Attenzione all’uso improprio dei PPI

Uno studio retrospettivo di coorte, avvalendosi dell’analisi del database amministrativo del New England Veterans Healthcare System nel periodo compreso tra 1 ottobre 2003 e 30 settembre 2008, ha identificato 1.166 pazienti ricoverati o ambulatoriali trattati con metronidazolo o vancomicina per una incidente infezione da Clostridium Difficilis (CDI). I 527 pazienti (45,2%) che avevano ricevuto anche un PPI orale entro 14 giorni dalla diagnosi sono stati confrontati con i rimanenti 639 (54,8%) che non avevano assunto l’inibitore di pompa per verificare se tale comportamento terapeutico potesse in qualche modo comportare una maggior facilit? di recidiva della CDI nei 15-90 giorni successivi alla sua comparsa. Questi i risultati:
1.la recidiva della CDI era maggiore nei pazienti co-trattati con PPI (25,2% vs 18,5%)
2.l’OR di tale evento ? risultato pari a 1,42 (95% CI di 1,11-1,82)
3.i soggetti di et? superiore agli 80 anni avevano, se co-trattati con PPI, un rischio maggiore di recidiva (HR 1,86; 95% CI, 1,15-3,01), pari a quello di coloro che non avevano utilizzato un trattamento specifico per la CDI (HR 1,71; 95% CI 1,11-1,64).
Le ovvie conclusioni degli autori sono state che l’uso di un PPI in corso di una incidente CDI ? gravato da un 42% di aumento di rischio di recidiva dell’infezione. Ne deriva la raccomandazione di un uso maggiormente appropriato dei PPI.

Arch Intern Med 2010;170(9):772-8.

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La necessit? di un trattamento rapido nello stroke

? stata pubblicata sul numero del 15 maggio della rivista The Lancet una nuova analisi dei dati aggregati di studi clinici randomizzati sull’attivatore tissutale del plasminogeno (tPA) nel trattamento dell’ictus ischemico acuto, che include gli studi pi? recenti; essa conferma il beneficio del trattamento a 4,5 ore, ma dimostra per la prima volta che il rischio pu? prevalere sul beneficio dopo tale finestra temporale. La nuova analisi aggiunge i dati del recente lavoro “European Cooperative Acute Stroke Study 3” (ECASS 3) e del “EchoPlanar Imaging Thrombolysis Evaluation Trial” (EPITET), portando il numero totale degli studi a 8 (NINDS trial 1 e 2, ECASS 1 e 2, ATLANTIS 1e 2). Si ? cos? valutato un pool totale di 3.670 pazienti (1.850 trattati con tPA e 1.820 con placebo); sono stati esaminati i risultati dei pazienti trattati entro 360 minuti (6 ore).
L’analisi aggiornata dimostra che il trattamento con trombolisi fino a 4,5 ore dall’esordio dell’ictus aumenta la probabilit? di esito favorevole. Il rischio di mortalit? ? aumentato con il tempo e sembra prevalere sul beneficio dopo 4,5 ore.? L’ emorragia parenchimale maggiore, forse la pi? temuta complicazione della terapia con tPA nell’ictus, si ? verificata in 96 pazienti trattati (5,2%) ed in 18 controlli (1,0%), ma senza alcuna chiara relazione tra il tempo d’esordio ictus e il trattamento (p = 0,4140). ? interessante notare che i tassi di emorragia parenchimale erano indipendenti dal tempo al trattamento, ma la mortalit? ? aumentata con la terapia trombolitica dopo 4,5 ore, a suggerire che possono essere coinvolti altri meccanismi sottostanti all’aumento di mortalit?.
Sebbene l’efficacia della terapia trombolitica sia fuori discussione, il trattamento continua a non essere di aiuto per una grande percentuale di pazienti. L’ analisi mostra che circa 5 pazienti devono essere trattati entro 0-90 minuti, 9 entro 91-180 minuti, 15 tra i 181 e 270 minuti dall’insorgenza dei sintomi perch? si abbia un outcome favorevole (NNT); l’esito favorevole sembra diminuire di un fattore 2 per ogni periodo di 90 minuti dall’inizio dei sintomi, con un aumento di mortalit? dopo le 4,5 ore. Si delinea, cos?, per la prima volta, il profilo temporale del rapporto beneficio/danno dell’alteplase in pazienti selezionati.

Lancet 2010;375:1695-1703.
Lancet 2010;375:1667-1668.

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HF: attenzione ad anemia e deficit marziale

Nella Sezione dell’ACP Journal Club annessa all’ultimo numero degli Annals of Internal Medicine [April 20,2010;152(8)] viene riportato un interessante commento al lavoro che Anker SD et al. hanno pubblicato verso la fine del 2009 sul N Engl J Med (Ferric carboxymaltose in patients with heart failure and iron deficiency. N Engl J Med 2009;361:2436-48.) relativo a una problematica clinica molto spesso sottovalutata: la terapia marziale ben condotta pu? migliorare i sintomi nei pazienti con scompenso cardiaco cronico (HF), ridotta frazione di eiezione ventricolare sinistra e carenza di ferro?
Lo studio multicentrico, randomizzato in doppio cieco, controllato con placebo e condotto con la metodica dell’intention-to-treat, ha avuto un periodo di follow-up di 24 settimane per i risultati di efficacia e di 26 settimane per i risultati di sicurezza e ha interessato 461 pazienti – di et? media 68 anni, 53% di sesso femminile – con HF cronico, frazione di eiezione ventricolare sinistra =40% (classe NYHA III) o =45% (NYHA classe II), ferritina sierica <10 mg /dL e con livello di emoglobina da 9,5 a 13,5 g / dL (sono stati cio? valutati i pazienti con sola carenza marziale e quelli con presenza associata di anemia).
Agli oltre 300 pazienti del gruppo “attivo” di trattamento sono stati somministrati 200 mg di ferro per via endovenosa alla settimana fino alla normalizzazione dei depositi marziali e successivamente ogni 4 settimane fino a 24 settimane, con dosaggio aggiustato per il metabolismo del ferro e di emoglobina.
Sono stati valutati la qualit? della vita, le modificazioni della classe funzionale NYHA e il test del cammino in 6 minuti.
I principali risultati possono essere cos? sintetizzati:
1.a 24 settimane, il gruppo trattato con ferro ha migliorato tanto la classe funzionale NYHA, quanto la qualit? di vita (KCCQ punteggio medio 66 vs 59, p <0,001; EQ-5D punteggio medio 63 vs 57, p <0,001); anche i risultati del test di autovalutazione (PGA) e di quello del? cammino [maggiore distanza percorsa in 6 minuti (media 313 vs 277 m, p <0,001)] sono risultati migliori
2.i gruppi dei pazienti trattati e dei controlli non hanno evidenziato differenze significative per il ricovero o morte a 26 settimane
3.i miglioramenti nelle valutazioni NYHA e del questionario di autovalutazione erano simili per i sottogruppi di pazienti con o senza anemia (p = 0,98 e p = 0,51 per l’interazione, rispettivamente).
Nel commento, a firma di Robb D. Kociol e di L. Newby Kristin, del Duke Clinical Research Institute Durham, North Carolina – USA, pur sottolineando che vi sono le basi fisiopatologiche per ritenere appropriato un approccio di questo tipo (che dimostrerebbe fra l’altro come il miglioramento non sia imputabile al solo aumento dei livelli di Hb, visto che si ? riscontrato anche nei pazienti non anemici), sono riportate alcune considerazioni metodologiche sullo studio, relative alla validit? pi? o meno acclarata dei questionari di autovalutazione, alla scarsit? della casistica e alla non uniformit? delle cause di HF, elementi che non consentono di consigliare con un’adeguata “forza” tale metodologia terapeutica.
Rimane comunque il problema che troppo spesso il clinico sottovaluta gli aspetti di base del paziente, in questo caso un deficit marziale fino all’anemia, concentrandosi unicamente sulla sola problematica emergente.

ACP Journal Club 2010;152(4).

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La qualit? di vita in pazienti con artrite reumatoide

La compromissione della qualit? di vita (QdV) nell’artrite reumatoide (AR) ? considerata elemento prognostico fondamentale, condizionante sia le richieste assistenziali che il tipo di trattamento. Attualmente le maggiori associazioni scientifiche mondiali raccomandano, per valutare il grado di compromissione dello stato di salute del paziente, l’Arthritis Impact Measurement Scales 2 (AIMS2), un questionario autosomministrato, composto da 78 quesiti distribuiti in 12 sottoscale. Mediante l’impiego della versione italiana del questionario, “Reumatismo” ha recentemente pubblicato una indagine volta a valutare l’impatto dell’AR sulla QdV in un’ampia casistica di pazienti reclutati attraverso il coinvolgimento di 300 Medici di Medicina Generale (MMG). Strumenti di rilevazione sono stati: una scheda per la verifica della diagnosi e delle comorbilit?, il questionario di autovalutazione della qualit? di vita, il questionario socio-psicologico di valutazione del tipo di terapia e dei costi. L’analisi dei dati raccolti ha permesso di analizzare il vissuto quotidiano e le difficolt? di questi pazienti, preoccupati per le loro condizioni di salute. Il campione presenta il punteggio medio pi? alto nella scala relativa alla percezione della salute. Il variare del livello attuale di attivit? dell’artrite misurato dal RADAI, con l’avvicendarsi di fasi acute e fasi di remissione, pesa in modo decisivo sulla gestione delle attivit? quotidiane, come mobilit?, cura della casa, della propria persona, funzionalit? delle braccia, delle mani e delle dita. La versione italiana dell’AIMS2 mostra, analogamente alla versione originale, buone caratteristiche di validit? e di affidabilit?. Lo studio ha evidenziato un’ampia variabilit? di condizioni cliniche ma nel complesso ha confermato che la prevenzione e il trattamento della disabilit? dovrebbero essere seriamente pianificati e uno strumento come l’AIMS2, adattato alla situazione italiana, si ? dimostrato utile e a basso costo.

Reumatismo 2010;62(1):12-33.

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Sindrome coronarica acuta nei diabetici

I pazienti diabetici che presentano una sindrome coronarica acuta (ACS) hanno una prognosi particolarmente sfavorevole e un aumentato rischio di futuri eventi avversi aterotrombotici in massima parte correlato al maggior contributo di una aumentata reattivit? piastrinica.
Per tale motivo due Colleghi Cardiologi del Saint Luke’s Mid America Heart Institute di Kansas City hanno recentemente pubblicato una interessante review sull’argomento che, partendo da considerazioni fisiopatologiche e valutando nello specifico gli attuali trattamenti, giunge alle seguenti conclusioni (facilmente prevedibili, ma che possono rappresentare una ottima base di conoscenza per il miglior management possibile di questi particolari pazienti)
1.?i pazienti con diabete traggono maggior beneficio da procedure di rivascolarizzazione pi? precoci, e cio? PCI primaria se si presentano con STEMI, precoce angiografia invasiva con rivascolarizzazione se si presentano con ACS senza elevazione del segmento ST
2.?nei pazienti diabetici ? dimostrato che l’applicazione di uno stent medicato in corso di PCI primaria per STEMI riduce significativamente fino a 2 anni il rischio di ri-stenosi
3.?anche un trattamento antiaggregante piastrinico pi? aggressivo ? da preferire
l’associazione pre-procedurale di Clopidogrel Inibitori della GP IIb/IIIa ha dato risultati migliori rispetto all’utilizzo separato dei due antiaggreganti
nel Triton Timi 38 Trial l’efficacia del Prasugrel ? risultata significativamente migliore di quella del Clopidogrel senza alcun aumento di sanguinamenti.
Questi risultati sottolineano la necessit? di terapie individualizzate, strategie di rivascolarizzazione e terapia antipiastrinica pi? aggressiva nei pazienti diabetici che presentano una ACS.

Acute Coronary Syndrome in the Patient with Diabetes: Is the Management Different? Amit P. Amin, Steven P. Marso. Curr Cardiol Rep 2010 May 6.

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Voltare pagina: no all’aspirina in prevenzione primaria

Basse dosi giornaliere di acido acetilsalicilico (ASA) sono diffusamente prescritte nella prevenzione primaria e secondaria delle patologie cardiovascolari; tuttavia, mentre nella prevenzione secondaria i dati sono ormai acquisiti, per quella primaria permangono molti dubbi. Dubbi confermati da un lavoro comparso sul BMJ che non a caso ? stato inserito nella sezione “voltare pagina”.
Infatti viene riportata una metanalisi di 6 trial randomizzati e controllati (95.000 pazienti coinvolti), dove si evidenzia come l’ASA utilizzato in prevenzione primaria riduca gli eventi cardiovascolari/anno nella misura dello 0,07% ma a fronte di un incremento del 0,03% di emorragie gastriche maggiori, senza una correlazione significativa a variabili quali et?, sesso, pressione arteriosa, diabete e aumento del rischio cardiovascolare.
Un’altra metanalisi riguardante trial su antiaggreganti nella prevenzione primaria e secondaria in pazienti ipertesi dimostra come l’ASA non riduce l’incidenza di stroke e di tutti gli eventi cardiovascolari rispetto al placebo. Alle stesse conclusioni giunge una review su pazienti diabetici, tanto che la Scottish Intercollegiate Guidelines Network non raccomanda l’uso di ASA come prevenzione primaria in questi pazienti. Tuttavia la British Hypertension Society ha recentemente riaffermato l’uso dell’ASA nella prevenzione primaria e secondaria, ma sottolineando come i fattori di rischio che predicono gli eventi vascolari correlano anche nella predizione di eventi emorragici. In conclusione, attualmente non vi sono evidenze che supportino l’uso dell’ASA nella prevenzione primaria delle malattie cardiovascolari, anche in sottogruppi con fattori di rischio come diabete o ipertensione arteriosa, ma va da s? che tutti i pazienti andrebbero valutati singolarmente.

BMJ 2010;340:1805.

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Malattia epatica cronica: elevata incidenza di deficienza di Vitamina-D

La deficienza di Vitamina-D ? stata associata a epatopatia colestatica, cos? come a cirrosi biliare primaria.
Alcuni studi hanno suggerito che la cirrosi pu? predisporre i pazienti allo sviluppo di osteoporosi a causa dell?alterata omeostasi del Calcio e della Vitamina D.

Ricercatori dell?University of Tennessee a Menphis negli Stati Uniti, hanno determinato la prevalenza di deficienza di Vitamina D nei pazienti con malattia epatica cronica.

Sono stati misurati i livelli di 25-idrossivitamina D a 118 pazienti consecutivi ( 43 con epatite C e cirrosi, 57 con epatite C ma senza cirrosi, e 18 con cirrosi non-correlata all?epatite C ).

La gravit? della deficienza di Vitamina D ? stata classificata come lieve ( 20-32 ng/ml ), moderata ( 7-19 ng/ml ) o grave ( inferiore a 7 ng/ml ); i valori normali sono superiori a 32 ng/ml.

E? stato osservato che il 92.4% dei pazienti aveva un certo grado di deficienza di Vitamina D.
Nel gruppo epatite C e cirrosi, il 16.3% aveva una deficienza lieve di Vitamina D, moderata nel 48.8% e grave nel 30.2%.

Nel gruppo non-cirrotico con epatite C, la deficienza di Vitamina D in forma lieve era presente nel 22.8% dei pazienti, in forma moderata nel 52.6% e nella forma grave nel 14%.

Nel gruppo cirrosi non-correlata all?epatite C, la forma lieve di deficienza era presente nel 38.9% dei pazienti, la forma moderata nel 27.8%, e la forma grave nel 27.8%.

Una grave deficienza di Vitamina D era pi? comune tra i pazienti con cirrosi rispetto ai non-cirrotici ( 29.5% versus 14.1%; p=0.05 ).
Il genere femminile, la razza afro-americana, e la cirrosi erano predittori indipendenti di grave deficienza di Vitamina D nella malattia epatica cronica.

La deficienza di Vitamina D ? universale ( 92% ) tra i pazienti con malattia epatica, e almeno un terzo di loro soffre di grave deficienza di Vitamina D.

Arteh J et al, Dig Dis Sci 2009; Epub ahead of print

Link: Epatologia.net

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Cioccolato nero e ipertensione, quali implicazioni?

Molti studi hanno documentato l’effetto favorevole del cioccolato nero sull’insulino-sensibilit?, sulla funzione endoteliale e sugli eventi cardiovascolari. Sembra anche che l’assunzione con la dieta di cioccolato nero (si parla solo di cioccolato nero) abbia un effetto benefico sull’ipertensione e sulla pre-ipertensione, ma gli studi sono ancora poco numerosi e i risultati non sono univoci. Hypertension ha pubblicato nel numero di giugno una revisione critica di 13 studi sull’argomento (8 in aperto e 6 in doppio cieco), da cui risulta che il cioccolato nero ha abbassato la pressione in 6 dei 7 studi in aperto, ma solo in uno degli studi in doppio cieco. ? quindi un effetto placebo? Non sembra, perch? gli studi in doppio cieco hanno utilizzato metodologie criticabili e comunque sono di difficile attuazione in quanto gli elementi bioattivi del cacao sono riconoscibili al sapore. Inoltre intervengono importanti elementi socioculturali, tra cui la percentuale di cacao, la preparazione stessa del cioccolato: i procedimenti non sono tutti uguali, sono in parte segreti, e possono pesantemente influire sui principi attivi. Nel complesso comunque l’effetto favorevole sull’ipertensione sembra esserci, forse per un’aumentata produzione di NO, ma molti quesiti rimangono da definire: quali sono i dosaggi migliori? Quali le percentuali di cacao migliori? A quale tipo di popolazione ci si deve rivolgere? C’? una marca di cioccolato (o un modo di preparazione) migliore delle altre? Quali sono gli effetti avversi? Rispondere a queste domande pu? portare a piacevoli raccomandazioni, una volta tanto, per milioni di soggetti ipertesi e pre-ipertesi.

Hypertension 2010;55:1289-1295.

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Colite collagenosa: trattamento a lungo termine con Budesonide

Un gruppo di Ricercatori in Danimarca ha condotto uno studio per valutare l?efficacia e la sicurezza della terapia a lungo termine con Budesonide per il mantenimento della remissione clinica in pazienti con colite collagenosa.

Lo studio randomizzato, controllato con placebo, ha interessato su 42 pazienti con colite collagenosa confermata istologicamente e diarrea ( pi? di 3 scariche al giorno ).

I pazienti in remissione clinica dopo 6 settimane di terapia orale con Budesonide ( Entocort CIR capsule, 9 mg/die ) hanno ricevuto, in doppio cieco, una terapia di mantenimento con Budesonide 6 mg/giorno, oppure placebo.
In seguito i pazienti sono entrati in un periodo di follow-up di 24 settimane.

La principale misura di esito era la proporzione di pazienti in remissione clinica ( 3 o meno scariche al giorno ) alla fine della terapia di mantenimento.

Un totale di 34 pazienti in remissione alla settimana 6 sono stati assegnati in maniera casuale a ricevere Budesonide 6 mg al giorno ( n=17 ) oppure placebo ( n=17 ).

Dopo 24 settimane di trattamento di mantenimento le proporzione di pazienti in remissione clinica ? stata del 76.5% con Budesonide e del 12% con placebo ( p<0.001 ). A 48 settimane ( fine del periodo di follow-up senza alcun trattamento ) questi valori sono passati, rispettivamente, a 23.5% e a 12%, ( p=0.6 ). Il tempo mediano alla recidiva dopo il termine del trattamento attivo ( 6 pi? 24 settimane nel gruppo Budesonide; 6 settimane nel gruppo placebo ) ? stato di 39 e 38 settimane, rispettivamente. Il trattamento a lungo termine con Budesonide ? risultato ben tollerato. In conclusione, la terapia di mantenimento a lungo termine con Budesonide orale ? efficace e ben tollerata nella prevenzione della recidiva in pazienti con colite collagenosa.
Il rischio di recidiva dopo 24 settimane di trattamento di mantenimento ? simile a quella osservata dopo 6 settimane di terapia di induzione.

Bonderup OK et al, Gut 2009; 58: 68-72

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Pancreatite autoimmune: trattamento steroideo standard

Ricercatori giapponesi hanno portato a termine un sondaggio retrospettivo in 17 Centri in Giappone per stabilire un appropriato regime di trattamento steroideo per la pancreatite autoimmune.

Le principali misure di esito erano i tassi di remissione e di recidiva.

Dei 563 pazienti con pancreatite autoimmune, 459 ( 82% ) sono stati sottoposti a trattamento steroideo.

Il tasso di remissione della pancreatite autoimmune trattata con steroidi ? stato del 98% ed ? risultato significativamente pi? alto rispetto a quello dei pazienti senza trattamento steroideo ( 74%; 77/104; p<0.001 ). Il trattamento con steroidi ? stato somministrato per ittero ostruttivo ( 60% ), dolore addominale ( 11% ), lesioni extra-pancreatiche associate con l?eccezione del dotto biliare (11%) e ingrossamento diffuso del pancreas ( 10% ). Non ? stata osservata una relazione tra il periodo necessario a raggiungere la remissione e la dose iniziale ( 30 mg/die vs 40 mg/die ) di Prednisolone. Il trattamento steroideo di mantenimento ? stato somministrato all?82% dei 459 pazienti trattati con steroidi e la terapia steroidea ? stata interrotta in 104 pazienti. Il tasso di recidiva nei pazienti con pancreatite autoimmune in trattamento di mantenimento ? stato del 23% ed ? risultato significativamente pi? basso di quello osservato nei pazienti che avevano interrotto la terapia di mantenimento ( 34%; p=0.048 ). Dall?inizio del trattamento steroideo, il 56% dei pazienti ha mostrato recidiva entro 1 anno e il 92% entro 3 anni. Degli 89 pazienti con recidiva, il 93% sono stati nuovamente trattati con steroidi e tale trattamento si ? dimostrato efficace nel 97% dei casi. In conclusione, la maggiore indicazione per il trattamento con steroidi della pancreatite autoimmune ? la presenza di sintomi.
E? raccomandata una dose iniziale di Prednisolone di 0.6 mg/kg/die che deve essere in seguito diminuita fino alla dose di mantenimento nell?arco di 3-6 mesi.
Il trattamento di mantenimento con basse dosi di steroidi riduce, ma non elimina le recidive.

Kamisawa T et al, Gut 2009; 58: 1504-1507

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