Alimenti a basso indice glicemico: varato documento consenso

Occorre includere l’Indice glicemico (Ig) e il Carico glicemico (Cg) nelle linee guida dietetiche nazionali e nelle tabelle di composizione degli alimenti; bisogna inoltre prevedere l’indicazione di basso Ig sulle confezioni degli alimenti (come avviene in Australia e Nuova Zelanda dal 2002) e diffondere alla popolazione e alla comunità medica le informazioni su Ig/Cg. Sono alcuni degli obiettivi più rilevanti che si è posto il “Consorzio per la qualità dei carboidrati”, nato in occasione del 1° Summit mondiale di Consenso su Ig, Cg e Risposta glicemica (Rg), organizzato a Stresa (VB) da Nfi (Nutrition foundation of Italy, Milano) e Oldways (organizzazione non profit con sede a Boston), con il patrocinio del ministero della Salute. «Dopo aver dato per molto tempo rilevanza ai lipidi nel controllo del peso e nella prevenzione della malattie cardiovascolari» afferma Andrea Poli, direttore scientifico Nfi «ci si è accorti che bisogna considerare anche i carboidrati, e che fra questi non tutti sono uguali. Per esempio la pasta di semola di grano dura cotta al dente ha un basso Ig, al contrario del pane». «L’Ig permette di distinguere i carboidrati digeriti lentamente da quelli che, assorbiti con rapidità, alzano troppo velocemente glicemia e insulinemia» ricorda David Jenkins, dell’università di Toronto, precursore sul tema. «Il Cg, invece, tiene conto sia dell’Ig sia della quantità del carboidrato presente in una porzione media dell’alimento». Infatti, non basta tenere conto dell’Ig: va considerata la quantità assunta dell’alimento. «Al contrario dei grassi, i carboidrati se non digeriti rapidamente danno un piacevole senso di sazietà e benessere; per un diabetico dunque è preferibile un alimento con minore risposta glicemica» aggiunge Gabriele Riccardi, dell’università Federico II di Napoli. «Inoltre a livello del colon – importante per il metabolismo e la presenza di flora batterica – un alimento ricco in fibre e a basso Ig riduce la risposta infiammatoria e la colesterolemia», funzioni utili contro le patologie cronico-degenerative e per la perdita di peso. Il documento di consenso, infine, ha ribadito il forte contributo del basso Ig nel ridurre il rischio di diabete di tipo 2 e di eventi coronarici.

 617 total views,  1 views today

UE. Prugne secche fanno bene all’apparato digerente

Le prugne secche contribuiscono al normale funzionamento dell’apparato digerente”. Queste le parole dell’health claim ufficiale pubblicato dall’Agenzia Europea per la Sicurezza Alimentare dell’Unione Europea sulla Gazzetta Ufficiale UE. La conferma ufficiale dell’approvazione dell’indicazione rendono le prugne secche diventano l’unico frutto intero secco ad aver ottenuto l’ok per un claim salutistico. Il processo di applicazione, iniziato grazie agli sforzi del California Prune Board, il consorzio che racchiude i produttori di Prugne della California è durato sei anni.
 
L’assunzione di fibre in Europa è inferiore alla quantità raccomandata di 25 g al giorno. Ad esempio in Italia, la media è di 18.6 gr di fibre al giorno assunte dalla popolazione adulta. Le prugne secche hanno naturalmente un alto contenuto di fibra alimentare, e tre prugne secche della California costituiscono una delle cinque porzioni al giorno di frutta e verdura necessarie per una dieta sana ed equilibrata. Mangiarne 100 gr al giorno (pari a 8-12 prugne) garantisce un effetto benefico per la salute dell’apparato digerente, e fornisce oltre un quarto (7.1 gr) della quantità raccomandata di 25 gr di fibre al giorno, rendendole quindi un’ottima soluzione per aumentare l’apporto di fibre nella dieta. La nutrizionista Jennette Higgs ha commentato: “La regolarità intestinale è legata a un adeguato apporto di fibre nella dieta, tuttavia in generale in tutta Europa l’assunzione di fibre è inferiore alle dosi raccomandate. Le fibre provengono da frutta, verdura, insalata, cereali integrali, noci e semi,  quindi è importante includere un’ampia varietà di questi alimenti nella dieta quotidiana.”
Da questo punto di vista la decisione dell’EFSA costituisce una notizia positiva per gli operatori sanitari e potrebbe aiutare la popolazione a fare scelte ancor più consapevoli, fornendo la prova scientifica definitiva di ciò che è stato di senso comune da generazioni, ossia che le prugne secche contribuiscono al mantenimento delle normali funzioni intestinali.

Lo scopo della regolamentazione da parte dell’UE sui claim salutistici è infatti di salvaguardare i consumatori da false affermazioni salutistiche riportate in etichetta, nelle pubblicità, o nell’ambito di attività promozionali e di marketing. Tutti gli health claim vengono valutati attraverso un rigoroso controllo scientifico e richiedono documentazioni di alta qualità basate sulla buona prassi scientifica concordata a livello internazionale.
La decisione dell’EFSA è il risultato di sei anni di studi approfonditi per dimostrare l’effetto benefico delle prugne secche per la salute dell’apparato digerente,e riunisce le evidenze scientifiche di una serie di studi in materia di funzionalità intestinale a seguito dell’introduzione di prugne secche nella dieta.

La California è il maggior produttore di prugne secche al mondo,e la qualità delle Prugne della California è riconosciuta come superiore, grazie alle rigorose tecniche di raccolta impiegate, e alle valutazioni di controllo di qualità. Il prodotto premium viene esportato in oltre 70 Paesi in tutto il mondo,e la California contribuisce per il 60% alle forniture di prugne secche del mondo.

 583 total views,  1 views today

Cavernomi cerebrali: possibile alternativa a neurochirurgia

Viene da uno studio italiano la scoperta di una terapia farmacologica contro il cavernoma cerebrale, una malformazione congenita finora curabile solo con l’asportazione neurochirurgica. «I cavernomi, detti anche angiomi cavernosi, sono dilatazioni anomale di vasi venosi assimilabili a un tumore benigno che si localizzano per lo più a livello cerebrale. Hanno l’aspetto di una mora e a differenza delle comuni malformazioni arterovenose la pressione sanguigna al loro interno è bassa e non ricevono apporti arteriosi» spiega Elisabetta Dejana, professore ordinario di Patologia Generale all’Università degli Studi di Milano e coautrice dell’articolo pubblicato su Nature. Ci sono due forme di cavernomi: sporadica e familiare, quest’ultima presente nel 20 per cento dei casi con la trasmissione autosomica dominante. Le forme familiari colpiscono entrambi i sessi e circa metà dei figli delle persone affette sono portatori del gene-malattia. La complicazione più temuta è l’emorragia cerebrale, e il trattamento consiste nell’intervento neurochirurgico. Prosegue Dejana: «Abbiamo concentrato le nostre ricerche sul gene Ccm1, responsabile del 40% dell’insorgenza di cavernomi , osservando che la sua inattivazione comportava la trasformazione delle cellule endoteliali in cellule mesenchimali. Questo processo, noto come transizione endotelio-mesenchimale, è tipico dei tumori o altre patologie infiammatorie in cui le cellule endoteliali acquisiscono elevate proprietà migratorie e invasive». Nei cavernomi la transizione  è mediata da due composti, presenti in molte patologie infiammatorie e neoplastiche: Bmp6, Bone Morphogenetic Protein 6, e Tgf-ß (Transforming Growth Factor beta). In assenza di Ccm1, le cellule endoteliali aumentano la produzione di Bmp6 e diventano più sensibili a Tgf-ß, presente nel cervello in elevata concentrazione, acquisendo così proprietà mesenchimali. «Abbiamo quindi sperimentato l’impiego di inibitori di BMP6 o di TGF-ß, assistendo a una riduzione significativa dello sviluppo di lesioni vascolari cerebrali» sottolinea la ricercatrice. La scoperta di una possibile opzione all’intervento è un fatto importante: spesso infatti i cavernomi si sviluppano nei bambini dove la chirurgia può danneggiare lo sviluppo cerebrale o in adulti in cui la lesione è inoperabile per il difficile accesso. «Il prossimo passo è di poter avere il supporto necessario per avviare uno studio clinico preliminare» conclude Dejana.

Nature (2013) online 09 June 2013

 718 total views,  1 views today

EULAR 2013: Perdita di osso in pazienti con spondiloartrite precoce,

secondo uno studio presentato all’Annual European Congress of Rheumatology.

Hanno rilevato che l’edema del midollo osseo delle articolazioni sacroiliache (SIJ) e della colonna lombare è associato a perdita di osso nella colonna lombare e nel collo del femore. Hanno presentato il loro poster all’EULAR 2013, tenutosi nel giugno 2013 a Madrid.

Ricercatori del Research Institute of Rheumatology di Mosca hanno studiato 30 pazienti (14 maschi) con spondiloartrite precoce (SpA). L’età media era 28,9 ± 6,3 anni, la durata della malattia <24 mesi (15,3 ± 8,1) e l’indice BASDAI medio era 4,4 ± 3,9.

Secondo i ricercatori, in 18 pazienti (60%) è stata rilevata una riduzione di BMD. Tutti presentavano osteopenia (-1>punteggio T>-2,5). Sei pazienti (20%) presentavano osteopenia della colonna lombare, quattro (13,3%) del collo del femore, mentre osteopenia in entrambe queste aree è stata riscontrata in otto pazienti (26,7%). In tutti i pazienti con osteopenia, il punteggio T medio era -1,68 ± 0,47 per il collo del femore e -1,92 ± 0,46 per la colonna lombare.

La perdita di osso a livello del collo del femore e/o della colonna lombare era associata a edema del midollo osseo di SIJ e/o della colonna lombare (P=0,029).

i a -0,)� <p& 8>$ style=’border:none windowtext 1.0pt;mso-border-alt:none windowtext 0cm; padding:0cm’>P<0,001) nei giovani magri, a -0,2706 (P <0,001) nei giovani obesi e a -0,3607 (P <0,001) nei giovani affetti da T2DM

 608 total views,  1 views today

ENDO 2013: I livelli di vitamina D sono associati alla maggiore rigidità arteriosa in età giovanile

secondo lo studio presentato al 95° meeting annuale dell’Endocrine Society

Secondo i ricercatori del Cincinnati Children’s Hospital Medical Center di Cincinnati, Ohio, come riscontrato negli studi sugli adulti, i livelli di vitamina D sono inversamente correlati alla rigidità arteriosa in età giovanile. Inoltre, l’associazione risulta essere più forte nella popolazione diabetica. Questo recente studio è stato presentato all’ENDO 2013, tenutosi nel giugno 2013 a San Francisco. 

Nello studio sono stati esaminati 570 giovani (190 affetti da diabete mellito di tipo 2 [T2DM], 190 soggetti di controllo obesi non diabetici e 190 soggetti di controllo magri, non diabetici, non obesi) ai quali è stata misurata la velocità dell’onda di polso (PWV) al momento della visita. La coorte era costituita da soggetti di età media pari a 17,9 +/- 3,43 anni, per il 55% rappresentati da afro-americani e per il 34% di sesso maschile. I livelli medi di vitamina D erano pari a 21,27 ng/dl nei giovani magri, a 14,29 ng/dl nei giovani obesi e a 14,13 ng/dl (P < 0,001) nei giovani con T2DM.

La velocità di onda del polso media per i gruppi era uguale a: 5,30, 6,29 e 6,64 m/s, rispettivamente nei soggetti magri, obesi e affetti da T2DM (<0,001). Secondo i ricercatori di Cincinnati, le correlazioni di Spearman hanno dimostrato che i livelli sierici di 25-idrossivitamina D erano inversamente correlati alla rigidità arteriosa in ciascuno dei tre gruppi. La forza dell’associazione, misurata in termini di coefficiente di correlazione (r), era pari a -0,2616 (P<0,001) nei giovani magri, a -0,2706 (P <0,001) nei giovani obesi e a -0,3607 (P <0,001) nei giovani affetti da T2DM

 595 total views,  1 views today

ENDO 2013: l’uso di testosterone negli uomini affetti da deficit di androgeni indotto da oppioidi riduce la sensibilità al dolore

secondo lo studio presentato al 95° Convegno annuale dell’Endocrine Society.

Secondo i dati presentati all’ENDO 2013, tenutosi nel giugno 2013 a San Francisco, la somministrazione di testosterone per 12 settimane in uomini affetti da deficit di androgeni indotto da oppioidi è associata a una maggiore riduzione di diversi parametri di sensibilità al dolore.

I ricercatori della Boston University, e i loro colleghi, hanno randomizzato 84 uomini (di età compresa tra 18 e 64 anni) affetti da deficit di androgeni indotto da oppioidi al trattamento con 5 gm di gel transdermico di testosterone o placebo per 14 settimane. I gruppi erano ben bilanciati. Al basale, l’età media (DS) era 49 (+/-8) anni, l’IMC 33 (+/-7) kg/m², il testosterone totale 228 (+/-91) ng/dl e il testosterone libero 44 (+/-21) pg/ml.

Secondo i ricercatori, i livelli sierici di testosterone sia totale sia libero sono aumentati significativamente nel braccio di trattamento con testosterone. A 12 settimane, gli uomini randomizzati al testosterone mostravano miglioramenti medi nominali sulla sottoscala di interferenza del dolore del questionario breve sul dolore (Brief Pain Inventory, BPI), ma né questo aspetto né le variazioni complessive nei punteggi compositi del BPI erano significativamente diversi tra i due gruppi.

Gli uomini randomizzati al testosterone hanno tuttavia mostrato miglioramenti significativi nella soglia del dolore da compressione (P <0,031), nell’intensità del dolore meccanico (P=0,049) e nelle sensazioni successive al cold pressor test (P=0,08). Il gruppo trattato con testosterone ha inoltre mostrato una tendenza verso il miglioramento degli aspetti di limitazione del ruolo dovuta a problemi emotivi, misurato con il questionario in forma breve sugli esiti medici 

 600 total views,  1 views today

I marcatori di RM predicono gli outcome del trattamento per la sclerosi multipla

I marcatori surrogati di RM predicono con precisione gli effetti del trattamento della sclerosi multipla recidivante remittente

Contesto

Una meta-analisi di studi randomizzati sulla sclerosi multipla recidivante remittente pubblicata nel 2009 ha mostrato una relazione quantitativa tra gli effetti del trattamento individuati su lesioni rilevate dalla risonanza magnetica e recidive cliniche. Lo scopo del nostro lavoro è stato quello di convalidare tale relazione utilizzando i dati provenienti da un set ampio e indipendente di studi clinici sulla sclerosi multipla.

Metodi

Abbiamo eseguito una ricerca in Medline per individuare studi clinici che valutato analizzato farmaci modificanti la malattia per la sclerosi multipla recidivante remittente, pubblicati tra il 1 settembre 2008 e il 31 ottobre 2012. Abbiamo estratto i dati relativi agli effetti del trattamento sulle lesioni rilevate dalla RM e sulle recidive da ciascuno studio e la correlazione delle relative misure log trasformate di tali effetti terapeutici è stata valutata mediante analisi di regressione lineare ponderata. Abbiamo stimato il valore R2 per quantificare la forza della correlazione e abbiamo utilizzato un test di interazione per valutare un’eventuale differenza della curva rispetto all’equazione stimata in precedenza. Abbiamo altresì condotto alcune analisi di sensibilità

Risultati

Abbiamo individuato 31 studi idonei che hanno fornito dati relativi a 18.901 pazienti affetti da sclerosi multipla recidivante remittente. L’equazione di regressione derivata utilizzando i dati provenienti da questi studi ha evidenziato una relazione tra gli effetti del trattamento concomitante sulle lesioni rilevate dalla RM e le ricadute (curva = 0,52; R2=0,71) pressoché identica alla stima precedente (pinterazione=0,45). Dall’analisi degli studi di fase 2 e 3 che avevano analizzato gli stessi farmaci è emerso che gli effetti delle lesioni rilevate dalla RM nell’arco di brevi periodi di follow-up (6—9 mesi) sono in grado di predire inoltre gli effetti sulle ricadute nell’arco di periodi di follow-up più lunghi (12—24 mesi), con effetti riportati sulle ricadute compresi negli intervalli di previsione al 95% in otto studi su nove.

Interpretazione

I dati da noi ottenuti indicano che è possibile prevedere con precisione l’effetto di un trattamento sulle ricadute osservando l’effetto di quel trattamento sulle lesioni rilevate dalla RM, implicando una possibile considerazione del ricorso ai marcatori della RM quali endpoint primari per studi clinici futuri sui trattamenti per la sclerosi multipla in determinate situazioni, come ad esempio nel caso di studi su farmaci generici o biosimilari di farmaci i cui meccanismi di azione siano ben noti oppure nel caso di studi in ambito pediatrico per l’analisi di farmaci già approvati per gli adulti.

 668 total views,  1 views today

Definizione dei target di pressione sanguigna in pazienti con ictus lacunare

Quali target pressori sembrano essere efficaci per la prevenzione dell’ictus ricorrente?

Contesto

L’abbassamento dei livelli pressori previene l’ictus ma non sono ancora stati definiti target di pressione sanguigna ottimali per la prevenzione dell’ictus ricorrente. Abbiamo analizzato gli effetti di diversi target di pressione sanguigna sul tasso di ictus ricorrente in pazienti con ictus lacunare recente.

Metodi

In questo studio open-label randomizzato, i pazienti giudicati idonei vivevano in Nord America, America Latina e Spagna e avevano avuto infarti lacunari recenti sintomatici definiti mediante RM. I pazienti sono stati reclutati tra marzo 2003 e aprile 2011 e assegnati mediante randomizzazione basata su design multifattoriale due a due ad una pressione sistolica target pari a 130—149 mmHg o inferiore a 130 mmHg. L’endpoint primario era rappresentato dalla riduzione di tutti gli ictus (tra cui ictus ischemici ed emorragie intracraniche). L’analisi era di tipo ITT (Intention-To-Treat). Questo studio è stato registrato in ClinicalTrials.gov con il numero NCT00059306.

Risultati

3.020 pazienti arruolati, 1.519 nel gruppo con pressione target più elevata e 1.501 nel gruppo con pressione target più bassa, sono stati sottoposti ad un follow-up medio di 3,7 (DS 2,0) anni. L’età media era di 63 (DS 11) anni. Dopo 1 anno, la pressione sistolica media era di 138 mmHg (CI al 95% 137—139) nel gruppo con pressione target più elevata e di 127 mmHg (CI al 95% 126—128) nel gruppo con pressione target più bassa. Sono stati osservati tassi di riduzione non significativi per tutti gli ictus (rapporto di rischio 0,81, CI al 95% 0,64—1,03, p=0,08), per l’ictus disabilitante o letale (0,81, 0,53—1,23, p=0,32) e per l’outcome composito di infarto del miocardio o morte vascolare (0,84, 0,68—1,04, p=0,32) con il target più basso. Il tasso di emorragia intracranica è diminuito in maniera significativa (0,37, 0,15—0,95, p=0,03). Gli eventi avversi gravi collegati al trattamento si sono dimostrati poco frequenti.

Interpretazione

Sebbene la riduzione dell’ictus non sia risultata significativa, i risultati da noi ottenuti sostengono che, in pazienti colpiti da ictus lacunare recente, l’utilizzo di un target di pressione sistolica pari a 130 mmHg potrebbe produrre dei vantaggi. 

 742 total views,  1 views today

Prevenzione della TVP in pazienti immobilizzati a seguito di ictus

La compressione pneumatica intermittente è efficace e potrebbe migliorare la sopravvivenza

Contesto

La tromboembolia venosa è una comune e potenzialmente evitabile causa di decesso e morbilità nei pazienti ospedalizzati, compresi quelli colpiti da ictus. Nei pazienti chirurgici, la compressione pneumatica intermittente (CPI) riduce il rischio di trombosi venosa profonda (TVP), ma non esistono evidenze affidabili sull’efficacia di questa tecnica in pazienti colpiti da ictus. Abbiamo valutato l’efficacia della CPI nella riduzione del rischio di TVP in pazienti colpiti da ictus.

Metodi

CLOTS 3 è uno studio multicentrico, randomizzato a gruppi paralleli, volto a valutare la CPI su pazienti immobilizzati (che non sono in grado di alzarsi per andare in bagno da soli senza l’aiuto di un’altra persona) colpiti da ictus acuto. Abbiamo arruolato pazienti ricoverati da 0 a 3 giorni e li abbiamo assegnati mediante un sistema di randomizzazione centrale (rapporto 1:1) al trattamento con o senza CPI. Un tecnico tenuto all’oscuro dell’assegnazione al trattamento ha eseguito una ultrasonografia duplex per compressione (CDU) su entrambe le gambe a 7—10 giorni e, ove possibile, a 25—30 giorni dall’arruolamento. I caregiver e i pazienti sono stati informati dell’assegnazione al trattamento. I pazienti sono stati sottoposti ad un follow-up di 6 mesi per determinare la sopravvivenza e la tromboembolia venosa sintomatica successiva. L’outcome primario era rappresentato da TVP nelle vene prossimali individuata mediante CDU di screening oppure da TVP sintomatica nelle vene prossimali, confermata da esami di imaging, entro 30 giorni dalla randomizzazione. I pazienti sono stati analizzati in base alla loro assegnazione al trattamento. Lo studio è stato registrato con il numero ISRCTN93529999.

Risultati

Dall’8 dicembre 2008 al 6 settembre 2012, sono stati arruolati 2.876 pazienti presso 94 centri del Regno Unito. I pazienti inseriti nello studio erano ampiamente rappresentativi dei pazienti ricoverati immobilizzati e avevano un’età media pari a 76 anni (IQR 67—84). L’outcome primario si è verificato in 122 pazienti su 1.438 (8,5%) assegnati alla CPI e in 174 pazienti su 1.438 (12,1%) assegnati all’assenza di CPI, con una riduzione assoluta del rischio pari al 3,6% (CI al 95% 1,4—5,8). Escludendo i 323 pazienti deceduti prima della manifestazione dell’outcome primario e i 41 non sottoposti alla CDU di screening, l’OR aggiustato per il raffronto tra 122 pazienti su 1.267 contro 174 su 1.245 è risultato pari a 0,65 (CI al 95% 0,51—0,84; p=0,001). I decessi durante il periodo di trattamento si sono verificati in 156 pazienti assegnati a CPI (11%) e 189 pazienti assegnati all’assenza di CPI (13%) sono deceduti nell’arco dei 30 giorni di trattamento (p=0,057); 44 pazienti assegnati a CPI (3%) e 20 assegnati all’assenza di CPI (1%) (p=0,002) hanno riportato lesioni cutanee all’altezza delle gambe; 33 pazienti del gruppo assegnato a CPI (2%) e 24 del gruppo assegnato all’assenza di CPI (2%) (p=0,221) hanno subito cadute con conseguenti lesioni.

Interpretazione

La CPI è una tecnica efficace per la riduzione del rischio di TVP e potrebbe migliorare la sopravvivenza di un’ampia gamma di pazienti immobilizzati a seguito di ictus. 

 893 total views,  1 views today

Campania. Il Tar boccia il decreto sulle autorizzazioni per farsi curare fuori Regione

Per i giudici il decreto commissariale è stato emanato senza alcuna intesa con la Conferenza delle Regioni e limita il diritto alla libertà di scelta . “È da escludere che una Regione, sia pure per esigenze di riequilibrio finanziario, possa disciplinare unilateralmente la propria mobilità passiva”. LA SENTENZA

20 GIU – Il Tar della Campania boccia e annulla il decreto commissariale n.156 della Regione Campania che disponeva come per curarsi fuori Regione (limitatamente ad alcuni interventi) il cittadino avrebbe dovuto richiedere alla Asl competente un’autorizzazione. I giudici hanno accolto il ricorso presentato da una clinica di Formia nel Lazio.
 
Per i giudici che hanno accolto i rilievi del ricorrente “la Regione Campania avrebbe regolato la materia senza alcuna intesa con le Regioni di confine e in assenza di alcun accordo in sede di Conferenza Stato-Regioni, in contrasto con l’accordo interregionale per la compensazione della mobilità sanitaria approvato dalla Conferenza delle Regioni (ed annessa Tariffa Unica Convenzionale); violazione dell’art. 8-sexies del d. lgs. n. 502 del 1992, che demanderebbe al Ministero d’intesa con la Conferenza Stato-Regioni la fissazione dei criteri per la compensazione dell’assistenza prestata ai cittadini in Regioni diverse da quella di appartenenza; violazione dell’art. 19 del Patto per la Salute adottato il 3/12/2009 in Conferenza Stato-Regioni, che contemplerebbe l’individuazione mediante accordi tra le Regioni confinanti di adeguati strumenti per governare il fenomeno della mobilità sanitaria”.
 
Ma non solo “le ASL non avrebbero costituito le Commissioni che avrebbero il compito di rilasciare le autorizzazioni in questione; non sarebbe precisata neppure la composizione di tali organi”. E poi “la determinazione, concernente solo le Regioni limitrofe, sarebbe discriminatoria; le tabelle sui saldi di mobilità interregionale dimostrerebbero che altre Regioni avrebbero assorbito il maggior flusso di migrazione assistenziale; l’onere per la mobilità verso le Regioni limitrofe sarebbe inferiore a quello di altre Regioni”.
 
E poi c’è la questione sollevata dal ricorrente rispetto alla “limitazione del diritto di libera scelta del luogo di cura violerebbe gli arttt. 13 e 32 cost., la cui restrizione non sarebbe giustificata o bilanciata da altre ragioni di pari rilevanza; sarebbe violato l’art. 3 cost. sotto il profilo del principio di ragionevolezza; emergerebbe anche il contratsto con l’art. 117 cost., atteso che il sistema dell’accreditamento sarebbe improntato al principio di uguaglianza tra le varie strutture per quanto riguarda l’erogazione di prestazioni nell’intero territorio nazionale”.
 
Ma i giudici hanno anche considerato il quadro normativo che affida operativamente la compensazione interregionale della mobilità sanitaria  alla Conferenza delle Regioni e delle Province autonome che ha all’uopo approvato l’accordo interregionale per la compensazione della mobilità sanitaria.
 
Nonostante l’intesa sulla mobilità preveda “che, per il conseguimento del livello di appropriatezza nella erogazione e nella organizzazione dei servizi di assistenza ospedaliera e specialistica, le Regioni individuano adeguati strumenti di governo della domanda tramite accordi tra Regioni confinanti per disciplinare la mobilità sanitaria al fine di evitare fenomeni distorsivi indotti da differenze tariffarie e da differenti gradi di applicazione delle indicazioni di appropriatezza definite a livello nazionale, di favorire collaborazioni interregionali per attività la cui scala ottimale di organizzazione possa risultare superiore all’ambito territoriale regionale, di facilitare percorsi di qualificazione ed appropriatezza dell’attività per le Regioni interessate dai piani di rientro, di individuare meccanismi di controllo dell’insorgere di eventuali comportamenti opportunistici di soggetti del sistema attraverso la definizione di tetti di attività condivisi funzionali al governo complessivo della domanda”. È in ogni caso da “escludere che una Regione, sia pure per esigenze di riequilibrio finanziario ovvero di programmazione e controllo della spesa sanitaria, possa disciplinare unilateralmente, al di fuori di una cornice negoziale, la propria mobilità passiva (per la compensazione di prestazioni erogate a propri assistiti al di fuori dal territorio di competenza), influendo ovviamente sulla mobilità attiva di altre Regioni (per la compensazione di prestazioni erogate sul territorio di competenza) e quindi sulla rispettiva programmazione sanitaria”.
 
 
Questi i motivi per cui il Tar ha annullato il decreto commissariale 156.

 799 total views,  1 views today

1 3 4 5 6 7 143

Search

+
Rispondi su Whatsapp
Serve aiuto?
Ciao! Possiamo aiutarti?