massa grassa corporea. Al contrario, quando l’amore si spegne o ? conflittuale, peggiora la sindrome metabolica, aumentano le citochine infiammatorie e il rischio cardiovascolare. Questo aspetto ? stato approfondito in particolare da una ricerca del Dipartimento di fisiopatologia medica dell’Universit? La Sapienza di Roma su 45 uomini di mezza et? con ipogonadismo e sindrome metabolica. Durante lo studio sono stati studiati i livelli di insulina, la composizione corporea e le citochine infiammatorie dei pazienti. ?All’ipogonadismo si associa frequentemente la comparsa della sindrome metabolica o da insulino-resistenza, una situazione ad alto rischio cardiovascolare e che riguarda una fetta elevata di popolazione in et? matura – spiega Andrea Lenzi, direttore della ricerca e docente di endocrinologia alla Sapienza -. Somministrando testosterone al campione abbiamo scoperto che la capacit? dell’insulina di fare entrare zuccheri nelle cellule aumenta in media del 25%, mentre le citochine diminuiscono del 20%, riducendo cos? gli stati pro-infiammatori. Inoltre, migliora la composizione della massa magra corporea a scapito della grassa. Questi fattori predispongono alla comparsa di patologie a carico del sistema cardiocircolatorio, al diabete e alle patologie cardiocircolatorie
Una dieta povera di proteine pu? aiutare a combattere la degenerazione muscolare causata da malattie come la distrofia. Ma pi? in generale, mangiare meno carne potrebbe contribuire a rallentare i processi di invecchiamento. Lo suggerisce uno studio italiano finanziato da Telethon e pubblicato su ‘Nature Medicine’, condotto da Paolo Bonaldo, dell’universit? di Padova, e Marco Sandri, dell’Istituto veneto di medicina molecolare e dell’ateneo padovano. Alla ricerca hanno collaborato anche altri ricercatori Telethon, come Luciano Merlini dell’universit? di Ferrara, Nadir Maraldi dell’Istituto ortopedico Rizzoli di Bologna e Paolo Bernardi dell’universit? di Padova
Il team italiano ha dimostrato per la prima volta che si possono migliorare i sintomi della miopatia di Bethlem e della distrofia muscolare di Ullrich controllando la cosiddetta autofagia, il processo fisiologico che rimuove dalle cellule sostanze tossiche o porzioni cellulari danneggiate. Le due malattie genetiche rare – spiega Telethon in una nota – sono dovute a un difetto nel collagene VI, la proteina responsabile dell’ancoraggio delle fibre muscolari alla loro struttura esterna di supporto (la matrice). Nel 2008 gli stessi ricercatori avevano dimostrato che il difetto genetico causa un’alterazione dei mitocondri, le centrali energetiche delle cellule: con la progressione della malattia, i mitocondri difettosi si accumulano nelle cellule muscolari e le portano alla morte. Ora gli scienziati hanno osservato che questi meccanismi sono strettamente correlati a una inefficiente autofagia sia nei topi distrofici sia nelle biopsie muscolari prelevate dai pazienti. Hanno provato inoltre che, grazie a una dieta povera di proteine o a un trattamento farmacologico ad hoc, si pu? promuovere la ‘pulizia cellulare’ nei topi distrofici quanto basta per rimuovere i mitocondri difettosi e mantenere le fibre muscolari pulite dalle sostanze di scarto. In questo modo si ottiene un miglioramento significativo della salute dei muscoli, che nel modello animale si ? tradotto anche in un aumento della forza muscolare. “L’autofagia ? molto importante per un riciclo ‘intelligente’ delle sostanze che si accumulano nella cellula – spiega Bonaldo – Fornisce energia quando l’apporto metabolico ? insufficiente ed evita la morte cellulare quando la cellula ? affollata da materiali di scarto. Poterla controllare con la dieta o con un trattamento farmacologico mirato potrebbe rivelarsi una strategia vincente per contrastare la progressione della distrofia di Ullrich e della miopatia di Bethlem”. Pi? in generale, ritengono gli scienziati, “il controllo dell’autofagia potrebbe contribuire a contrastare l’invecchiamento delle cellule legato all’et?: consumando una dieta povera di proteine e di aminoacidi e facendo tanto movimento, si pu? ‘dare una mano’ ad attivare questo meccanismo e a mantenere attivo il metabolismo basale del nostro corpo”, puntualizzano gli studiosi. “E’ importante per? mantenere un giusto equilibrio”, avverte Sandri. Infatti, “se l’autofagia viene attivata in modo eccessivo la cellula ? portata di fatto ad ‘autodigerirsi’ e quindi a morire. Occorre quindi poter controllare questa attivazione: come accade generalmente in natura, il giusto equilibrio ? sempre la strategia vincente”.
Un vaccino ricombinante contro il virus dell’epatite E si ? dimostrato efficace e ben tollerato nella prevenzione della malattia. Il prodotto, denominato Hev 239 e sviluppato in Cina, ? stato oggetto di uno studio clinico randomizzato, in doppio cieco e placebo controllato di fase 3 cui hanno partecipato soggetti di et? compresa tra 16 e 65 anni suddivisi in due gruppi di trattamento: nel primo si ? proceduto alla vaccinazione con tre dosi di Hev 239 (n=56.302) e nel secondo con tre dosi di placebo (ovvero un vaccino per l’epatite B) (n=56.302) somministrate per via intramuscolare al mese 0, 1 e 6. I soggetti arruolati sono stati seguiti per 19 mesi. Tre dosi di vaccino anti-Hev sono state somministrate nell’86% dei partecipanti inseriti nel gruppo trattato con Hev 239 cos? come l’86% dei soggetti del gruppo placebo ha ricevuto tre iniezioni di placebo. I dati raccolti in questi soggetti sono stati utilizzati per l’analisi primaria di efficacia. Nel corso dei 12 mesi successivi ai 30 giorni dopo la somministrazione della terza dose, 15 partecipanti per protocollo hanno sviluppato epatite E nel gruppo placebo mentre nessun caso di malattia ? stato osservato nel gruppo avviato alla vaccinazione. L’efficacia del vaccino dopo tre dosi era pari al 100%. Gli eventi avversi attribuibili al vaccino erano poco numerosi e di lieve entit?: non ? stato registrato alcun caso di gravi eventi avversi correlati alla vaccinazione. L’indagine ? stata condotta nella provincia cinese di Jiangsu da Feng-Cai Zhu e collaboratori del Centro provinciale per il controllo e la prevenzione delle malattie di Nanjing.
L’obesit? nell’adolescenza si associa in modo significativo a un aumento del rischio di grave obesit? incidente nell’adulto, con variazioni in base al sesso e all’etnia. Il dato emerge da un’indagine condotta dall’?quipe di Natalie S. The, del dipartimento di Nutrizione dell’university of North Carolina, a Chapel Hill. La ricerca ha coinvolto una coorte di 8.834 ragazzi, di et? compresa tra 12 e 21 anni, facenti parte dell’Us National longitudinal study of adolescent health, arruolati nel 1996 e sottoposti a follow-up in et? adulta (tra i 18 e 27 anni nel 2001-2002 e tra 24 e 33 anni nel 2007-2009). I nuovi casi di grave obesit? sviluppatisi in et? adulta sono stati calcolati tenendo conto del genere, dell’etnia e delle condizioni di peso corporeo in et? adolescenziale. L’obesit? adolescenziale era definita da un indice di massa corporea (Bmi) =/> 95? percentile del valore previsto dalle carte di crescita specifiche per et? e sesso oppure da un Bmi =/> 30 in soggetti di et? inferiore a 20 anni. L’obesit? severa dell’et? adulta comprendeva invece un Bmi =/> 40 a partire dai 20 anni d’et?. Nel 1996, 79 adolescenti (1,0%) erano fortemente obesi; di questi, 60 (70,5%) lo erano ancora in et? adulta. Nel 2009, 703 adolescenti che non erano gravemente obesi all’inizio della ricerca (7,9%) erano diventati tali in et? adulta, con i tassi pi? alti registrati nelle donne nere non ispaniche. Gli adolescenti obesi erano esposti a un rischio significativamente maggiore di sviluppare obesit? severa in et? adulta rispetto agli adolescenti normopeso o in sovrappeso (rapporto di rischio: 16,0). JAMA, 2010; 304(18): 2042-7
Negli uomini l’et? influenza negativamente le caratteristiche cliniche dei tumori uroteliali della vescica: la percentuale di tumori sfavorevoli aumenta con l’et?. Variazioni degne di nota della differenziazione tumorale iniziano ad apparire a partire dall’et? di 50 anni e la storia naturale della neoplasia sembra differire in base alla presenza di ipertrofia/iperplasia prostatiche benigne. Si nota la tendenza a presentare un carcinoma con caratteristiche sfavorevoli negli uomini cui sono state diagnosticate ipertrofia/iperplasia prostatiche benigne. Queste informazioni scaturiscono da uno studio condotto da Nian-zhao Zhang, del dipartimento di Urologia dell’ospedale Qilu, presso l’universit? di Shandong a Jinan (Cina), e collaboratori, su 356 pazienti con nuova diagnosi di tumori uroteliali della vescica: in questo gruppo di tumori la percentuale di carcinomi aumentava in modo significativo con l’et? mentre sono state riscontrate differenze fra i tre gruppi d’et? nella distribuzione dei carcinomi di grado elevato. La percentuale di carcinomi di grado elevato aumentava in modo significativo insieme all’et? soprattutto nei casi di carcinoma non invasivo del comparto muscolare: le differenze risultavano significative fra il gruppo con et? =/< 50 anni e i gruppi di et? compresa tra 51 e 69 anni e =/> 70 anni. Un dato interessante ? che i pazienti con ipertrofia/iperplasia prostatiche benigne avevano una diagnosi pi? frequente di tumori scarsamente differenziati rispetto ai soggetti non portatori di patologia prostatica benigna: l’analisi di regressione logistica ha confermato le associazioni fra ipertrofia/iperplasia prostatiche benigne e carcinoma sfavorevole.
La steatosi epatica non alcolica (Nafld) ? correlata alla steatosi pancreatica non alcolica (Ps). Questa relazione sembra essere mediata dall’obesit?. Inoltre il grasso intralobulare pancreatico ? associato alla steatoepatite non alcolica (Nash). Sono le conclusioni di Erwin-Jan M. Geenen, del dipartimento di Gastroenterologia ed epatologia del Centro medico universitario di Amsterdam, e collaboratori, autori di uno studio condotto su materiali raccolti post-mortem di 80 pazienti, i cui dati clinici e istologici sono stati ricercati e riesaminati. Non sono stati inclusi nell’analisi soggetti con malattia epatica o pancreatica ma con storia di potus. Per attribuire un grado istologico di malattia al fegato si ? usato il Fatty liver disease activity score, mentre la valutazione della gravit? della Ps ? stata effettuata mediante Pancreatic lipomatosis score. Per analizzare le correlazioni si ? ricorso alla regressione logistica ordinale. Il grasso pancreatico, sia interlobulare sia totale, ? apparso correlato al punteggio di attivit? Nafld nei pazienti non in trattamento con farmaci steatogeni; quando veniva applicata una correzione per l’indice di massa corporea, per?, non si poteva riscontrare alcuna correlazione. Il grasso pancreatico totale si ? dimostrato un fattore predittivo significativo per la presenza di Nafld, mentre il grasso pancreatico intralobulare, ma non quello totale, ? risultato correlato alla Nash.
Il trattamento con interferone pegilato (Peg-Ifn), nei pazienti con epatite B cronica positivi all’antigene e (HBeAg), induce un significativo declino dei livelli sierici dell’antigene di superficie (HBsAg). I soggetti che non vanno incontro a riduzione di HBsAg dopo 12 settimane di terapia hanno poche probabilit? di sviluppare una risposta sostenuta e nessuna chance di perdere HBsAg e pertanto dovrebbero essere avviati all’interruzione del trattamento. Sono le conclusioni di uno studio olandese, condotto a Rotterdam da Milan J. Sonneveld e collaboratori del Centro medico dell’universit? Erasmus. Sono stati coinvolti 221 pazienti trattati con Peg-Ifn alfa-2-b, con o senza lamivudina, per 52 settimane. I livelli sierici di HBsAg sono stati misurati in campioni raccolti al basale e alle settimane 4, 8, 12, 24, 52 e 78 e il declino dell’antigene ? stato confrontato tra bracci di trattamento e tra pazienti responsivi e non responsivi alla terapia. La risposta al trattamento ? stata definita come perdita di HBeAg con HBv Dna < 10.000 copie/ml alla settimana 26 dopo la terapia (settimana 78); 43 pazienti su 221 (19%) hanno ottenuto una risposta. Dopo un anno di somministrazione di Peg-Ifn, con o senza lamivudina, si ? registrato un calo significativo di HBsAg nel siero, che ? persistito dopo il trattamento (declino: 0,9 log UI/ml alla settimana 78). I pazienti trattati con terapia di combinazione hanno avuto una diminuzione pi? pronunciata in corso di trattamento, ma successivamente si sono viste ricadute. I soggetti responder hanno manifestato un declino di HBsAg sierico ancora pi? evidente rispetto ai non responder (declino alla settimana 52: 3,3 vs 0,7 log UI/mL). I pazienti che non ottenevano un calo alla settimana 12 avevano una probabilit? del 97% di mancata risposta al follow-up post-trattamento e nessuna possibilit? di perdere HBsAg. In un sottogruppo rappresentativo di 149 soggetti, si sono ottenuti risultati simili per la predizione della risposta al trattamento a un follow-up di lungo termine (in media 3,0 anni).
Hepatology, 2010 Jul 29.