Clopidogrel e inibitori di pompa protonica

L’impiego degli inibitori di pompa protonica (PPI) associati al clopidogrel ? comune nella pratica clinica con la finalit? di ridurre il rischio di emorragie gastroduodenali. Tale associazione ? stata per? messa in discussione in quanto esiste la possibilit? che gli inibitori di pompa riducano l’efficacia antiaggregante del clopidogrel, agendo mediante una inibizione competitiva a livello del citocromo P450 2C19, che interviene anche nel metabolismo del clopidogrel trasformandolo nei suoi metabolici attivi. Due studi, recentemente pubblicati, sono discordanti rispetto alla valutazione di questo problema.
Ray e collaboratori hanno valutato retrospettivamente 20.596 pazienti che assumevano clopidogrel, ospedalizzati per infarto miocardico acuto, rivascolarizzazione coronarica o angina instabile; di questi, 7.593 pazienti assumevano anche PPI, mentre 13.003 non li assumevano. Il gruppo che assumeva PPI ha avuto un’incidenza di ospedalizzazione per episodi di sanguinamento acuto gastrointestinale inferiore del 50%. Non si sono avute al contrario variazioni nei 2 gruppi per quanto riguarda il rischio di gravi recidive cardiovascolari.
In un altro studio di tipo retrospettivo, condotto da Stockl e collaboratori, ? stato confrontato un gruppo di 1.033 pazienti dimessi dopo ricovero per infarto miocardico o posizionamento di stent coronarico e in trattamento con clopidogrel e PPI, verso un campione eguale per numerosit? e patologia ma curato solo con clopidogrel. Dopo 1 anno i pazienti che assumevano clopidogrel associato a PPI avevano un rischio di riospedalizzazione per infarto miocardico pi? alto del 93% e pi? elevato del 64% per il rischio combinato di riospedalizzazione per infarto miocardico o posizionamento di stent.
In conclusione, il problema se sia indicato associare o no PPI al clopidogrel ancora non ? risolto.

Wayne A. Ray et Al. Ann Intern Med. 2010;152:337-345.
Karen M. Stockl et Al. Arch Intern Med. 2010;170(8):704-710.

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Dolori addominali e celiachia: test diagnostici

I dolori addominali sono comune causa di accesso nei Dipartimenti di Emergenza e Accettazione (DEA), con un’incidenza annuale di 35-40 casi ogni 1.000 abitanti. Si tratta di sintomi che possono compromettere lo svolgimento delle attivit? quotidiane e la qualit? di vita del paziente e di cui ? fondamentale discriminare l’eziologia funzionale o organica.
Tra le cause di dolore addominale rientra la malattia celiaca, cui non sempre si pensa, nonostante abbia una prevalenza intorno allo 0,5-1% della popolazione occidentale e nonostante una tempestiva diagnosi con l’adozione della dieta glutine-priva comporti la risoluzione sintomatologica e la prevenzione delle complicanze di malattia (infertilit?, aborti, osteoporosi e neoplasie).
JAMA ha pubblicato recentemente una review sulle performance diagnostiche dei test sierologici, cui vengono indirizzati soggetti adulti affetti da sintomatologia addominale nel sospetto di malattia celiaca. La review evidenzia che:
? la sintomatologia gastroenterica ha una sensibilit? estremamente variabile per la diagnosi di malattia celiaca e pertanto non sembra ragionevole sottoporre tutti i pazienti a screening per malattia celiaca;
? potrebbero essere candidati allo screening solo coloro che presentano familiarit? per tale patologia o che accusano dolore da lunga data o refrattario a terapia.
La valutazione sierologica mostra una buona performance diagnostica per gli anticorpi anti-transglutaminasi IgA (sensibilit? 0,89, 95% intervallo di confidenza 0,82-0,94 – specificit? 0,98, 95% intervallo di confidenza 0,95-0,99) e anti-endomisio (sensibilit? 0,90, 95% intervallo di confidenza 0,80-0,95 – specificit? 0,99, 95% intervallo di confidenza 0,98-1,00). Tuttavia, i test sierologici singolarmente non sembrano sufficienti a identificare tutti i casi di malattia celiaca e risultano necessari ulteriori studi per identificare e sperimentare algoritmi diagnostici per i pazienti affetti da sintomatologia gastroenterica che accedono alle cure primarie.

Hernandez. JAMA 2010;303(17):1738-1746.

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Aumentato rischio di diabete mellito per coloro che fanno uso di corticosteroidi

La relazione tra impiego di corticosteroidi topici, potenza, durata del trattamento, esposizione concomitante a corticosteroidi sistemici, e rischio di diabete ? stata studiata in modo non-completo.

Uno studio ha esaminato l?associazione tra uso, intenso e di lunga durata, dei corticosteroidi topici e il diabete mellito.

I dati sono stati ottenuti dal PHARMO Record Linkage System, che interessa pi? di 2.5 milioni di soggetti in Olanda.

L?insorgenza di diabete ? stata definita come prima dispensazione di un antidiabetico o l?ospedalizzazione per la malattia diabetica.

L?impiego di corticosteroidi topici e corticosteroidi sistemici, e/o corticosteroidi per inalazione, come co-medicazione, ? stato classificato come corrente, recente e passato/mai ( rispettivamente, inferiore o uguale a 2 anni, 2-4 anni, e maggiore di 4 anni ).

Tra i 192.893 utilizzatori di corticosteroidi topici, 2.212 hanno sviluppato diabete.

L?uso corrente di corticosteroidi topici ? risultato associato ad un aumento del rischio di diabete di 1.24 volte ( odds ratio non-aggiustato, OR=1.24 ).

La durata della terapia con corticosteroidi locali superiore a 180 giorni ha prodotto un odds ratio di 1.32, che ? salito a 1.44 con un carico cumulativo di corticosteroidi topici di 731-1460 mg.

Tra coloro che avevano utilizzato in passato i corticosteroidi sistemici e/o i corticosteroidi per via inalatoria, o non li avevano mai usati, l?impiego corrente di corticosteroidi topici ? rimasto associato ad un rischio di diabete 1.27 maggiore ( OR=1.27 ), rispetto a coloro che avevano fatto uso di corticosteroidi topici nel passato.

In conclusione, un aumentato rischio di diabete di nuova insorgenza deve essere tenuto in considerazione quando si prescrivono i corticosteroidi topici, soprattutto quando ? necessario un trattamento cutaneo intensivo.

van der Linden MW et al, Drug Saf 2009; 32: 527-537

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Tumore dell?endometrio: effetto protettivo del caff? con Caffeina, soprattutto n

Le donne che bevono almeno 2 tazze di caff? con Caffeina al giorno potrebbero ridurre le probabilit? di andare incontro a cancro dell?endometrio.
Queste le conclusioni di uno studio osservazionale del Karolinska Institutet di Stoccolma ( Svezia ), che ha evidenziato un maggior effetto sulle donne in sovrappeso o obese.

A un totale di 60.634 donne ? stato chiesto riguardo al consumo di caff?: prima nel periodo compreso tra il 1987 e il 1990, e successivamente nel 1997.

Le donne sono state seguite in media per 17 anni.

Nel corso del periodo di follow-up, 677 donne hanno sviluppato un carcinoma all’endometrio. L’et? media al momento della diagnosi di tumore era di 67 anni.

Le donne che bevevano ogni giorno 2 o pi? tazze di caff? presentavano un rischio significativamente ridotto di sviluppare il tumore, rispetto a quelle che facevano un consumo inferiore.

Il rischio di tumore endometriale si riduceva ulteriormente del 10% per ogni tazza in pi? beveuta.

L’effetto ? risultato massimo per le donne in sovrappeso o obese; in questi soggetti ogni tazza di caff? era in grado di ridurre il rischio di ammalarsi di tumore del 12% per le donne in sovrappeso e del 20% per quelle obese.

Il caff? appare esercitare l’effetto protettivo riducendo la glicemia, ed interferendo con gli estrogeni, fattori che svolgono un ruolo nel tumore dell’endometrio.

Fonte: International Journal of Cancer, 2009

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Epatite cronica E, primi risultati con i farmaci

Non esiste ancora un trattamento universalmente accettato per l’epatite cronica causata dal virus epatitico E (Hev). Due spunti interessanti sono apparsi in contemporanea sul sito web degli Annals of Internal Medicine. Il primo lavoro – una “brief communication” divulgata da Vincent Mallet, institut Cochin, universit? Paris Descartes e collaboratori – riporta i risultati del trattamento con ribavirina (12 mg/kg di peso corporeo al giorno per 12 settimane) su due pazienti con epatite cronica E confermata alla biopsia: si trattava di un soggetto sottoposto a trapianto di rene e pancreas e di un paziente con linfocitopenia idiopatica CD4 T. Entrambi i pazienti sono andati incontro alla normalizzazione dei test della funzione epatica dopo due settimane di terapia e a clearance di Hev dopo quattro settimane. Per l’intero periodo di follow-up (di 3 e 2 mesi rispettivamente) i livelli di Rna virale si sono mantenuti bassi, al punto da non essere identificabili mentre gli effetti collaterali sono stati giudicati di leggera entit?. Diversa, invece, la strategia terapeutica adottata da Laurent Alric e collaboratori dell’Ospedale universitario di Tolosa. In una “Lettera” alla rivista gli autori descrivono un caso di infezione cronica da Hev trattata con successo con interferone pegilato alfa. Secondo i clinici francesi si tratta, inoltre, del primo report di infezione cronica da Hev in un paziente immunocompromesso ma non sottoposto a terapia immunosoppressiva o positivo al virus Hiv. Il paziente in questione era un uomo di 57 anni affetto da leucemia a cellule capellute non trattata perch? indolente. La biopsia ha confermato la presenza di una leggera epatite lobulare, senza fibrosi: dopo un anno di follow-up senza terapia, ? stato instaurato un trattamento di tre mesi con interferone pegilato-alfa 2b (1 microgrammo/Kg di peso corporeo per settimana). Le concentrazioni di Hev Rna nel siero si sono ridotte dal valore basale di 5,6 log10 copie/mL a 2,4 log10 dopo 2 settimane di terapia. Il paziente ha ottenuto una risposta virologica completa in settimana 4. In settimana 7, gli enzimi epatici sono rimasti entro i limiti della norma mentre l’Hev Rna non era identificabile nelle feci. Dopo cinque mesi dall’interruzione del trattamento, i livelli di Rna virale nel siero erano inferiori al valore minimo per l’identificazione.

Ann Intern Med, 2010 Jun 14. [Epub ahead of print]

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Eular, Caps rare e sottodiagnosticate

I sintomi iniziano alla nascita e comprendono affaticamento, febbre, cefalea, dolori articolari, congiuntiviti, eruzioni cutanee. Si tratta delle Caps (Sindromi periodiche associate alla criopirina), un gruppo di malattie autoinfiammatorie molto rare, che a lungo andare portano a complicazioni piuttosto serie: sordit?, deformit? ossee, erosione e distruzione delle articolazioni, danni al sistema nervoso e perdita della vista e in ultima istanza anche alla morte. Dell’argomento si ? parlato nel corso del Congresso Eular (European league against rheumatism), appena conclusosi a Roma. Le Caps sono rare, colpiscono 2500 persone nell’Unione europea, ma a causa dell’assenza di diagnosi o della diagnosi errata, i casi ufficiali sono meno di 1000 nel mondo. Per questo gli esperti presenti al simposio, tra i quali Marco Gattorno, pediatra reumatologo del Gaslini, centro di riferimento per le Caps in Italia, hanno ribadito l’importanza della sensibilizzazione alla malattia anche nella comunit? medica. Ma che cosa provoca le sindromi? A provocarle ? una mutazione genetica del gene CIAS1, responsabile della produzione di una proteina nota come criopirina, determinante nel controllo delle difese dell’organismo. La mutazione determina una serie di effetti a cascata con eccessiva produzione di interleuchina 1-beta e quindi un’infiammazione sostenuta e diffusa, che a lungo andare distrugge i tessuti. Essenziale bench? critica sarebbe una diagnosi precoce e corretta, i farmaci pi? recenti in fase di sviluppo, infatti, possono aiutare i pazienti a gestire i sintomi debilitanti e a prevenire i danni permanenti causati dalle Caps. Tra questi canakinumab, anticorpo monoclonale, che agisce proprio sull’interleuchina 1-beta normalizzandone la produzione. Il farmaco, che stando ai dati pubblicati da New England journal of medicine riesce a indurre gi? alla prima dose una remissione delle Caps nel 97% dei pazienti, ha lo status di farmaco orfano negli USA, nell’UE, in Svizzera e in Australia per il trattamento delle CAPS ed ? atteso in Italia per la fine dell’anno.

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Meno bibite zuccherate e si riduce la pressione

Una ridotta assunzione di bevande zuccherate (Ssb) si associa a una significativa diminuzione dei valori di pressione arteriosa. La stessa correlazione non si evidenzia, invece, con il consumo di caffeina o di bibite dietetiche. Ridurre l’apporto di zuccheri (e in particolare di Ssb) potrebbe dunque essere una strategia dietetica importante per diminuire la pressione arteriosa. Ne sono convinti Liwei Chen e collaboratori, del Louisiana state university Health science center di New Orleans, che hanno effettuato uno studio prospettico di 18 mesi su 810 adulti americani coinvolti in un trial di intervento comportamentale. I dati relativi alla pressione arteriosa e all’assunzione di alimenti sono stati rilevati al basale, al sesto e al diciottesimo mese. All’inizio dello studio, l’intake medio di Ssb era di 0,9 /-1,0 porzioni al giorno (310,8 /-352,2 ml/die) e i valori pressori medi sistolici e diastolici erano, nell’ordine, pari a 134,9 /-9,6 e 84,2 /-4,2 mmHg. Dopo correzioni per fattori potenzialmente confondenti, ? risultato che la diminuzione di una porzione al giorno di Ssb si associa, nell’arco di 18 mesi, a una riduzione di pressione sistolica e diastolica rispettivamente di 1,8 e 1,1 mmHg. Dopo un aggiustamento addizionale per il cambio di peso nello stesso periodo, la riduzione dell’assunzione di Ssb rimaneva sempre associata con la diminuzione della pressione sistolica e diastolica. Anche un minore intake di zuccheri otteneva lo stesso effetto, non conseguito dal ridotto consumo di caffeina o bevande “diet”: un dato che ha convinto gli autori a ritenere proprio gli zuccheri i nutrienti responsabili della correlazione con i valori pressori.

Circulation, 2010 May 24. [Epub ahead of print]

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Perdita improvvisa dell?udito con gli inibitori della fosfodiesterasi-5

L?FDA ( Food and Drug Administration ) ha approvato cambiamenti nelle schede tecniche dei farmaci per la disfunzione erettile nella classe che comprende Cialis ( Tadalafil ), Levitra ( Vardenafil ) e Viagra ( Sildenafil ), riguardo al potenziale rischio di improvvisa perdita dell?udito.

Inoltre, l?FDA ha richiesto gli stessi cambiamenti alla scheda tecnica di Revatio ( Sildenafil ).
Revatio trova impiego nel trattamento dell?ipertensione polmonare.

L?FDA ? stata indotta ad intervenire dopo che un piccolo numero di pazienti che avevano assunto gli inibitori della fosfodiesterasi-5 ( PDE-5 ) hanno riportato improvvisa perdita dell?udito, talvolta accompagnata da suoni nell?orecchio e da capogiri.

I pazienti che assumono Cialis, Levitra o Viagra e che vanno incontro ad improvvisa perdita dell?udito dovrebbero interrompere immediatamente l?assunzione del farmaco.

I pazienti che stanno impiegando Revatio dovrebbero continuare a prendere il farmaco, ma dovrebbero consultare il proprio medico curante.
La non sospensione del farmaco ? giustificata dalla gravit? dell?ipertensione polmonare, una condizione minacciante la vita.

Nell?aprile 2007, ? stato riportato sul Journal of Laryngology & Otology il caso di un uomo che stava assumendo Viagra e che ha perso improvvisamente l?udito. Ad oggi sono 29 le segnalazioni postmarketing di improvvisa perdita dell?udito, con o senza suoni nelle orecchie, vertigini o capogiri.
Nella maggior parte di casi, la perdita dell?udito interessa un solo orecchio, ed ? parziale o completa.
In un terzo dei pazienti, l?evento ? temporaneo.

Sebbene nessuna relazione causale sia stata dimostrata, la forte associazione tra l?impiego degli inibitori PDE-5 e l?improvvisa perdita dell?udito, ha indotto l?FDA ad intervenire.

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Gli uomini che assumono il Viagra presentano un rischio di perdita uditiva 2 vol

Uno studio ha indicato che gli uomini che assumono il Viagra ( Sildenafil ) presentano un rischio due volte maggiore di danno uditivo.

Gi? nel 2007, l?FDA ( Food and Drug Administration ) aveva imposto un Warning riguardo al rischio di perdita dell?udito nelle schede tecniche dei farmaci per il trattamento della disfunzione erettile, che agiscono inibendo la fosfodiesterasi di tipo 5 ( PDR-5 ).

Lo studio, compiuto dal Dipartimento di Epidemiologia dell?University of Alabama a Birmingham negli Stati Uniti, era basato su un campione della popolazione statunitense di uomini di et? uguale o superiore ai 40 anni.

Dall?analisi di 11.525 soggetti ? emerso che l?assunzione di Sildenafil era associata a un rischio ( odds ratio; OR ) di 2.05. Non ? stata invece trovata una relazione significativa tra danno uditivo e Tadalafil ( Cialis; OR=1.40 ) e Vardenafil ( Levitra; OR=0.88 ).

Fonte: Archives of Otolaryngology-Head and Neck Surgery, 2010

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Silodosina nel trattamento dell?iperplasia prostatica benigna

E? stata valutata la sicurezza nel lungo periodo della Silodosina, un antagonista altamente selettivo del recettore adrenergico alfa1A, negli uomini con segni e sintomi di iperplasia prostatica benigna.

I pazienti arruolati in questo studio di estensione in aperto avevano completato studi di 12 settimane, controllati con placebo, in cieco.
Per 40 settimane, i pazienti hanno ricevuto Silodosina 8 mg, 1 volta die, al momento della prima colazione.

Dei 661 partecipanti, il 65.8% ( n=435 ) ha completato lo studio, ed il 65.2% ( n=431 ) ha presentato 924 eventi avversi.
Non ? stato riscontrato nessun grave effetto indesiderato.
I pi? comuni eventi avversi sono stati: eiaculazione retrograda ( 20.9% ), diarrea ( 4.1% ), e nasofaringite ( 3.6% ).
L?ipotensione ortostatica e i capogiri si sono presentati, rispettivamente, nel 2.6% e nel 2.9% dei pazienti.

La percentuale dei pazienti con eventi avversi emergenti dal trattamento, stratificati per il precedente trattamento in doppio cieco ( placebo o Silodosina ) erano pi? alti per il trattamento attivo de novo ( cio? per i pazienti che in precedenza avevano ricevuto placebo, 71.5% ) rispetto a coloro che avevano continuato ad assumere la Silodosina ( 58.3% ).

Pi? pazienti, riceventi il farmaco de novo ( 7.5% ), rispetto al trattamento continuativo ( 1.9% ) hanno interrotto lo studio a causa di eiaculazione retrograda.

I cambiamenti medi del punteggio IPSS ( International Prostate Symptom Score ) dal basale alla 40.a settimana ( casi osservati ) ? stato di -4.5 per il trattamento de novo ( p<0.0001 ) e -1.6 per la continuazione del trattamento ( p<0.01 ). L?impiego della Silodosina ? risultato associato ad alta incidenza di eiaculazione retrograda; meno comuni i capogiri e l?ipotensione ortostatica. Marks LS et al, Urology 2009; 74: 1316-1322

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