La Suprema corte ha confermato la sentenza di condanna al risarcimento del danno a carico della Azienda ospedaliera e del primario del reparto di terapia intensiva di cardiologica in favore del paziente che subiva gravi lesioni a causa della fuoriuscita di liquidi di infusione venosa dal sistema della vena basilica di destra somministrati per fronteggiare una sindrome cardiocircolatoria acuta. Si sosteneva, a difesa, che del tutto illogicamente si era attribuita una responsabilit? al personale medico ed in particolare al primario, dovendosi assolutamente escludere che il medico risponda di una attivit? meramente pratica, quale quella di controllo delle quantit? dei farmaci somministrati mediante infusione in vena, riconducibile in realt? al personale parasanitario. La Corte di cassazione civile, sottolineando come non fossero in discussione la validit? e l’efficacia della terapia prescelta, bens? le modalit? con cui essa venne eseguita, ha confermato la condanna, rilevando l’assenza di provada parte degli interessati (ospedale e primario) che l’evento di danno fosse in concreto dipeso da un avvenimento imprevisto ed imprevedibile.
In Italia si stima che oltre 1 milione di persone abbia contratto l’infezione cronica da Hcv e in Europa sono 9 milioni, con un gradiente decrescente da nord a sud e da est a ovest, destinato per? a modificarsi in conseguenza degli attuali flussi migratori. ? sulla base di questi numeri emersi a Milano nel corso di un media tutorial sull’argomento, nonch? sulla maggior accuratezza nella diagnosi e prognosi e sull’efficacia e sicurezza delle cure, raggiunte in questo ultimo decennio, che un gruppo di esperti si recher? a Bruxelles il prossimo ottobre a chiedere di estendere lo screening dell’infezione C a segmenti di popolazione sempre pi? vasti. ?La diagnosi precoce ? molto importante perch? permette di curare la malattia in uno stadio iniziale e quindi con maggiori probabilit? di successo – spiega Patrick Marcellin, professore di Epatologia all’universit? di Parigi – La gravit? e lo stadio della malattia influiscono, infatti, sul risultato del trattamento e sono fattori determinanti per la selezione dei pazienti con maggiore probabilit? di risposta ai farmaci?. ?In futuro – continua Massimo Colombo, ordinario di Gastroenterologia, universit? degli Studi di Milano – la ricerca porter? all’introduzione di farmaci antivirali diretti, da associare all’attuale terapia duale a base di peginterferone e ribavirina. La prospettiva ? quella di individuare le infezioni asintomatiche in stadio precoce e bloccarle prima della loro evoluzione, con un auspicabile e realistico calo dell’incidenza dei tumori epatici?.
Non sono tante le ricerche volte a dimostrare se esista una correlazione tra la concomitanza di pi? terapie farmacologiche e la frattura dell’anca nei soggetti anziani. Questo studio caso-controllo, condotto da ricercatori di Taiwan, ? stato portato a termine con l’intenzione di fornire dati inconfutabili su questo problema. I dati raccolti sono stati estrapolati dal database della Taiwan bureau of national health insurance, compagnia assicurativa che garantisce una copertura assistenziale al 98% degli abitanti dell’isola. Sono stati identificati 2.328 pazienti anziani che, negli anni compresi tra il 2005 e il 2007, avevano subito una frattura dell’anca. Per l’effettuazione della ricerca ? stato considerato anche un gruppo di controllo costituito da 9.312 individui senza la lesione ossea, selezionati in modo randomizzato. Nella raccolta dei dati sono stati presi in esame le caratteristiche dei pazienti, le terapie farmacologiche e tutti i tipi di fratture d’anca che si sono registrate. Rispetto al gruppo di controllo, i pazienti fratturati erano pi? anziani, assumevano almeno cinque farmaci al giorno ed erano composti maggiormente da donne. L’odds ratio (Or) della frattura d’anca ? apparsa aumentata contestualmente al numero di farmaci usati ogni giorno e con l’et?. In particolare, l’Or di chi assumeva dieci o pi? farmaci al giorno ? risultata pari a 8,42 effettuando un confronto con chi invece prendeva 0-1 medicine al giorno. Se a questo dato aggiungiamo anche l’et?, emerge che, nei pazienti over 85 che assumevano dieci o pi? farmaci al giorno, la probabilit? di andare incontro a un danno osseo cresceva fino a 23 volte rispetto a soggetti di et? compresa tra 65 e 74 anni che seguivano una terapia con 0-1 farmaci al giorno. I ricercatori hanno concluso quindi che il rischio di frattura dell’anca negli anziani aumenta in proporzione al numero dei farmaci usati, in particolare nelle donne; inoltre, maggiore ? l’et? e pi? il pericolo “frattura” ? incombente.
Nelle donne affette da sanguinamento mestruale idiopatico severo, il rilascio di levonorgestrel attraverso un sistema intrauterino riduce la perdita ematica in modo pi? efficace e con maggiori probabilit? di successo rispetto alla somministrazione orale (Os) di medrossiprogesterone acetato. Il dato scaturisce da una multicentrica randomizzata condotta su 165 donne di almeno 18 anni d’et? e con sanguinamento mestruale severo (perdita di almeno 80 mL per ciclo), randomizzate a ricevere uno dei due tipi di terapia. I dati di efficacia e sicurezza di sei cicli di trattamento con un sistema intrauterino a rilascio di levonorgestrel, condotti in 82 pazienti, sono stati dunque confrontati con quelli basati sull’assunzione di medrossiprogesterone acetato per Os (10 mg/die per dieci giorni, partendo dal 16? di ogni ciclo) effettuati in 83 pazienti. Al termine dello studio, la riduzione assoluta della perdita mediana di sangue mestruale ? risultata significativamente maggiore nel gruppo trattato con levonorgestrel a rilascio intrauterino (-128,8 mL) rispetto al gruppo medrossiprogesterone (-17,8 mL). La percentuale di donne in cui l’esito del trattamento ? stato coronato da successo (inteso come emorragia inferiore a 80 mL e minore del 50% o pi? rispetto al basale) ? risultata significativamente pi? alta nel gruppo levonorgestrel (84,8%) rispetto a quello medrossiprogesterone (22,2%).
L’evidenza a sostegno dell’impiego di estrogeni per la prevenzione e la gestione del prolasso degli organi pelvici in post-menopausa ? tuttora limitata: sono dunque necessari rigorosi studi clinici randomizzati e con follow-up a lungo termine per valutare il ruolo di questi ormoni, soprattutto come trattamento aggiuntivo per le donne che usano il pessario vaginale, e anche prima e dopo la chirurgia di correzione del prolasso. Emergono, tuttavia, due osservazioni interessanti: l’impiego di estrogeni insieme agli esercizi per la muscolatura del pavimento pelvico pu? ridurre l’incidenza di cistite post-operatoria, mentre raloxifene somministrato per via orale pu? ridurre il ricorso alla chirurgia per il prolasso nelle donne over-60, sebbene tale strategia non possa essere assunta come un’indicazione per la pratica clinica. Questo ? quanto si evince dai risultati di una revisione sistematica Cochrane degli studi controllati relativi alla prevenzione e al trattamento del prolasso pelvico mediante estrogeni o farmaci ad azione estrogenica. Gli autori, Sharif I. Ismail e collaboratori del Dipartimento di ostetricia e ginecologia del Singleton Hospital a Swansea (Regno Unito), hanno identificato tre trial e una metanalisi di altri tre studi sugli effetti avversi. Due trial includevano 148 donne con prolasso, uno studio 58 donne in postmenopausa e la metanalisi una popolazione mista (con o senza prolasso) di 6.984 donne in postmenopausa. La metanalisi e un altro piccolo studio hanno indagato l’effetto dei modulatori selettivi del recettore degli estrogeni (Serm) per il trattamento o la prevenzione dell’osteoporosi, ma hanno anche prodotto dati relativi agli effetti sul prolasso. Le terapie sperimentate comprendevano estradiolo, estrogeni coniugati equini e i Serm raloxifene e tamoxifene. Un trial di piccole dimensioni ha evidenziato una riduzione dell’incidenza di cistite nelle prime quattro settimane dopo l’intervento nelle pazienti trattate con estradiolo per tre settimane prima di essere sottoposte a correzione chirurgica del prolasso; gli autori precisano comunque che questo risultato deve essere confermato da uno studio di maggiori dimensioni. Una metanalisi sugli eventi avversi di raloxifene, utilizzato nell’ottica della prevenzione dell’osteoporosi in postmenopausa, ha mostrato una riduzione statisticamente significativa della necessit? di ricorrere alla chirurgia dopo tre anni di follow-up (Or: 0,50); tale risultato, per?, raggiungeva la significativit? statistica solo nelle pazienti di et? superiore a 60 anni (Or: 0,68) e il numero totale di donne avviate all’intervento per il prolasso era piccolo.
Un’intensa esposizione all’etanolo in fase prenatale riduce il numero di nefroni, probabilmente a causa di un’inibita morfogenesi delle ramificazioni ureteriche, e ci? pu? influenzare negativamente le funzioni cardiovascolare e renale in et? adulta. Questa ricerca si ? posta l’obiettivo di approfondire le conseguenze della presenza di alti dosaggi di etanolo durante la gravidanza su dotazione di nefroni, pressione arteriosa media e funzionalit? renale nella prole. Lo studio, condotto su modello animale della fase di sviluppo embrionale, prevedeva la somministrazione di etanolo o una formulazione salina, nei giorni 13,5 e 14,5. Al compimento del primo mese, chi aveva ricevuto etanolo presentava un numero di nefroni inferiore rispetto ai controlli: tale riduzione era pari al 15% nei maschi e al 10% nelle femmine. La pressione arteriosa media nel gruppo etanolo era maggiore del 10% rispetto al gruppo di controllo. Inoltre, negli embrioni esposti all’etanolo il tasso di filtrazione glomerulare (Gfr) ? risultato maggiore del 20% nei maschi ma del 15% minore nelle femmine. Da notare, infine, che le cellule embrionali renali esposte all’etanolo per 48 ore in coltura hanno evidenziato una riduzione del 15% dei punti di diramazione ureterali rispetto ai controlli.
Uno studio multicentrico italiano, condotto dall’Hpv prevalence italian working group e guidato da Paolo Giorgi Rossi e Francesca M. Carozzi, ha valutato la distribuzione dei tipi di papillomavirus umano coinvolti nella comparsa di carcinoma cervicale invasivo e di neoplasia intraepiteliale cervicale 2/3 (Cin2/3). I ricercatori hanno osservato che la proporzione di carcinomi invasivi, causati da Hpv16/18, diminuisce con l’et? al momento della diagnosi e che il rischio assoluto di carcinoma cervicale invasivo, dovuto a Hpv non-16/18, ? molto ridotto nelle donne di et? inferiore ai 35 anni. Ci? potrebbe suggerire di innalzare l’et? in cui dovrebbe iniziare lo screening pubblico nelle donne sottoposte a vaccinazione. La ricerca si ? svolta in otto strutture ospedaliere distribuite in sei regioni dell’Italia centro-meridionale. Tra i 1.162 casi selezionati inizialmente, 722 campioni sono stati ulteriormente analizzati, ottenendo i seguenti risultati: 144 Cin2, 385 Cin3, 157 carcinomi squamosi invasivi e 36 adenocarcinomi. La proporzione di Hpv16/18 ? risultata, rispettivamente, pari a 60,8% nei casi Cin 2, 76,6% in quelli Cin 3 e 78,8% nei carcinomi invasivi. Si ? anche registrata una significativa tendenza alla riduzione, correlata all’et?, del coinvolgimento di Hpv16/18 nei cancri invasivi: da un valore pari al 92% nelle donne di et? inferiore ai 35 anni, si scende fino a 73% in quelle di et? superiore a 55 anni. La proporzione di coinfezioni si ? attestata sul 16,8% nei casi Cin2, sul 15,5% nei Cin3 e sul 15,5% nei carcinomi invasivi.
Si stima che negli USA 0,5-3 milioni di soggetti siano affetti Sindrome di Sjogren (SS), con netta prevalenza nel sesso femminile. Una grande variet? di farmaci sistemici e topici ? disponibile per il trattamento della SS, tuttavia non sono attualmente disponibili linee guida terapeutiche evidence-based. Una review, recentemente pubblicata su JAMA, effettua un’approfondita analisi di 37 trials clinici controllati randomizzati comparsi in letteratura tra il 1986 e il 2010 con lo scopo di fornire un utile update sugli attuali approcci terapeutici della SS. La review documenta un livello di evidenza molto basso per la maggior parte dei farmaci impiegati, tuttavia alcune raccomandazioni possono essere proposte. Nel trattamento della xeroftalmia sono utili lacrime artificiali, gel protettivi (usualmente riservati per la notte) e impiego topico di Ciclosporina 0,05%. Pazienti con secchezza oculare severa potrebbero beneficiare dell’utilizzo topico di FANS o glucocorticoidi. Sostituti della saliva sono utili in presenza di xerostomia lieve-moderata; alcool e fumo vanno evitati e fondamentale ? l’igiene orale; nei pazienti con residua funzione delle ghiandole salivari l’uso di pilocarpina orale e cevimelina (non in commercio in Italia) rappresenta il trattamento di scelta. Non si sono evidenziati benefici significativi sui sintomi generali (artromialgie, astenia) con l’impiego di idrossiclorochina. Vi sono inoltre limitate evidenze sull’utilit? di glucocorticoidi e/o immunosoppressori nel trattamento delle manifestazioni extraghiandolari. Infine, agenti come gli anti-TNFalfa non hanno dimostrato efficacia clinica e sono necessari trial randomizzati pi? ampi per verificare l’efficacia del Rituximab.
Nel 2007 la pubblicazione della meta-analisi di Nissen (N Engl J Med 2007;356:2457-71) sulla sicurezza cardiovascolare dell’impiego del rosiglitazone evidenziava un significativo aumento del rischio di infarto del miocardio e un incremento di mortalit? per cause cardiovascolari nei pazienti diabetici trattati con tale farmaco. Successive meta-analisi non hanno completamente confermato i dati di Nissen e negli ultimi mesi ? stato pubblicato su JAMA un ulteriore studio condotto dalla FDA con lo scopo di confrontare il rischio di complicanze cardiovascolari in pazienti trattati con Rosiglitazone (R) o con Pioglitazone (P). Durante il periodo in esame (3 anni) sono stati osservati 8.667 eventi su una popolazione di 227.571 soggetti di et? maggiore/uguale di 65 anni. L’Hazard Ratio aggiustato (HR) per il R vs P ? stato 1,06 per l’IMA, 1,27 per lo stroke, 1,25 per lo scompenso, 1,14 per la mortalit? e 1,18 per l’end-point composito. Il rischio attribuibile per l’end-point composito ? di 1,68 eventi in eccesso per 100 anni-persona nel gruppo trattato con R rispetto a P. Il corrispondente NNH (Number Needed to Harm) ? risultato pari a 60 soggetti trattati per un anno. I dati sono riportati nella figura 1 e nella figura 2. Quasi contemporaneamente alla pubblicazione di questo studio, Nissen ha pubblicato un aggiornamento della propria meta-analisi (nella quale sono stati inseriti tutti i trial clinici controllati che avevano valutato l’end-point per le complicanze cardiovascolari in seguito all’impiego del R. La meta-analisi (su 56 studi) conferma un significativo aumento del rischio di infarto del miocardio ma non di mortalit? cardiovascolare nei gruppi trattati con R. In conclusione: ? secondo Graham (R vs P) maggior rischio di stroke, scompenso cardiaco, mortalit? per tutte le cause e un aumentato rischio dell’outcome composito (infarto miocardico acuto, stroke, scompenso cardiaco o mortalit? da tutte le cause) nei pazienti di et? maggiore/uguale di 65 anni; ? secondo Nissen (rischio del R) significativo aumento del rischio di infarto del miocardio ma non di mortalit? cardiovascolare. Graham DJ et al. JAMA 2010;304(4):411-418. Nissen SE et al. Arch Intern Med 2010;170(14):1191-1201.
Sono stati recentemente pubblicati i risultati di uno studio olandese, il Vertos II (iniziato nel 2005 e concluso nel Giugno del 2008), per verificare efficacia e sicurezza della vertebroplastica percutanea (VP) quale trattamento del dolore secondario a fratture vertebrali osteoporotiche. L’esperienza ha coinvolto i Dipartimenti di Radiologia di 6 Ospedali del Belgio e dei Paesi Bassi per un totale di oltre 400 Pazienti di et? superiore ai 50 anni randomizzati “in aperto” a ricevere la procedura percutanea o l’abituale trattamento conservativo. I criteri di inclusione prevedevano la presenza di un dolore con punteggio VAS = o superiore a 5 da pi? di 6 settimane correlabile con una frattura da compressione vertebrale evidenziata dalla diagnostica radiologica per immagine (minimo 15% di perdita in altezza, livello di fratture Th5 o inferiore, edema osseo alla RM). L’end point primario era il sollievo dal dolore a 1 mese e a 1 anno misurato in termini di punteggio VAS. L’analisi ? stata per intention to treat. Dei 431 Pazienti selezionati, sono stati avviati alla sperimentazione solamente la met? poich? i rimanenti hanno avuto una remissione spontanea della sintomatologia dolorosa: 101 pazienti sono stati sottoposti alla VP e 101 sono stati trattati con terapia conservativa. Questi i risultati: ? a 1 mese dalla procedura, la differenza della valutazione individuale del dolore con scala analogica visiva (VAS) rispetto al basale ? stata significativamente favorevole per la vertebroplastica: -5,2 (95% CI 5,88 -4,72) vs -2,7 (95% CI -3,22 -1,98) ? tale differenza a favore della procedura si ? mantenuta anche a un anno dalla medesima: -5,7 (95% CI -6,22 -4,98) vs -3,7 (95% CI -4,35 -3,05) ? lo score medio di differenza fra il trattamento con vertebroplastica e quello conservativo ? stato di 2,6 (95% CI 1,74-3,37; p <0,0001) a 1 mese e 2,0 (95% CI 1,13-2,80; p <0,0001) a 1 anno ? non sono state segnalate complicanze gravi o eventi collaterali. Questa l’interpretazione conclusiva degli autori: in un sottogruppo di pazienti con gravi fratture osteoporotiche da compressione vertebrale e con dolore persistente, la vertebroplastica percutanea ? efficace e sicura. Il sollievo dal dolore dopo tale procedura ? significativamente maggiore di quello ottenuto con il trattamento conservativo, ? rapido, si mantiene per almeno un anno e ha un costo accettabile.
Klazen CA et al. Vertebroplasty versus conservative treatment in acute osteoporotic vertebral compression fractures (Vertos II): an open-label randomised trial. Lancet 2010;376:1085.