Ranitidina in trattamenti con Clopidogrel

Sulla scorta di oggettive preoccupazioni riguardanti una possibile, negativa interazione della co-somministrazione di Clopidogrel e PPI, alcuni gastroenterologi dell’Universit? di Taiwan hanno voluto verificare se fosse possibile ottenere risultati migliori per gli outcomes cardiovascolari con la combinazione Clopidogrel e Ranitidina (RA). Lo studio, retrospettivo di coorte, ha preso in considerazione pi? di 6.500 pazienti ricoverati negli Ospedali di Taiwan per SCA dal 2002 al 2005, suddivisi in 5 coorti: 252 pazienti che avevano assunto Clopidogrel pi? RA, 311 trattati con Clopidogrel pi? PPI, 5.551 pazienti con il solo Clopidogrel, 235 con la sola RA e 203 con il solo PPI. L’end point primario (riospedalizzazione per SCA o mortalit? per tutte le cause entro tre mesi dalla riospedalizzazione) ha avuto una incidenze cumulativa/anno significativamente inferiore (p<0,0001) nel gruppo che aveva assunto il Clopidogrel da solo: 11,6% (95% CI 10,8-12,5%) vs il 26,8% (95% CI 21,5-33,0%) della coorte nella quale al Clopidogrel si era associata la RA (NNH 7) e il 33,2% (95% CI 27,8-39,4%) in quella nella quale il PPI era stato co-somministrato con il Clopidogrel (NNH 5). Non sono invece emerse differenze significative nei gruppi con PPI da soli (11,0%, 95% CI 7,1-16,8%), RA da sola (11,8%, 95% CI 8,2-16,8%) e il Clopidogrel da solo (11,6%, 95% CI 10,8-12,5%). L’analisi multivariata ha evidenziato che predittori indipendenti del rischio di sviluppare l’end point primario sono risultati tanto la RA, quanto i PPI con un HR rispettivamente di 2,48 e 3,20. Si pu? pertanto concludere che nei pazienti che assumono Clopidogrel non vi ? riduzione del rischio di maggior comparsa di eventi avversi cardiovascolari sostituendo i PPI con la RA.

Wu CY, Chan FK et al. Histamine-2-receptor antagonist as an alternative to proton pump inhibitor in patients receiving clopidogrel. Gastroenterology 2010 Jul 2. [Epub ahead of print]

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Profilassi antibiotica per pazienti sottoposti a PEG

L’Unit? Operativa di Endoscopia del Karolinska University Hospital di Stoccolma ha voluto verificare l’efficacia di una nuova metodica di profilassi antibiotica per i pazienti che dovevano sottoporsi a gastrostomia percutanea aendoscopica (PEG).
Dal giugno 2005 all’ottobre 2009 sono stati reclutati, per uno studio randomizzato in doppio cieco e “intention to treat”, 234 pazienti.
Di questi, 116 sono stati randomizzati a ricevere una dose singola di 20 ml di soluzione orale di sulfametossazolo e trimetoprim depositata nella sonda nutrizionale immediatamente dopo l’inserimento e confrontati con i rimanenti 118 per i quali si ? proseguito l’utilizzo della profilassi standard con una singola dose per via endovenosa di 1,5 g di cefuroxima, somministrata poco prima del posizionamento della PEG.
L’outcome primario era rappresentato dalle infezioni della ferita. Gli outcomes secondari, dalla positivit? delle indagini colturali e dei parametri ematici di infezione (leucocitosi e PCR).
Al follow-up (7-14 giorni dopo l’inserimento del catetere PEG):
? l’infezione della ferita ? stata riscontrata nell’8,6% (10 pazienti) del gruppo cotrimoxazolo e nell’11,9% (14 pazienti) del gruppo cefuroxima
? anche il confronto per le indagini microbiologiche e laboratoristiche, che comprendeva 100 pazienti in ciascun gruppo, ha dato risultati simili.
Entrambe le valutazioni indicano quindi che per prevenire le infezioni della ferita nei pazienti sottoposti a PEG 20 ml di soluzione di cotrimossazolo depositati nella sonda nutrizionale appena dopo l’inserimento non sono inferiori rispetto alla usuale profilassi con cefuroxima somministrato per via endovenosa poco prima della procedura endoscopica.

John Blomberg et al. Novel approach to antibiotic prophylaxis in percutaneous endoscopic gastrostomy (PEG): randomised controlled trial. BMJ 2010;341:c3115.

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Pressione centrale e farmaci: lo studio EXPLORE

? ormai dimostrato che l’atenololo ? meno efficace dei sartani (ARBs) e dei calcioantagonisti (CCB) nel ridurre la pressione centrale, ma non ? chiaro se l’associazione ARB/CCB sia pi? efficace dell’associazione atenololo/CCB.
Per questo ? stato disegnato lo studio EXPLORE, che ha valutato l’associazione valsartan/amlodipina vs atenololo/amlodipina in PROBE design. Il trial ? multicentrico e, divisi in due bracci paralleli, ha confrontato 393 pazienti con ipertensione resistente a 5 mg di amlodipina.
Sono stati valutati la PAS centrale, l’Augmentation Index (AI, sia grezzo sia aggiustato per la frequenza) e la PWV (carotid-to-femoral pulse wave velocity) sia all’ammissione sia a 8 e 24 settimane di trattamento attivo con le due combinazioni (amlodipina/valsartan 5/80 mg e poi 10/160 mg) o con una combinazione amlodipina-atenololo (5/50 mg e poi 10/100 mg). Il risultato ? stato nettamente a favore dell’associazione valsartan /amlodipina rispetto all’associazione atenololo/amlodipina, nonostante il fatto che in entrambi i casi si sia registrato un decremento analogo nella pressione brachiale.
La differenza nell’AI grezzo era di -6,5% (95% CI: -8,3 a -4,7; P<0,0001) in favore di amlodipina-valsartan e rimaneva significativa anche dopo correzione per la frequenza che, come era prevedibile, diminuiva maggiormente nel gruppo amlodipina/atenololo. Non c'? stata differenza tra i due gruppi nella PWV (0,95 m/sec).
Lo studio ha dimostrato che, anche in associazione con un CCB, l’atenololo pu? non ridurre abbastanza la PA centrale e quindi proteggere dagli eventi cv (Figure). Poich? la PAS centrale e la pressione differenziale sono predittori indipendenti degli eventi cardiovascolari in vari tipi di popolazione, ? importante capire in che modo gli antipertensivi differiscono nella loro capacit? di abbassare la PA centrale, nonostante una simile riduzione di quella brachiale. Se tutto questo si traduca in benefici clinici sar? da appurare con ulteriori studi.

Hypertension 2010;55:1314-1322.

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BPCO riacutizzate in ospedale: terapia antibiotica?

“Nel paziente ricoverato per riacutizzazione di BPCO (EA-BPCO) la terapia antibiotica precoce (entro 48 ore dal ricovero) ? sempre utile, indipendentemente dal tipo di antibiotico e dal tipo di riacutizzazione.” Queste sono le affermazioni di Rothberg e collaboratori che hanno esaminato i dati relativi a 84.621 pazienti al di sopra dei 40 anni ricoverati in 413 ospedali americani a causa di una EA-BPCO.
La pratica clinica comune di trattare con gli antibiotici la quasi totalit? di pazienti ricoverati per EA-BPCO e non solo quelli con segni di eziologia batterica (purulenza dell’espettorato), come ? suggerito dalle linee guida, avrebbe quindi oggi un supporto evidence-based.
Nello studio di Rothberg e collaboratori l’80% dei pazienti ha ricevuto un trattamento antibiotico precoce (un chinolonico, una cefalosporina o un macrolide) mentre gli altri pazienti non sono stati trattati o hanno iniziato la terapia dopo oltre 48 ore. Confrontando gli outcomes, a vantaggio del gruppo trattato precocemente, si ? osservata una percentuale significativamente inferiore di fallimento della terapia rispetto ai non trattati o a quelli trattati pi? tardivamente (9,77% contro 11,75%; P < 0,001). In particolare sono state significativamente inferiori la necessit? di ventilazione meccanica (1,07% contro 1,80%), la mortalit? ospedaliera (1,04% contro 1,59%) e la ri-ospedalizzazione per la stessa causa entro 30 giorni dalla dimissione (7,91% contro 8,79%). Nessuna differenza significativa ? stata rilevata nei due gruppi relativamente alla durata della degenza media, ma minori sono stati i costi complessivi del gruppo trattato.
Nei pazienti trattati inoltre ? stato segnalato un maggior tasso di ri-ospedalizzazione per infezione da Clostridium difficile (0,19% contro 0,09%), mentre minore ? stata la frequenza di reazioni allergiche (0,13% contro 0,20%, p = 0,03).
In conclusione l’idea che, in assenza di un metodo affidabile per identificare i casi a eziologia microbica, “tutti i pazienti ricoverati per una EA-BPCO andrebbero trattati con gli antibiotici” e che “l’uso di routine degli antibiotici per EA-BPCO potrebbe essere appropriato” ? sicuramente interessante. Gli stessi autori invitano per? alla cautela poich? lo studio, non essendo esente da bias di selezione, potrebbe non essere in grado di dimostrare con precisione l’esistenza di un nesso causale tra il trattamento e l’effetto osservato.

Jama 2010;303(20):2035-2042.

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Osteoporosi post-menopausale e alto rischio fratture

? noto che l’inizio della osteoclastogenesi passa attraverso la trasformazione dei pre-osteoclasti in osteoclasti maturi. Tale trasformazione ? indotta dal legame fra RANKL (proteina prodotta dagli osteoblasti) con i suoi recettori RANK presenti sulla membrana dei preosteoclasti. Quando tale processo non ? pi? adeguatamente modulato dall’azione contraria dell’osteoprotegerina (proteina anch’essa prodotta dagli osteoblasti) si avvia un eccessivo riassorbimento osseo che conduce all’osteoporosi.
Il Denosumab, un anticorpo monoclonale interamente umano, inibisce tale processo maturativo legandosi a RANKL e impedendo la successiva attivazione recettoriale sul RANK. Il farmaco mima quindi gli effetti “protettivi” antiosteoclastici dell’osteoprotegerina impedendo una eccessiva osteoclastogenesi e di conseguenza protegge l’osso dall’osteoporosi.
La FDA ha recentissimamente approvato l’utilizzo del Prolia (Denosumab) per il trattamento dell’osteoporosi post-menopausale. La somministrazione ? semestrale e prevede una iniezione sottocutanea di 60 mg del farmaco associata comunque all’utilizzo quotidiano di almeno 1000 mg di Ca e di 400 IU di Vitamina D.
Le precauzioni riguardano la possibilit?
? di aggravare una preesistente ipocalcemia, specie nei pazienti affetti da insufficienza renale, che deve essere quindi adeguatamente corretta prima dell’inizio del trattamento
? di insorgenza di infezioni, specie cutanee, anche gravi
? di comparsa di reazioni dermatologiche
? di comparsa di osteonecrosi della mandibola

Gli effetti collaterali, che possono comparire in misura di un 5% maggiore rispetto all’utilizzo del placebo, riguardano la possibilit? di comparsa di dolori muscolo-scheletrici, specie alla colonna vertebrale, di cistiti, di ipercolesterolemia e in rari casi di pancreatite.

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Girovita e mortalit? per tutte le cause negli over-49

Nuovi dati enfatizzano l’importanza del valore del girovita (Wc) come fattore di rischio di mortalit? nella popolazione anziana, indipendentemente dall’indice di massa corporea (Bmi). Lo studio, firmato da Eric Jacobs e collaboratori sotto l’egida dell’Epidemiology research program dell’American cancer society (Atlanta), ha esaminato l’associazione tra Wc e mortalit? in 48.500 uomini e 56.343 donne, con un’et? di almeno 50 anni, inclusi nel Cancer prevention study II nutrition cohort. Dopo aggiustamento per il Bmi e altri fattori di rischio, ? emersa un’associazione tra livelli molto alti di Wc e un aumento di circa due volte del rischio di mortalit? tra gli uomini (rischio relativo = 2,02) e tra le donne (rischio relativo = 2,36). L’associazione tra Wc e mortalit? si ? confermata in tutte le categorie di Bmi. Negli uomini, un incremento di 10 centimetri di Wc ha comportato un rischio relativo pari a 1,16, 1,18 e 1,21 rispettivamente nelle categorie di Bmi normale (da 18,5 a <25), indicativo di sovrappeso (da 25 a <30) e indicativo di obesit? (> o = 30). Nelle donne, invece, i corrispondenti rischi relativi si sono attestati su 1,25, 1,15 e 1,13.

Arch Intern Med, 2010; 170(15):1293-301

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Sinergia anti-fratture tra statine e terapia ormonale

Nelle donne in post-menopausa, l’impiego concomitante di statine e terapia ormonale sostitutiva pu? avere un effetto protettivo sinergico contro le fratture scheletriche. Lo attesta uno studio effettuato su dati del New Mexico da Ludmila Bakhireva e collaboratori del College of Pharmacy e School of Medicine dell’University of New Mexico, Albuquerque, che ha preso in considerazione 1.001 donne con fratture incidenti di femore, avambraccio, polso e vertebre occorse nel periodo compreso tra il 2000 e il 2005 e 2607 controlli senza fratture nello stesso periodo. La terapia ormonale ? stata classificata come “corrente” (12 mesi prima dell’index date) oppure “trascorsa” o “mai praticata”. Il rischio fratturativo ? stato accertato tra chi praticava un uso continuo (rapporto di possesso del farmaco >/= 80% durante i 12 mesi prima dell’index date) e corrente (3 mesi prima dell’index date) di statine in relazione ai pazienti senza iperlipidemia che non hanno fatto uso di farmaci contro l’iperlipidemia. Il 19% dei partecipanti allo studio faceva uso corrente della terapia ormonale mentre il 9,5% e il 4,8% sono stati classificati rispettivamente come utilizzatori correnti e continui di statine. Non ? stata osservata alcuna associazione tra impiego continuo di statine e fratture tra le pazienti che non avevano mai fatto uso della terapia ormonale o tra quelle in cui ? stato accertato solo l’impiego trascorso (odds ratio 0,80). Un forte effetto protettivo ? stato invece registrato fra le donne in cura con statine e in terapia ormonale per un anno (odds ratio 0,19). Quest’ultimo risultato ? indipendente dall’et?, dall’impiego di corticosteroidi, bisfosfonati, diuretici tiazidici, calcitonina, metotrexate e farmaci antiepilettici, dalla presenza o meno di nefropatia cronica e dall’indice di comorbidit? di Charlson.

Pharmacotherapy, 2010; 30(9):879-87

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Ipertensione polmonare: valore prognostico delle citochine

Nei soggetti colpiti da ipertensione polmonare (Pah) idiopatica e familiare si determina la disregolazione di un ampio spettro di mediatori infiammatori e i livelli di citochine circolanti, finora non considerate sotto questo profilo, hanno un notevole impatto nella predizione della sopravvivenza del paziente, candidandosi pertanto a utili biomarker prognostici. Lo hanno verificato Elaine Soon e collaboratori del Dipartimento di medicina dell’universit? di Cambridge (Addenbrookes’ hospital), i quali hanno evidenziato come il riscontro di alti livelli di citochine infiammatorie in questi pazienti sia indicativo di una prognosi peggiore. I ricercatori, in particolare, hanno misurato in 60 pazienti con Pah idiopatica e familiare e in 21 volontari sani (impiegati come soggetti di controllo) i livelli delle citochine sieriche: fattore di necrosi tumorale alfa, interferone gamma e interleuchina-1beta, -2, -4, -5, -6, -8, -10, -12p70 e -13. Sono stati poi raccolti ulteriori dati clinici, relativi a emodinamica, distanza percorsa in sei minuti di cammino e tempo di sopravvivenza rilevato dal campionamento all’exitus o al trapianto. I pazienti con Pah, rispetto ai soggetti sani di controllo, hanno fatto registrare livelli significativamente superiori di interleuchina-1beta, -2, -4, -6, -8, -10 e -12p70 e di fattore di necrosi tumorale alfa. L’analisi con il metodo di Kaplan-Meier, poi, ha dimostrato che i livelli di interleuchina-6, 8, 10 e 12p70 erano predittivi circa la sopravvivenza dei pazienti. Per esempio, il valore della sopravvivenza a cinque anni con livelli di interleuchina-6 >9 pg/mL risultava pari a 30%, a fronte del 63% dei pazienti con livelli

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Prudenza medica nei soggetti a rischio

Il fatto che aveva originato la controversia riguardava un andrologo al quale era stata attribuita la responsabilit? del decesso di un paziente per avere omesso di prescrivere accertamenti che avrebbero portato ad una diagnosi pi? precoce e quindi permesso la cura della malattia tumorale. La sentenza di condanna del medico al risarcimento dei danni veniva impugnata, ritenendosi non spiegata la ragione per cui il paziente fosse “a rischio”.
la Cassazione civile ha chiarito che, nel caso controverso, ?frequenti dolori, testicolo non in sede, infezioni localizzate, assenza di risposta alle cure, erano tutti sintomi che ponevano il paziente tra quelli a rischio, da controllare e monitorare con assiduit??.
In sostanza, la sentenza di condanna impugnata, ha seguito un ragionamento basato sul principio del “pi? probabile che non”, nel senso che esiste una elevata probabilit? che un soggetto a rischio si ammali e, una volta ammalatosi, sia alta la probabilit? che una diagnosi ritardata, da un lato, favorisca la degenerazione della malattia, dall’altro lato, impedisca una cura efficace.

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Dronedarone in prima linea contro fibrillazione atriale

Tra le novit? introdotte dalle nuove linee guida dell’European society of cardiology (Esc), presentate al recente Congresso di Stoccolma, per il trattamento della fibrillazione atriale (Fa) c’? la raccomandazione all’uso di dronedarone, come opzione terapeutica di prima scelta per il mantenimento del ritmo sinusale in tutti i pazienti con forma parossistica e persistente del disturbo, fatta eccezione dei pazienti con scompenso cardiaco grave. Il farmaco, presentato a Milano in occasione della conferenza stampa di lancio, prodotto da Sanofi-aventis (Multaq) e gi? approvato dall’European medicines agency (Ema) ? stato reso rimborsabile dall’Agenzia italiana del farmaco (Aifa) in tutte le indicazioni autorizzate. Negli studi di efficacia, dronedarone ha dimostrato di ridurre del 24% il rischio di ospedalizzazione per evento cardiovascolare o di morte per ogni causa nei pazienti con fibrillazione atriale. Inoltre, un’analisi post-hoc dello stesso studio, dimostra che il trattamento ? in grado di ridurre del 34% il rischio di ictus: ?Nessun antiaritmico finora aveva dimostrato una riduzione del rischio di ictus in questi pazienti? osserva Antonio Raviele, direttore del Dipartimento cardiovascolare dell’Ospedale Dell’Angelo di Mestre ?per questo motivo, dronedarone si propone come valida alternativa nei soggetti in cui gli altri farmaci antiaritmici hanno fallito o non sono tollerati?. Il profilo di sicurezza ? stato valutato in studi comparativi, in particolare con amiodarone, in cui dronedarone ha dimostrato una minor frequenza di danno d’organo (eventi tiroidei, epatici, polmonari, neurologici, oculari) con conseguente minore frequenza di sospensione prematura del trattamento.

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